Purtroppo sono generalmente altri gli argomenti che appassionano. Le politiche commerciali, le risposte all’aggressività dei discount, le prospettive della marca del distributore, chi sale e chi scende dal podio, la gara per il migliore fatturato al metro quadro. La GDO è una “bolla” interessante dove nonostante tutto e a fatica i conti tornano quasi sempre. Difficile aprire una riflessione vera sull’evoluzione del contesto sociale ed economico. Il comparto (e non solo) dovrà però affrontare tre sfide che non ha mai dovuto affrontare in passato e che contribuiranno a ridisegnarne il nuovo profilo sia in termini di offerta che di formati distributivi. E quindi chi conquisterà la leadership nei diversi territori. Il declino abitativo e la struttura dei servizi nei centri città, l’abbandono di intere zone del Paese e, infine la demografia che inciderà sulla quantità e sulla qualità dell’occupazione addetta oltreché sulla composizione dei clienti. A questo andrebbe aggiunto l’eccessiva concentrazione di insegne presente in diversi territori che hanno già portato un esperto del comparto come Mario Gasbarrino a stimare in tremila punti vendita già da chiudere oggi. E nel ripensamento già in essere su location, offerta, formati e servizi di consegna si dovranno adattare al contesto.
Tra il 2012 e il 2024, in Italia, sono spariti quasi 118mila negozi al dettaglio. Nei centri città crescono i costi degli affitti non solo per gli esercizi commerciali tradizionali e molte persone tendono a scegliere le periferie e l’hinterland a causa dei costi abitativi ma anche per poter contare su più spazio e una vivibilità complessivamente migliore. Anziani, spesso soli e con problemi di salute che hanno bisogno anche di ricevere la spesa a casa, nuclei familiari più piccoli o provenienti da altre culture e abitudini alimentari cambiano il profilo delle città. In conseguenza di questa evoluzione la distribuzione dovrà accompagnare questi flussi costruendo un’offerta commerciale adeguata.
Da un altro punto di vista capisco la sindaca di Langosco. 360 anime sulle rive del Sesia al confine occidentale della provincia di Pavia, il suo paese è rimasto senza negozi. C’è la farmacia, c’è l’ufficio postale nuovo di zecca, ma nessuna insegna dove poter fare la spesa. Niente pane, niente latte. La capisco perché dove passo l’estate le anime residenti sono meno di cinquanta (esclusi gli orsi). Il negozio più vicino è a sette chilometri. I muri per ospitare una piccola rivendita ci sono, pur completati da molti anni ma diatribe burocratiche tra enti diversi, ne bloccano il decollo. A dieci minuti di auto si arriva alla Famiglia Cooperativa di Malè. Poco distante c’è l’IperPoli e l’Eurospar. Il mondo è a pochi chilometri.
E siamo in Trentino dove il livello di vivibilità è di servizi è decisamente più alto che altrove. Per chi vive nei piccoli paesi o ha le sue attività in quei luoghi il tema è all’ordine del giorno. 33 comuni sono, più di altri, a rischio spopolamento e la provincia ha stanziato fino a 100mila euro per chi intende trasferirsi e promette di abitare quei borghi e c’è chi ha già trasformato i suoi punti vendita di alcune zone a rischio in centri servizi polivalenti al servizio della popolazione residente. Parlo per quello che conosco.
In Italia abbiamo 4 mila comuni a rischio di spopolamento. Eppure nel nuovo Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 (PSNAI) si legge nell’obiettivo 4: “Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma nemmeno essere abbandonate a se stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le accompagni in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento”. È la nuova linea di indirizzo strategico dello Stato verso centinaia di Comuni italiani, per lo più montani, collinari o rurali: si rinuncia ufficialmente all’idea di invertire la tendenza allo spopolamento. Si pianifica come accompagnarne il declino. Io credo sia un problema serio. Sono cinque gli indicatori considerati utili per la lettura del rischio di spopolamento: Densità abitativa, Tasso di crescita naturale, Tasso migratorio totale, Indice di vecchiaia, Quota % di popolazione in età attiva.
In Lombardia il fenomeno dello spopolamento demografico, nel prossimo decennio, coinvolgerà soprattutto comuni delle aree montane della regione, dell’Oltrepò Pavese e della bassa fascia padana. Sono 265 i comuni lombardi ad alto rischio di spopolamento, pari al 18% del totale dei comuni lombardi. A questi si aggiungono ulteriori 255 comuni a rischio moderato di spopolamento (17%). Dal 2002 ad oggi la popolazione residente si è ridotta complessivamente di quasi 11 punti. In quelle aree anche i punti vendita andrebbero ripensati in termini di offerta di servizi alla collettività. Ed è ovvio che andrebbero sostenuti come già avviene laddove la sensibilità è maggiore.
Infine occorrerà prendere atto che nei prossimi cinque anni con l’attuale tasso di occupazione avremo 700 mila lavoratori in meno. 1,8 milioni nel decennio successivo e di altri 1,6 milioni dal 2040 al 2050 secondo Lilia Cavallari, presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio, audita ieri in Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti della transizione demografica. Cavallari ricorda che la popolazione attiva, a un certo punto (si stima intorno al 2050) sarà superata da quella in pensione e che, ancora oggi, ci sono in Italia 12 milioni di «inattivi» tra i 15 e i 64 anni: in percentuale, circa 8 punti in più di Francia e Spagna e addirittura 15 in più rispetto alla Germania.
Per questo credo sia necessario una presa d’atto della dimensione dei problemi che ci attendono e che occorre un grande lavoro di riorientamento culturale per l’intera società. La Grande Distribuzione ha tutto l’interesse ad essere parte attiva e protagonista su questi temi. È il classico compito di cui le associazione di categoria dovrebbero farsi carico: capire il contesto e offrire ai propri associati un percorso di cambiamento. Lo faranno?