Esselunga alle prese con il “potere della scrivania”…

Ciascuna azienda organizza il lavoro come crede. C’è però una sostanziale differenza tra chi immagina il futuro per il proprio business comprendendo il benessere dei  propri collaboratori e chi no. C’è chi resta nel solco tradizionale  prevedendo attività e servizi ricreativi vicini al posto di lavoro attraverso forme di welfare aziendale più o meno innovativo. E c’è chi prova  a ripensare il lavoro in termini di durata, luogo, contributo, coinvolgimento e qualità percepita e agìta dai collaboratori. Brunello Cucinelli direbbe: “questo è il tempo dell’armonia, oltre che della sostenibilità. Al centro ci deve essere sempre la persona”. Per comprenderne la differenza  bisognerebbe provare ad affrontare  il tema cambiando punto di osservazione.

Il futuro del lavoro fa leva  sulla responsabilità dei collaboratori, non sul loro controllo. Non sarà il luogo, il tempo perso per arrivarci, il presenzialismo oltre l’orario, l’autorità del capo attraverso il “potere della scrivania” a caratterizzare l’azienda (intesa come comunità operosa). È la sostanziale differenza tra ritenere le persone al lavoro, “collaboratori ” e non semplicemente “dipendenti”.  Ed è il rapporto instaurato, l’ascolto, il riconoscimento dell’impegno e la comunicazione scelta a fare la differenza. Lo smart working non è, ovviamente, tutto questo ma rappresenta un tassello di un  cambiamento più vasto, per certi versi inarrestabile. Peccato non averlo saputo cogliere. Così come aver accompagnato il suo ridimensionamento in Esselunga con una comunicazione d’altri tempi, inutilmente spigolosa, che l’impegno quotidiano dell’insieme dei collaboratori non meritava. 

Tra l’altro l’azienda di Pioltello  era stata  una delle poche realtà della GDO che avevano implementato il lavoro agile per oltre 1200 dipendenti. Costretti dalla pandemia e dal lockdown l’insegna aveva fatto un salto (forse) involontario nel futuro. Sembrava avesse accettato l’idea che i collaboratori fossero  responsabili, in grado di gestire il lavoro da casa per 6 giorni al mese (12 giorni al mese per i genitori con figli). Alla lunga, la cultura manageriale prevalente, non ha però  retto la sfida. È come se, fosse riemersa, per limiti oggettivi, la mancanza di un approccio professionale nella gestione delle risorse umane, in grado di conciliare le  esigenze organizzative dell’azienda con quelle delle persone.  Un’azienda dai due volti. Quella che guarda avanti con ESSELAB e  il robot che prepara le insalate a Mind e quella che osserva i suoi collaboratori  con lo specchietto retrovisore. Dal 1 aprile e fino al 31 marzo 2025 quindi si cambia. La voglia di averli finalmente tutti indietro e tutti in fila è stata troppo forte. E, soprattutto,  vestiti come si deve. E l’ordine viene dall’alto.

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Relazioni sindacali. Ogni stagione può dare frutti diversi.

Sono segnali deboli che però annunciano un cambiamento di clima. Il punto di svolta è stato certamente  il contratto nazionale dei metalmeccanici a cui sono ne sono seguiti altri altrettanto inequivocabili.

La fase delle grandi ristrutturazioni che aveva messo la sordina alle politiche di sviluppo e di coinvolgimento del personale è alle spalle. Non che sia terminata perché, purtroppo, non è così ma perché l’intero sistema delle relazioni tra impresa e lavoro sta cambiando segno cercando di lasciare dietro di sé le logiche legate esclusivamente ai rapporti di forza, alle conseguenti difficoltà organizzative del sindacato e alle convenienze a breve delle imprese.

Il documento “Impegno” di Federmeccanica ne rappresenta l’esempio forse più completo così come i tentativi a livello confederale, sia sindacale che imprenditoriale, di dare al sistema qualche tratto più collaborativo  e innovativo.

Nel terziario, ad esempio,  vanno sottolineati il recente CCNL per i lavoratori dei Pubblici Esercizi, della Ristorazione (collettiva e commerciale) e di altri settori del Turismo sottoscritto da Fipe-Confcommercio, Angem, Associazioni Cooperative. siglato dopo oltre 4 anni e mezzo dalla scadenza, l’accordo aziendale all’outlet di Serravalle, quello recente di Amazon piuttosto che quello di Esselunga sulla rotazione delle domeniche così come l’intenzione di Deliveroo di proporre, a livello internazionale,  forme di assicurazione che rispondono alle esigenze dei propri bikers. Leggi tutto “Relazioni sindacali. Ogni stagione può dare frutti diversi.”

