Luxottica e il totalismo aziendale

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Fa bene Dario Di Vico a rilanciare il modello Luxottica. L’Italia del lavoro nero, dei contratti nazionali non firmati, dei licenziamenti via sms, dei furbetti del cartellino e degli scioperi del venerdì ha anche bisogno di campioni positivi.

E Luxottica è un campione positivo. Il voto molto alto (8,6 su di una scala da 1 a 10) nell’indagine interna, i cui risultati sono stati resi pubblici in questi giorni, lo testimonia. E Leonardo del Vecchio fa bene ad esserne orgoglioso.

È un welfare particolare, diverso da tutti gli altri. Innanzitutto è sinonimo di Luxottica. È la prima cosa che viene in mente quando si pensa a quell’azienda. Prima ancora della sua produzione per la quale quell’impresa è conosciuta in tutto il mondo.

Ed è sinonimo di un territorio, il Veneto, che mantiene, nonostante tutto, un livello di coesione sociale, di etica del lavoro e del fare impresa che ha la sua forza nella comunità che ne consente l’insediamento e lo sviluppo.

Luxottica non poteva nascere, e diventare ciò che è oggi, se fosse nata altrove. Leonardo del Vecchio ribadisce spesso che più che l’aspetto meramente economico e strumentale è il legame emozionale con l’azienda e il senso di comunità che genera a fare la differenza.

Ecco, Luxottica è l’espressione più positiva e territoriale di quello che il prof. Zamagni definisce “Totalismo aziendale” la capacità cioè di un’azienda di includere una leadership forte, valori che hanno le loro radici nel territorio, un consenso pressoché totale e risposte concrete ai bisogni.

La preoccupazione di Zamagni è che questa coesione sociale e questa identificazione nel leader, se generalizzata e priva di contrappesi mette però in discussione il concetto stesso di democrazia. Che non può fermarsi davanti ai cancelli di un’impresa come se fossimo nel secolo scorso.

Nel caso di Luxottica il “totalismo aziendale” lo troviamo nella sua accezione positiva e condivisibile, nella sua rappresentazione territoriale e sociale, meno nel caso di molte multinazionali dove, lo stesso, si materializza attraverso uno scambio asimmetrico che chiede adesione valoriale e culturale a prescindere in cambio “solo” dell’orgoglio di appartenenza.

Zamagni ci spinge a riflettere sulla (da lui ritenuta) pericolosità di questi modelli. Soprattutto sulla esclusione di contrappesi veri. Siamo di fronte ad una delega in bianco, ben riposta nel caso di Leonardo del Vecchio, ma nelle sue mani esclusive.

I sindacati, in queste realtà, suggeriscono, propongono, associano anche iscritti ma in una logica, però, assolutamente disintermediata e subalterna. L’azienda parla al singolo lavoratore, lo ascolta, lo gestisce. Al sindacato non resta che fare il verso alla direzione risorse umane.

È un modello che sta crescendo anche altrove nel nostro Paese. L’azienda si apre al mercato, al consumatore, al contesto esterno ma costruisce un sistema di valori, risposte e comportamenti chiuso al proprio interno. Chi li condivide, cresce. Ne beneficia in diversi modi, chi non li condivide è meglio che lasci.

Il sindacato, preso ad inseguire i problemi nelle imprese che collassano o che vengono rivoltate da riorganizzazioni, crisi e ristrutturazioni, non dedica abbastanza tempo e riflessioni nelle realtà che sono ormai oltre le “colonne d’Ercole”. Spesso le giustifica acriticamente.

La filosofia e la natura concreta del “patto di fabbrica” proposta dal Presidente di Confindustria sta tutta qui. Quali contrappesi possono giustificare una adesione ad un modello che rischia di chiudersi in sé stesso?

Ai corpi intermedi spetta trovare risposte praticabili. Ovviamente ci sono dei bilanciamenti possibili. Un antidoto è il welfare contrattuale e la contrattazione aziendale o territoriale. Il modello sostanzialmente proposto dai metalmeccanici. Di difficile attuazione però in altri comparti.

Un secondo antidoto è l’individuazione di forme di partecipazione concreta. Diretta, in azienda, in forme o modelli da definire o attraverso forme di bilateralità efficaci in grado di rispondere ai bisogni dei lavoratori e delle imprese. Fuori dall’azienda stessa.

In terzo luogo assumendo il mercato del lavoro (e non solo la singola azienda) come il luogo dove l’apprendimento e la formazione continua possono trovare le risposte necessarie al percorsi professionali delle imprese persone anticipando e supportando le inevitabili transizioni. Ben oltre, ad esempio, la logica attuale dei fondi interprofessionali.

Su questi temi la riflessione nei corpi intermedi è ancora carente. Una cosa però è chiara. Se il sistema non evolve verso un modello effettivamente improntato alla (vera) corresponsabilità ci troveremo inevitabilmente di fronte ad un bivio.

Da un lato le aziende che, potendoselo permettere, sviluppano al proprio interno condizioni favorevoli e condivise direttamente con i lavoratori come Luxottica. Disintermediando il rapporto con le rispettive rappresentanze.

Dall’altro aziende che, in forza, del loro appeal di marchio o di mercato o semplicemente per l’asimmetria nei rapporti di forza forzeranno verso modelli che escludono qualsiasi coinvolgimento positivo.

In mezzo, dove ci sono la stragrande maggioranza delle nostre imprese, il nulla.

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