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La perdita del potere di acquisto delle retribuzioni, la presenza di quote significative di lavoro povero,  sta spingendo la politica, dopo la magistratura,  ad inserirsi nel necessario confronto  tra le parti sociali con decisioni e proposte che, oltre a non risolvere nulla, rischiano di allontanare le poche soluzioni praticabili. Gli stessi sindacati confederali  (chi più, chi meno) vista la difficoltà nel rapporto con i lavoratori a ripercorrere strade rivendicative tradizionali, e con le aziende, sempre più decise e numerose a voler far da sole, si accodano a queste esternazioni sottovalutando il rischio che finisca in soffitta quello che personalmente ritengo lo strumento principale, il CCNL su cui, al contrario,  andrebbe rivolta tutta l’energia necessaria e condivisa per una sua indispensabile trasformazione.

Innanzitutto ne andrebbe sottolineata la centralità e, andrebbe fatta pulizia, di tutti i succedanei in dumping che sono stati introdotti perché le parti sociali non hanno avuto il coraggio di affrontarne e attualizzarne i contenuti. Ci avevano provato i metalmeccanici nel 2016 su inquadramento e modalità di erogazione salariale, a guardare avanti, e, storicamente, lo stesso contratto nazionale del terziario che ha da sempre  colto nella bilateralità e negli strumenti che ne discendono, non solo i prodromi di un sistema  antesignano dell’attuale legge sulla partecipazione appena licenziata dal Parlamento,  ma nei contenuti innovativi sul welfare sanitario e previdenziale cercava di sottolineare, pur con qualche limite oggettivo nella gestione, la volontà di riconoscere il valore della  partnership provando a superare, almeno su alcune materie importanti, la contrapposizione pregiudiziale tra le parti.

Condivido  Marco Barbieri Segretario generale di Confcommercio quando sottolinea che «Bisogna valorizzare  il Ccnl che contiene tutto: una valutazione ottimale delle tabelle salariali e il welfare aziendale». Nel caso del CCNL del terziario, aggiungo che, oltre alla creazione della massa critica necessaria alla costruzione di un welfare importante e potenzialmente in grado di coinvolgere fino a cinque milioni di lavoratori, si propone, di fatto,  come punto di riferimento salariale già complessivamente superiore alle proposte della politica sul salario minimo e quindi ne potrebbe rappresentare una sintesi in avanti, oggi per il terziario di mercato, domani, all’interno di  una  visione confederale per l’industria, per l’artigianato  o per il settore primario nel loro complesso.

Un salario minimo di riferimento confederale per i diversi comparti consentirebbe di superare le diatribe di principio e di evitare che, nello scontro salario minimo di legge o no, il sistema si avviti su sé stesso. Per questo stabilire salari locali maggiorati, come propone Fratelli d’Italia in Lombardia, senza tenere conto delle differenze tra comparti e dimensione di impresa o lasciare che le imprese o associazioni minoritarie percorrano il “fai da te” con forme di dumping tra CCNL è un errore che quello si, rischia di trasformare in una giungla il rapporto di lavoro. Altra cosa è la possibilità per le imprese multilocalizzate di individuare al proprio interno risposte economiche o di supporto ai propri collaboratori  (sostegno affitto, buoni spesa, asili nido, incentivi, ecc.) per proporre o mantenere condizioni di miglior favore.

Barbieri propone un passaggio fondamentale nell’ individuare  una norma che identifichi quale sia la contrattazione più rappresentativa. Secondo lui la 580 del 1993, la legge istitutiva delle Camere di commercio. “I contratti di chi siede nelle Camere possono essere presi a modello» conclude. E così siamo ritornati al punto di partenza. Il giro di boa fondamentale dove innanzitutto va definito  “chi rappresenta chi”. Da una parte e dall’altra del tavolo.  Le parti sociali anziché fare come i polli di manzoniana memoria dovrebbero elaborare un indirizzo comune e con questo andare al confronto con il Governo. Il tema va visto nel suo complesso. Da una parte la perdita del potere d’acquisto dei salari. Dall’altra le imprese che faticano a trovare lavoratori. Se stiamo nel nostro comparto il commercio, non solo il retail, è un business di persone che servono altre persone, e di conseguenza vive equilibrio solo  avendo dipendenti il più soddisfatti possibile, e consumatori che hanno soldi e voglia di spenderli.

Molti osservatori si fermano alle  dinamiche concorrenziali, il fatturato al metro quadro, l’efficienza maggiore o minore dei concorrenti, i margini. Il contesto lo danno per scontato e immutabile. Tutte riflessioni  importanti ma che non sono nulla rispetto alle preoccupazioni  del consumatore  che pensa con speranza o paura al  futuro, alle sue spese fisse, al rischio di disoccupazione, alla sua famiglia. I problemi principali dell’intero comparto sono essenzialmente un portato dell’impoverimento della classe media, la sua minore capacità di spesa, la difficoltà delle imprese a trovare nuovi collaboratori, quindi le risposte ai cambiamenti imposti dalla demografia, il sistema fiscale e contributivo, locale e centrale.

Il futuro del retail, di chi sopravviverà, chi chiuderà o cederà l’attività passa inevitabilmente anche da qui. Ed è solo un sistema di rappresentanza forte e coeso, dotato di una visione del futuro che può trovare risposte. Altrimenti nel breve vince la deregulation selvaggia dove i più forti se la cavano e gli altri soccombono. Ma, nel lungo periodo, perdono tutti. 

One Comment

  • Luca Campolongo ha detto:

    Gentle Dr. Sassi,
    concordo con Lei sulla necessità di forme innovative per ridare potere d’acquisto ai lavoratori, anche se questo va inevitabilmente a cozzare con la svalutazione interna necessaria al mantenimento della competitività sui mercati internazionali dovuta al fatto che l’Italia vive in un rapporto di cambi fissi, l’euro, fatto su misura per altre economie (come dimostrano i crescenti squilibri anche in Francia, che è arrivata alla nostra medesima situazione più tardi solo perchè il rapporto di cambio iniziale fu un po’ più favorevole per gli amici d’oltralpe). Quanto al salario minimo, conoscendo l’italico popolo, temo che diventerebbe automaticamente anche il salario massimo che le aziende sarebbero disponibili a pagare. Non sarà facile giungere ad una soluzione ai tempi dell’ultraliberismo imperante.

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