Puo esistere la fiducia in azienda?

È interessante la domanda che il professor Michele Tiraboschi ha posto a margine del dibattito scatenato dalla proposta delle associazioni dei medici di lasciare ai singoli lavoratori l’obbligo di autocertificazione dei primi tre giorni di malattia nella PA.

La stragrande maggioranza dei partecipanti alla survey si è dichiarata contraria. I medici, dal canto loro, preferiscono chiamarsi fuori anziché spingere il lavoratore a riflettere sull’effettiva necessità del ricorso alla malattia soprattutto in presenza di  una frequenza di richeste quantomeno sospette. 

La malattia breve è stata da sempre grande fonte di abusi nelle aziende pubbliche e private. In alcune realtà fuori controllo venivano chiamate ironicamente, dagli stessi lavoratori,  “ferie INPS” per sottolinearne la facilità di utilizzo. E sono stati motivo di grandi contenziosi con i medici e con gli uffici preposti ai controlli.

Nel terziario certi comportamenti tipici dei primi tre giorni di malattia hanno determinato la necessità di concordare un sanzionamento preciso nel contratto nazionale. 

Il tema della fiducia in azienda va quindi visto oltre l’utilizzo improprio di un diritto contrattuale o delle reazioni di diverso segno che provoca tra imprese e sindacati. Se non altro perché non si approderebbe a nulla. La domanda di Tiraboschi però va oltre i tre giorni di malattia.

Se il rapporto tra la gerarchia aziendale e il lavoratore resta quella del 900 fordista, con tutti i suoi controlli e le sue sanzioni, come è possibile parlare di smart working, lavoro ad obiettivi condivisi e prestazioni, anche a distanza, con risultati concreti e misurabili?

In questo senso è giusto chiedersi se può esistere la fiducia nella cultura aziendale. Se per fiducia intendiamo un generico affidamento che ha a che fare con l’esecuzione di un compito assegnato, di un progetto o di un obiettivo credo di sì. In genere è un affidamento sempre accompagnato da tempistiche, verifiche e controlli vari che consentono a chi deve gestire il rapporto di lavoro di avere sempre un riscontro sullo stato di avanzamento dell’impegno assegnato.

Un luogo di lavoro non determinato a priori può modificare la sostanza dell’affidamento? Credo di no. Non esistendo più, un indirizzo civico definibile del lavoro  questo determinerà inevitabili conseguenze in termini di orario (sostanzialmente auto-determinato), controlli (che diventano tecnologici e di risultato) e strumenti. L’affidamento non cambia sostanzialmente.

Anche perché il luogo di lavoro, fabbrica o ufficio, smetteranno di essere luoghi isolati ma diventeranno nodi del IoT. L’Internet di ogni cosa, in cui ognuno è un sensore che fornisce dati alla rete che collegherà persone, imprese, reti, enti pubblici, scuole. Temo che, al contrario di quello che si è portati a pensare, la tecnologia consentirà maggiori controlli sul lavoro, sulla produttività anche individuale, sia in presenza del collaboratore in un reparto o in un ufficio tradizionale che a migliaia di chilometri di distanza. Quindi il problema diventerà qual’è il livello legittimo di controllo potendo, potenzialmente, essere molto più opprimente e invasivo di oggi. E fatto magari da macchine e non necessariamente da persone.

Forse, per questo, è un errore confondere questo generico affidamento tipico di ogni organizzazione con un idea di fiducia vera e propria che resta altra cosa. Questa si, di difficile introduzione nella cultura aziendale. Al di là della legittima divergenza di interessi tra lavoratore e impresa altri problemi rendono difficile un rapporto totalmente trasparente.

Ad esempio un buyer della Grande Distribuzione può realizzare gli obiettivi assegnati in qualsiasi luogo con grande professionalità ma, per l’azienda, controllarne l’operato e la correttezza negoziale a 360 gradi resta fondamentale. E questo vale per molte attività dove il risultato è solo una variabile tra le tante.

Il limite nel dibattito di oggi è che rischiamo di concentrarci troppo sugli aspetti connessi alla maggiore libertà e fattibilità di esecuzione rispetto a ciò che sono le conoscenze attuali piuttosto che concentrarci sulle potenzialità trasformatrici della tecnologia in termini di qualità e sofisticazione, anche dei controlli stessi.

