Il lavoro che verrà. Il ruolo delle parti sociali

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Molti osservatori ed esperti si interrogano sul lavoro che verrà. I suoi luoghi, i suoi tempi, il suo valore per gli individui. Come valutarlo, come aggiornare le competenze delle persone, come retribuirlo. Sulle alte professionalità e sul piano individuale sono stati fatti molti passi in avanti. La distanza tra queste situazioni e i contratti nazionali sono però ormai  siderali. Irrecuperabili a quel livello.

Le direzioni risorse umane nelle aziende più performanti coprono le esigenze specifiche da molti anni. Il contratto nazionale di categoria  o quello aziendale (dove c’è) ne rappresentano a mala pena  la cornice di riferimento. I capitoli fondamentali sono generalmente datati, superati o bypassati dalla gestione ordinaria delle imprese. Resta solo il welfare contrattuale che però, per sua natura, necessita adesioni sempre più significative fuori dalla portata delle singole categorie.

Nelle piccole e piccolissime imprese il CCNL è spesso utilizzato solo per i minimi contrattuali e quindi la concorrenza con il salario minimo rischia di aprire scenari nuovi di complessivo indebolimento del sistema.

I segnali di insofferenza da parte delle imprese nei confronti di una  contrattazione che produce solo costi certi e nessun cambiamento significativo sul versante della produttività sono sempre più evidenti. Sul versante dei lavoratori i rinnovi dei CCNL non provocano né entusiasmo né grandi mobilitazioni da molto tempo. Si rinnovano generalmente in ritardo e più per convenzione che per convinzione. Al di là dei testi concordati c’è sempre meno spazio per vere innovazioni realistiche e concrete ed è solo a livello aziendale che avvengono scambi significativi. Occorre però anche aggiungere che laddove non esistono tutele e condizioni minime condivise dalle parti sociali o dalla legge i lavoratori (dipendenti o autonomi) stanno indubbiamente peggio.

Sta di fatto  che otto lavoratori dipendenti su dieci non hanno ancora il contratto rinnovato e questo non provoca nulla di socialmente rilevante. La proposta di Confindustria arriva indubbiamente in un momento particolare. Non è né una provocazione né una mossa azzardata.

Ha la sua origine nel “patto della fabbrica” firmato con CGIL-CISL-UIL il 9 marzo 2018 (https://bit.ly/2VEWTRL) e parte significativa della sua base teorica nel libro bianco prodotto da Assolombarda nel maggio 2018 (https://bit.ly/2VEWEpP). Il Paese oggi deve ripartire.

Non lo può fare senza mettere in condizione le imprese di competere e quindi di creare lavoro. Non lo può fare senza una garanzia di tenuta del tessuto sociale. Non lo può fare senza un ruolo della politica di indirizzo e di sostegno. Pensare di uscire da questa situazione narcotizzando il Paese promettendo contributi a pioggia è un errore. Così come sarebbe un errore ipotizzare un asse Governo-Sindacati in funzione anti impresa.

Entrambe queste scelte accelererebbero ancora di più la crisi economica e porterebbero ad una contrapposizione sociale di cui il Paese non ne ha proprio bisogno. Annamaria Furlan Segretaria Generale della CISL sembra averlo capito benissimo quando afferma “È arrivato il tempo di incontrarci tra parti sociali  e affrontare insieme i problemi, a partire dall’emergenza principale che si chiama lavoro. Dobbiamo fissare insieme un’agenda di priorità, su temi come lo sblocco degli investimenti, la riforma degli ammortizzatori sociali, da portare insieme con il governo”. Maurizio Landini sembra non pensarla così. Vedremo le prossime mosse.

Ma cosa ha detto Carlo Bonomi? “I rinnovi contrattuali che ci attendono non possono essere affrontati col vecchio meccanismo dello scambio tra salario e orario. Nei contratti dobbiamo, tutti insieme, realizzare una vera e propria ridefinizione del lavoro, guardando alle filiere e alle aziende.Non considerando solo turni e orari e retribuzioni nazionali, ma obiettivi incentivati di produttività e innalzamento del capitale umano, diritti alla formazione permanente, al welfare sussidiario e alla conciliazione dei tempi di lavoro con la cura parentale. È un compito essenziale, per rilanciare l’Italia”. Difficile non essere d’accordo.

Sullo sfondo un rischio da esorcizzare. Il Governo ha imboccato la strada dei contributi a pioggia (per certi versi inevitabile in un momento come questo) da cui è però difficile tornare indietro proprio per la peculiarità del nostro mercato del lavoro.

Protrarre all’infinito il divieto di licenziamento e la cassa integrazione senza costruire un meccanismo di dissolvenza fatto di politiche attive e salario di ripartenza non porta però da nessuna parte. E non credo sia conveniente per il sindacato stesso tenere la testa sotto la sabbia sperando che i problemi si risolvano da soli.

In questo Governo persiste una diffusa cultura anti impresa. Alcuni suoi esponenti non hanno mancato di manifestarla perdendo quel ruolo superpartes che rischia di illudere chi, nel sindacato e nel Paese, non comprende il peso della posta in gioco e le responsabilità che è necessario assumersi in un momento come questo.

Per questo Confindustria fa bene a tenere il punto. Il patto della fabbrica purtroppo perse la sua carica innovativa proprio perché vide la luce in coda ai rinnovi dei contratti di categoria.

Chi nel sindacato punta oggi al loro rinnovo a prescindere rinviando a dopo il confronto sul futuro del lavoro commette lo stesso errore. Dopo non se ne farà nulla. Questo è il rischio vero. Il Paese non ha bisogno di scorciatoie. Ha bisogno di una assunzione di responsabilità e di visione comuni. Nell’interesse sia delle imprese che del mondo  del lavoro. 

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