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Fra qualche anno forse qualcuno dirà che non li ha visti arrivare. Per ora la GDO li snobba. Nel dibattito,  un po’ per addetti ai lavori, tra online e offline e tra condizioni d lavoro in linea con i CCNL e contratti pirata, di nuova prossimità da riscoprire, di loro non si parla volentieri. Nel comparto sembra prevalere l’idea che il campionato principale sia a due partecipanti: GDO vs. Discount. In realtà il perimetro è un po’ più complesso. Da un lato spingono i grandi player dell’online a cambiare le regole del gioco. Dall’altro l’immigrazione rilancia un commercio povero che porta con sé lavoro altrettanto povero che cambia anch’esso le regole del gioco.

È lo scontro tra la fobia della resa al metro quadro (l’ossessione dei costi per l’insegna) con chi punta all’esperienza al metro quadro (come valorizzarla per il cliente) per riposizionarsi. Chi si intestardisce sulla prima si troverà, prima o poi,  in competizione con chi gioca con altre regole. A monte o a valle. Stesso mercato, stesse regole, è una pia illusione. Chi sceglie la seconda avrà intuito come ingaggiare il cliente e messo a terra  le contromisure per affrontare il futuro. Oggi parliamo di chi è in fondo al barile. I cosiddetti Minimarket o Bangla Market come sono chiamati in gergo popolare che stanno sorgendo come funghi nelle nostre città.

È l’altra “prossimità”. Quella che non fa notizia. Oltre al lavoratore povero indigeno, di cui si parla spesso, entra in campo  l’imprenditore povero, immigrato. Il primo deve adattarsi al sistema, il secondo se lo modella su misura. Se fanno consegna a domicilio non hanno i colori dei rider, gli autisti che consegnano a loro la merce sono altrettanto invisibili. Aprono e chiudono spesso cambiando titolare più velocemente di ogni potenziale controllo fiscale. Lavorano anche 16 ore al giorno. Spesso proprietario e garzoni vivono nel retrobottega.  Negozi aperti fino a notte fonda, prezzi stracciati e merce di tutti i tipi stipata in pochi metri quadri. Il monopolio del commercio di strada, però è condiviso con i cinesi. In città con i nord africani che vendono frutta e verdura.

Se restiamo sui bangladesi sono concentrati nel Nord Italia (il 15% in Lombardia e il 12% in Veneto, circa 15 mila quelli regolari residenti tra Milano e provincia), impiegati in un caso su due nel commercio, con un’età media di 30 anni. Ne ho parlato recentemente con alcuni amici di Civitavecchia. Nella città laziale  ci sono già una trentina di minimarket prevalentemente nel centro storico. La loro diffusione è la spia di una desertificazione commerciale non gestita che non riguarda solo quella città ma molte realtà urbane italiane, a partire da Roma. Le botteghe storiche chiudono, i negozi tradizionali arrancano, e al loro posto arrivano attività capaci di sostenersi con formule diverse da quelle a cui si è abituati. «È un fenomeno che non riguarda solo Civitavecchia – osserva Cristiano Avolio della Confcommercio locale – ma molte città italiane anche  a vocazione turistica.

A spingere sono diversi fattori: la crisi del commercio tradizionale, stipendi fermi a fronte di spese crescenti, costi insostenibili per aprire un negozio “classico”. I minimarket, a gestione familiare, con orari flessibili e spese ridotte, risultano così più competitivi». Un aumento di oltre mille attività in dieci anni. Questa è la cifra che rende l’idea della velocità di espansione dei bangla market ad esempio a Roma. La Capitale rappresenta la prima città in Italia per presenza di minimarket gestiti da cittadini di origine bangladese, catalizzando quasi il 40% del totale con oltre  1300 esercizi. (fonte infocamere). Che sia pieno giorno o notte fonda, i bangladesi tengono le serrande dei negozi sempre alzate, azzerando così la concorrenza.