Personalmente credo che lo smart working renderà il lavoratore più produttivo e anche più responsabile. E anche l’azienda dovrà “rassegnarsi” ad una maggiore sensibilità. Questo contribuirà a creare un rapporto di lavoro più adulto, meno dipendente dalle paturnie dei capi ma, non per questo, meno controllato.

Lavoro agile e lavoro 4.0 in molte attività determineranno condivisione sugli obiettivi e maggiore autonomia consentendo forti aumenti di produttività individuale e collettiva non necessariamente collegata ad un miglioramento della qualità del lavoro. Sicuramente ad una maggiore complessità subordinata a continui aggiornamenti.

Stefano Venturi CEO di HP ci ricorda che “La prossima rivoluzione digitale avrà forme e dimensioni che fatichiamo ancora a concepire, ma di certo permeerà i nostri business e trasformerà il modo in cui lavoriamo e viviamo”.

Ha sicuramente ragione. Credo che su questo occorra concentrarsi per riuscire ad anticipare i fenomeni e a guidarli anche nell’interesse del mondo del lavoro e dell’impresa.

Grande distribuzione. Adesso cambia tutto…..

L’offerta cinese agli eredi di Esselunga probabilmente sarà respinta. Se vera, è comunque molto più alta del valore dell’azienda stessa. Difficile capire se è più importante la notizia dell’offerta cinese o il rifiuto di chi, in questo momento, vorrebbe provare a gestire un business nel quale, Esselunga, è ancora un punto di riferimento.

Se escludiamo la possibilità che venga formata una cordata italiana interessata all’acquisto e che, altri player del settore, siano disposti a competere con una offerta stratosferica dobbiamo prendere atto che la partita sui futuri assetti della Grande Distribuzione in Italia, ma anche in Europa, è ripresa con vigore.

Dall’altra parte dell’oceano Amazon risponde con una mossa a sorpresa. L’acquisto di Whole Foods per la modica cifra di 13,7 miliardi di dollari. Oggi Andrea Guerra Presidente Esecutivo di Eataly, sul Sole 24 Ore, rilancia il ruolo della sua azienda, sostenendo l’importante intuizione Farinettiana e cioè che nel lungo periodo paga di più il marchio delle promozioni. E che l’operazione Amazon ne sarebbe, in parte,  la dimostrazione plastica.

Ė vero. La vera novità, però,  alla base di questa importante acquisizione, da sottolineare, è che non esistono più confini settoriali insuperabili. Né rendite connesse al presidio, più o meno importante, di un solo settore.

Se la GDO ha fatto la sua fortuna negli ultimi 50 anni proprio perché intermediava in un luogo fisico determinato ciò che  l’industria food e non food proponeva, oggi quel luogo non è più esclusivo ma integrabile attraverso una logistica sofisticata che modella sulle esigenze del consumatore, attraverso la rete, produzione, stoccaggio, consegna e consumo. E, con Amazon, si predispone a farlo a livello planetario.

E da qui nascono due nuove esigenze che impattano pesantemente sul settore della grande distribuzione non solo italiana. La prima è che la forza del distributore tradizionale perde di importanza e quindi va ripensata, la seconda è che i centri commerciali devono essere anch’essi riprogettati alla radice trasformandosi in luoghi di svago ecdi intrattenimento dove c’è “anche” la vendita tradizionale ma alla cui redditività provvedono sempre più una pluralità di attività.

Amazon ci dice due cose. Il negozio tradizionale (piccolo o grande che sia) pur indispensabile va ripensato completamente in chiave digitale. L’integrazione on line e off line, su cui si sono stanno concentrate le riflessioni compatibiliste oggi più avanzate è già, di fatto, superata. Il centro della scena sarà presidiato dalle piattaforme digitali e di movimentazione delle merci.

La credibilità del marchio poi potrà  farà la differenza. Ci saranno marchi ombrello il cui compito sarà quello di dare una credibilità nuova sia al luogo fisico che virtuale attraverso portali che venderanno esperienze ed emozioni costituite da cibo, viaggi, intrattenimento, abbigliamento, ecc. riservate a target specifici gestiti attraverso i big data. In questo contesto, anche il lavoro si trasformerà radicalmente. Da un lato tutto ciò che è informazione, supporto e consulenza al consumo diventerà sempre più importante. Dall’altro si consolideranno un insieme di lavori a basso contenuto professionale (caricamenti, movimentazione, controllo, consegna, ecc.).

Così come cadranno i confini tra settori, inevitabilmente cadranno i confini tra attività impiegate nei centri commerciali. Quindi tra inquadramenti, livelli retributivi e professionalità impiegabili. E tra lavoro autonomo e dipendente.

Ovviamente in questo articolo il Sole 24 Andrea Guerra tira soprattutto acqua al suo mulino. Eataly ha bisogno di affermarsi nella sua intuizione anche per il futuro collocamento in Borsa. È però chiaro che siamo agli albori di una vera rivoluzione importante tanto quanto quella che è avvenuta in Francia alla fine dell’800 con la nascita di Bon Marché o in Italia con i fratelli Bocconi.

La GDO tradizionale non è preparata a questo ripensamento profondo né in Italia né in Europa. Salvo pochi lodevoli e artigianali tentativi (ad esempio, Carrefour, Unes, Eataly) che comunque segnalano una disponibilità positiva  a rimettersi in discussione la GDO europea è complessivamente ferma a formati e modelli del 900.

Certo gioca al mantenimento dello status quo una fase di transizione che si preannuncia lunga e, tutto sommato gestibile da un management abbastanza tradizionalista, soprattutto in Italia che però potrebbe garantire la sopravvivenza ai diversi operatori in campo spostando il traguardo un po’ più in là. Ma per quanto?

Una cosa però è certa. La sontuosa offerta cinese a Esselunga non sarà replicabile per lungo tempo. Oggi il suo format è probabilmente un modello esportabile, quindi appetibile. Ed è tuttora un’azienda di prim’ordine. In più gli imprenditori cinesi sono sempre costretti ad esagerare quando entrano in un mercato per dimostrarsi credibili.

Al di là però delle dichiarazioni di rito della proprietà di Esselunga di cui occorre prendere atto non vorrei essere nei panni di chi, a fronte di questa offerta, deve respingerla con forza mentre contemporaneamente deve concludere una difficile trattativa con tutti gli altri eredi in campo. Una decisone difficile che deve tenere conto di una cultura costruita sui successi di Bernardo Caprotti, di un management serio e impegnato a gestire questa fase e di tutti i ventitremila collaboratori coinvolti.

Come si può chiedere un aumento di stipendio?

Nel 2010 la casa editrice Einaudi ha pubblicato uno scritto di Georges Perec, definito, qualche anno prima, dalla critica francese «il racconto esilarante di una corsa ad ostacoli, di comici rimbalzi e appuntamenti mancati».

Il titolo: “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento” recentemente rilanciato da Fabio Savelli sulla Nuvola del Lavoro del Corriere. Con una ironia pungente Perec, scrittore molto interessante purtroppo scomparso giovanissimo, pone un tema rilevante.

Oggi, è ancora sufficiente “prendere il coraggio a due mani, alzarsi dalla scrivania e andare dal proprio capo con una richiesta di aumento retributivo” così come è stato per buona parte del 900?

Assolutamente no.

Il risultato sarebbe quasi sicuramente un garbato quanto netto rifiuto con tutto il seguito di rancori e frustrazioni inevitabili.

Nel mio lavoro di DIrettore Risorse Umane ho avuto la possibilità di esercitare entrambi i ruoli. ho richiesto riconoscimenti economici (non sempre con successo) e, per funzione aziendale, ho dovuto ascoltare le richieste di colleghi e collaboratori. Dalla mia esperienza ho tratto alcune riflessioni che vorrei condividere.

Le persone, anche se hanno raggiunto un certo livello di integrazione in azienda, faticano a parlare di sé, del proprio stipendio, delle proprie aspirazioni professionali o dei propri interessi. A volte si lamentano con i colleghi e attendono che, prima o poi, le Direzioni Risorse Umane o il proprio capo, si ricordino di loro.

Le aziende, in genere, hanno una loro politica retributiva annuale nella quale occorre sapersi inserire positivamente e al momento giusto. Le aziende più strutturate propongono un incontro di valutazione e sviluppo almeno una volta all’anno ed è un momento importante, formale, da non sottovalutare.

Saper rappresentare le proprie esigenze, formative e professionali o chiedere un adeguamento retributivo fa parte del set di competenze necessarie nel mondo del lavoro di oggi. Per farlo occorre possedere buone capacità negoziali, intraprendenza, conoscenza del contesto, giusta ambizione, determinazione. Ma anche saper gestire una possibile sconfitta, reagire positivamente e rapidamente, trarne insegnamenti utili. Tutte capacità che si possono apprendere senza particolari problemi.