A Genova la situazione non è molto diversa. Secondo Oscar Cattaneo, vicepresidente vicario di Ascom Genova: “Nel 2023 i negozi di ortofrutta a Genova erano 513, di cui 241 gestiti da stranieri. Nel 2024 siamo saliti a 550 ortofrutta, di cui 267 gestiti da stranieri. Tra un anno e l’altro, quindi, gli ortofrutta sono aumentati complessivamente di 37 unità, di cui 26 gestiti da stranieri”. L’ortofrutta è una delle poche attività in crescita da un anno all’altro, a fronte di un crollo di altre categorie: gli alimentari tradizionali, le mercerie, le cartolerie, le librerie, le macellerie e i negozi di pasta fresca. Il mini market generalista in chiave etnica viaggia invece al contrario: “È il settore nel quale si richiedono meno investimenti – spiega Cattaneo – e nel quale non servono attrezzature particolari. Non c’è un grande impegno dal punto di vista economico e questa crescita esponenziale ci preoccupa perché è scesa la qualità e perché tutto questo sta cambiando la geografia dei quartieri di Genova”. Grazie anche alla vendita di alcol a basso costo, infatti, i bangla market si trasformano spesso in calamite di malamovida.

Se i bangladesi si sono specializzati nella vendita di alimentari, i cinesi sono invece più forti nel commercio al dettaglio con oltre 13.000 imprese individuali attive. Si tratta principalmente di magazzini di varie dimensioni che offrono articoli di vario tipo, dai casalinghi all’elettronica, passando per cosmetici e ferramenta. Senza dimenticare l’abbigliamento, che però vive di un successo indipendente, dal momento che i negozi specializzati solo in questo settore coprono il 40% delle imprese totali nel Paese. La crescita delle micro imprese straniere va in parallelo con quella del fenomeno migratorio. Interessante  l’ultimo rapporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulla presenza bangladesi nel nostro Paese. Proprio in virtù di una propensione “all’imprenditoria nel settore agro-alimentare”, la maggior parte dei bangladesi che arriva in Italia sceglie di aprire un minimarket. La procedura di avvio per una ditta individuale nel settore alimentare prevede l’apertura di una partita Iva, la richiesta di autorizzazioni al Comune e l’iscrizione alla Camera di commercio. Un giro di pratiche che richiede circa 1300 euro.

Certo, bisogna aggiungere la spesa per la merce e l’affitto del locale. Anche per i cinesi l’avvio dell’impresa è reso possibile grazie alla comunità d’origine. Come chiarisce Federico Masini, docente di Lingua e letteratura cinese all’Università La Sapienza di Roma in una intervista del 2024, per loro vige il “principio del prestito familiare”. Un ciclo che non si esaurisce quando il debito viene ripagato poiché l’obiettivo è accumulare le risorse necessarie per “sostenere le generazioni successive”. Una logica di “riscatto economico” derivante dal lavoro nel commercio, strada per il “miglioramento del proprio tenore di vita che è lo scopo dell’esistenza”.

Stando all’ultimo Rapporto del Ministero  del Lavoro sulla presenza di migranti, la maggior parte dei cinesi che vive in Italia proviene dalla regione dello Zhejiang, in passato una delle aree più povere del Paese. È lì che nasce quel modello imprenditoriale fatto di piccole aziende individuali a carattere familiare, esportato dai migranti dalla fine degli anni Settanta, quando il governo cinese avvia una politica più aperta sull’emigrazione. È in quel periodo che, ricorda Masini, la Cina diventa “fabbrica del mondo”, producendo quella “merce a basso costo” che “ha inondato i nostri mercati”.

Chi volesse approfondire le tematiche relative all’economia dell’immigrazione può consultare il Rapporto annuale 2024 presentato dalla fondazione Leone Moressa che si concentra sulle “conseguenze economiche della recessione demografica”. (il report 2025 sarà disponibile a novembre). Di seguito, alcune delle evidenze del Rapporto, mentre sono disponibili online l’Infografica 2024Executive Summary in italiano e in inglese, il comunicato stampa con i dati principali e  le tabelle provinciali 2024. Insomma un fenomeno, quello dell’immigrazione,  tutt’altro che trascurabile destinato a disegnare una parte dell’evoluzione futura del comparto del commercio.  

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