Per questo non è affatto un momento da banalizzare. Va preparato nei minimi particolari. Come se si dovesse incontrare, da candidato per una nuova posizione di lavoro, un head hunter professionista.

L’interlocutore aziendale che ci si troverà davanti, in genere, non è uno sprovveduto. Conosce le politiche retributive dell’azienda, l’organizzazione nel suo insieme, i tempi, le eventuali modalità di erogazione, la valutazione vera sul contributo e sul peso specifico del richiedente.

Per queste ragioni la richiesta di incontro deve essere innescata da una ragione professionale oggettiva. Almeno nelle intenzioni. Un attività seguita che dimostra una maggiore copertura del ruolo, un contributo importante al lavoro del team, un progetto andato a buon fine.

Scelto il motivo, l’incontro dovrà essere richiesto in modo formale. Non si può discutere di sé in coda ad una riunione o in presenza di altri! L’ordine del giorno dovrà essere preannunciato e motivato dall’esigenza di potersi confrontare con chi è preposto, per ruolo, a farlo. Meglio, se possibile, concordare anche il tempo a disposizione.

La prima parte del confronto dovrà essere dedicata alla presentazione di sé, delle proprie aspettative professionali, del proprio contributo ai progetti e ai risultati aziendali. In sostanza occorre dedicare una parte del tempo a sottolineare l’importanza del proprio investimento personale nell’azienda e dei risultati realizzati come conferma della propria crescita.

Questa fase non deve essere un monologo né contemplare rivendicazioni passate o lamentele inutili ma neppure richieste precise. Deve semplicemente sollecitare un dialogo e, possibilmente, una condivisione dell’interlocutore sui fatti.

Attenzione! Solo se questa fase sarà sviluppata correttamente e completamente si potrà passare alla fase successiva: quella delle richieste specifiche. Chiarita l’asimmetria nei comportamenti tra impegno personale e riconoscimento dello stesso occorre dimostrarsi aperti a soluzioni differenti, distribuite nel tempo, sia sul piano quantitativo che qualitativo lasciando all’interlocutore aziendale la possibilità di riflettere e, eventualmente, di controbattere con argomentazioni nel merito delle problematiche poste.

Questa è la fase dove la conoscenza del contesto, la capacità negoziale e la determinazione possono giocare un ruolo decisivo. Da entrambe le parti. A questo punto le carte saranno tutte sul tavolo.

L’interlocutore aziendale può decidere di avanzare una soluzione di compromesso, proporre di valutare la richiesta all’interno di future politiche retributive e di sviluppo o rispondere negativamente. Il richiedente avrà, innanzitutto, chiara la valutazione che l’azienda (o il proprio capo) ha di lui quindi la convenienza o meno ad investirci passione ed energia, in futuro. O cercare un altra sfida sul mercato.

Nello stesso tempo, l’azienda, forse per la prima volta, si sarà potuta fare un’idea diversa del collaboratore, del suo approccio da professionista e delle sue capacità. Qui sta il vero salto di qualità. Far percepire ai responsabili aziendali (capo o DHR) la presenza di un collaboratore professionale, attento ai propri interessi e disponibile a rimettersi in discussione. Ma anche esigente e, perché no, dotato di una giusta ambizione. Il mercato del lavoro richiede sempre più soggetti con queste caratteristiche.

Crescere in azienda significa anche saper giocare le proprie carte e sapersi far valere. Per questo un colloquio serio e argomentato, se preparato e gestito bene, sarà stato comunque positivo e utile. Soprattutto per consolidare e sviluppare la propria capacità di interagire con interlocutori interni o esterni all’azienda a tutela dei propri interessi economici e professionali.

Come crescere in azienda…

Quali sono i segnali da cogliere o da lanciare per non trovarsi obsoleti, in azienda,  in breve tempo?

Oggi molte aziende assumono con grande cautela risorse giovani da costruire in casa. Non tutte, ovviamente. Ma soffermarsi su quelle virtuose non serve a molto. Meglio esplorare i meccanismi di quelle che preferiscono (eventualmente) sostituire chi se ne va con professionalità equivalenti a costi inferiori.

Il mercato oggi, purtroppo, consente di tutto. Non ci sono più riferimenti retributivi indiscutibili, né grandi difficoltà a reperire risorse adeguate. Quindi a parte poche figure ben individuate, il famoso detto “tutti sono sostituibili e nessuno è indispensabile” oggi vale ancora più di ieri.

Se a questo aggiungiamo che il contesto esterno rende difficile o rischioso il cambiamento per tutti ci si può rendere conto che i meccanismi interni di crescita in molte realtà sono inceppati o di difficile realizzazione.

Senza contare che le aziende non hanno più un percorso di crescita lineare del business e quindi ragionano sempre più spesso sul “qui e ora”. Questa situazione porta inevitabilmente a ingaggiare il collaboratore più sui risultati del mese, del trimestre o dell’anno che sul lungo periodo. E questo comporta minore motivazione, scarsa voglia di mettersi in gioco, difficoltà comunicazione che, alla lunga, può ritorcersi contro il collaboratore stesso.

Lamentarsi, però, serve a poco. Soprattutto se in gioco c’è il proprio futuro. A questo proposito ricordo sempre che, in azienda, esistono sempre tre punti di vista (legittimi) sullo stesso problema. Il proprio, quello del proprio interlocutore (il capo) e quello dell’azienda stessa che, se non dovesse coincidere con uno degli altri due, prevale comunque.

Per crescere, innanzitutto occorre pretenderlo. Non basta volerlo. Né aspettare di essere notati. Occorre assumere comportamenti coerenti. Tre caratteristiche indispensabili su tutto: ascolto, impegno, empatia. La crescita è un percorso a tappe dove l’avversario è, innanzitutto, dentro sé stessi.

Ciascuno ha a disposizione un campo da gioco (l’azienda) un allenatore (il capo), una squadra (i colleghi). Si può crescere senza necessariamente fare carriera. Crescere è, però, costruire le condizioni per poterla fare. In azienda o altrove.

Innanzitutto l’azienda. Capirne lo stato di salute, la dinamicità del top management, la propensione al rischio e all’innovazione, la capacità di rimettersi rapidamente in discussione e di sperimentare programmando. Se ha una politica di gestione delle risorse umane, se ha, o meno, un alto turn over, se ha in programma investimenti o ridimensionamenti. In poche parole conoscere l’azienda significa conoscere il contesto, i linguaggi di relazione e le regole del gioco necessarie.

In secondo luogo, il capo. Attenzione! Il capo non coincide necessariamente con l’impresa. È un suo “rappresentante pro tempore”. Non va mai commesso l’errore di identificarlo con l’azienda della quale può essere peggio o meglio. Ma non è questo che conta. Strumentale o opportunista, coach vero o inconsistente, interprete corretto o meno dei valori e della filosofia aziendale.

Capirlo è fondamentale. Un capo che gioca solo per sé è inutile alla propria crescita. Così come un capo che pensa solo a non scontentare chi ha sopra. Il capo, però,  va gestito. Non va lasciato tranquillo. Soprattutto se non sta facendo il capo. Occorre chiedere feed back (positivi e negativi) con una certa regolarità. Ascoltarlo ma pretendere coerenza nei comportamenti. Soprattutto capire quando non ha più niente da dire e da dare.

Infine i colleghi. La competizione non è con loro. Anzi. Essere propositivi, disponibili, coerenti, aiuta molto. Occorre ricordare sempre che “le persone che incontri quando sali, sono le stesse che incontri quando scendi”. Non serve assolutamente giocare sporco per crescere. I colleghi sono i primi biglietti da visita, danno informazioni su di noi a terzi, confermano  pregi e punti deboli. In futuro si  reincontreranno in altre aziende o in altri ruoli ma parleranno (bene o male) di noi come se ci avessero incontrato il giorno prima. Sono una componente importante del nostro sistema di relazione. Altro fondamentale elemento da costruire.

Alcuni di loro sono in carriera, altri sgomitano, altri temono la competizione. Corretti, ansiosi o incapaci vivono con noi per lunga parte della giornata. Non sono amici, ovviamente, ma costruire un rapporto di lavoro empatico e positivo è fondamentale per crescere. Si impara molto dai colleghi, dalla squadra e dalle dinamiche che ne scaturiscono.

Oggi si lavora, come, si dice sempre, per gli altri, con gli altri e attraverso gli altri. Non si lavora per sé. Quindi si può crescere solo a precise condizioni. Buon percorso scolastico di base, solide competenze professionali da acquisire seguendo progetti a difficoltà crescente in azienda, feed back costanti, ascolto, impegno, gioco di squadra.

A questo occorre aggiungere una approfondita conoscenza delle lingue (almeno l’inglese), una cultura digitale non superficiale, una formazione mirata e continua sulle soft skills determinanti per interagire positivamente nei contesti odierni. Ma, soprattutto, un buon capo più che una buona azienda. Altrimenti meglio guardarsi in giro perché si sta perdendo tempo prezioso….

Ho un buon CV ma non mi chiama nessuno. Perché?

La letteratura specialistica è prodiga di consigli su come scrivere bene un CV o come affrontare in modo brillante un colloquio di lavoro. Esistono manuali, corsi di formazione e trucchi vari per rendersi più credibili agli occhi del più sofisticato selezionatore. Quindi sembrerebbe sufficiente saper scrivere ciò che ci ha visto protagonisti nei nostri percorsi professionali e saperlo raccontare con sufficiente convinzione. Sembra tutto molto semplice. Purtroppo non basta. A volte non si ha neppure la soddisfazione di sapere se il CV è scritto bene perché non arriva nessuna risposta. Così come un colloquio, preparato molto bene e portato a termine in modo pressoché perfetto, non ha alcun seguito. E allora? Nella maggior parte delle selezioni una pur buona impostazione non è sufficiente. Contano le referenze, quindi le relazioni e il feeling che scatta o meno con l’interlocutore che dovrà decidere. Certo anche gli aspetti economici sono importanti perché sul mercato, oggi, si trova di tutto e di più. Però questo è il punto da cui partire. Chi deve assumere sa, generalmente, cosa vuole. Nei CV che legge, nei colloqui, nel brief agli Head Hunter, nel passaparola l’idea delle caratteristiche personali da individuare è chiara e quindi la ricerca è sempre abbastanza precisa. Certo è possibile cambiare idea a fronte di una candidatura particolare e non prevista ma è molto difficile. Possibile ma improbabile. Chi cerca, poi, può “permettersi” di sbagliare nel senso che, al massimo, verrà giudicato sulla qualità di chi ha selezionato non certo su chi non ha neppure preso in considerazione. Chi si offre di tutto ciò non sa nulla. Invia il suo CV, si prepara all’eventuale colloquio ma non conosce nessuna caratteristica personale del candidato ideale già in mente al potenziale selezionatore. Conosce a mala pena capacità e competenze richieste perché le ha lette sulla inserzione o ne ha sentito parlare da terzi. Non sa se in quella determinata azienda, in quel reparto o in quella squadra si cerca un giovane, una persona estroversa o una donna. Oppure se, assolutamente, non si vuole un ingegnere gestionale o una donna sposata o, infine, se, un over 50 in una squadra di trentenni, è meglio evitarlo perché potrebbe non funzionare. E così via. Ed ecco che un buon CV che comprende tutte le competenze e capacità professionali richieste non c’entra improvvisamente nulla con quella ricerca. E allora cosa serve scrivere un ottimo CV e prepararsi all’eventuale colloquio? In questi casi, niente. E così anche in tutti quei casi dove offerta e domanda sono asimmetriche. Ma il punto è proprio questo. Un CV fatto bene e la capacità di superare tutti i colloqui possibili deve sempre fare i conti con la realtà. E la realtà è lì a dimostrare che in questo mercato del lavoro non si gioca mai alla pari. È una gara, certo, però tra diseguali. È come partecipare ad un concorso a quiz dove alcuni conoscono in anticipo le risposte, altri hanno, più o meno inconsapevolmente le caratteristiche per vincere e, infine, c’è anche chi parte da zero sperando nella buona sorte. In teoria possono vincere tutti. La realtà, però, è ben diversa. E allora non serve a nulla prepararsi? No. Occorre farlo, sempre. Ognuno concorre nella propria corsia. Ci sono tante ricette diverse su come fare un CV  in base a esperienze e a professionalità differenti. Occorre prenderle tutte con grande cautela sapendo che sono semplicemente stimoli che vanno adattati alle proprie esigenze. Se non si hanno segnalazioni o informazioni precise occorrerebbe, innanzitutto, capire dove si vorrebbe inviare il CV e perché. Oggi la rete può aiutare. Raccolte tutte le informazioni possibili il CV va indirizzato ad una persona precisa, non genericamente all’azienda. Che sia il titolare, il CEO, il DHR o un manager di linea occorrerebbe scegliere sempre un potenziale interlocutore. Può essere inutile? Certo che sì. Inviare un CV generico ad un’azienda qualsiasi lo è, però, ancora di più. Analizzando in rete l’impresa individuata a volte si possono capire molte cose interessanti. Come si presenta, qual’è il suo mercato chi, tra i suoi manager, si muove con una certa libertà con interviste o altro. Insomma la rete può aiutarci a predisporre un piccolo dossier di riferimento che potrà servire anche in una seconda fase in vista del colloquio. Come scrivere allora il CV? In modo sintetico, comprensibile, scevro da banalità. Chi legge cerca sempre qualcosa che già ha in mente seppur in modo non definito. Sa, ad esempio, cosa preferisce il committente finale in termini di caratteristiche generali magari non esplicitate chiaramente nella ricerca. Più che cercare di presentarsi in modo artefatto è meglio cercare di essere se stessi privilegiando una prosa asciutta, essenziale, diretta. Essere se stessi nel testo scritto come di persona. Personalmente ho sempre preferito questo approccio. E se nessuno risponde? Significa solo che hanno scelto un altro. E allora anziché perdersi d’animo, occorre insistere. Sempre. Mi è capitato in tanti anni di carriera, di essere contattato da Head Hunter per posizioni, di un certo interesse, in una determinata azienda che, per varie ragioni, non si sono concretizzate. Ammetto di aver provato una certa delusione perché ritenevo di essere la persona giusta per quel posto e perché le aziende erano importanti. E, non lo nego, perché avevo bisogno e voglia di cambiare. In alcuni di questi casi e a distanza di un paio di anni, dopo una verifica attenta, mi sono accorto che le persone scelte al mio posto erano già state sostituite da altre. Siccome non credo alla fortuna ho pensato fosse un caso ma da queste esperienze ho tratto una morale. Semplice ed efficace. Se non dovrà funzionare è meglio che non funzioni da subito. Quindi è meglio non essere scelto. In questo modo eviteremo di perdere tempo in due….

il “controllo” del dirigente. Luogo fisico, orario, attività….

Qualche anno fa un amministratore delegato tedesco mi fece chiamare con urgenza dalla sua assistente. Cosa era successo? Un collega, responsabile commerciale, alla sua richiesta di spiegazioni su una missione, ancora da compiere, in Sicilia, aveva risposto che non era tenuto a fornire alcuna spiegazione perché, in quanto dirigente, aveva l’autonomia di decidere cosa fare, quando e come. E che, l’amministratore delegato avrebbe dovuto e potuto misurarlo sui risultati e non sulla gestione del tempo o delle modalità di esecuzione della prestazione. Pur non giustificando la ruvidezza della risposta del collega ho dovuto confermare le sue buone ragioni nel difendere la sua autonomia e il suo modo di lavorare. Succede spesso, soprattutto da parte di manager di vecchia generazione, che si pretenda una presenza tipo quella richiesta ad un impiegato del catasto. Oggi si lavora per obiettivi e si dispone di una tecnologia che consente di lavorare in modo profondamente diverso dal passato scegliendo tempi e modi. Ma chi è rimasto in vecchi schemi superati ragiona ancora in termini di luogo fisico definito, catena di comando tradizionale e orario di lavoro. Il dirigente di vecchia scuola non delega, decide in prima persona, giustifica sempre i suoi comportamenti e, siccome non riesce a controllare tutto, accusa il prossimo dei propri limiti. Il mondo del lavoro è ancora abitato da figure di questo tipo. Fortunatamente stanno scomparendo perché nelle moderne organizzazioni non li vuole più nessuno ma resistono ancora su qualche scoglio dove sono rimasti attaccati come cozze. Questi manager amano la sera lasciare l’azienda per ultimi e pretendono lo stesso atteggiamento dai collaboratori. Non importa se fingono di lavorare o perdono tempo giocando a tetris o al solitario con il PC, l’importante è che stiano supini nella postazione di lavoro a loro assegnata. Di solito si circondano di signorsì. Non amano il contraddittorio e si vogliono sentire temuti. Non delegano perché non si fidano di nessuno. E, non fidandosi di nessuno, non fanno crescere i collaboratori. Fingono di essere democratici, spesso vogliono essere trattati in modo amicale. I collaboratori sanno che il rapporto con il capo è sempre asimmetrico e quindi stanno sempre attenti a non esporsi. Lavorare con loro può diventare impossibile. In genere non hanno visione del futuro. Ne parlano a vanvera. Sono tattici, giocano nel breve. Non si rendono conto dei loro limiti e, in genere portano le loro organizzazioni al capolinea. Che fare quando si incontrano? Occorre gestirli. Adularli, prenderli in parola e crearsi contemporaneamente spazi autonomi. Soprattutto di pensiero. Di solito elencano progetti e idee improbabili, vagheggiano ruoli, compiti e funzioni che non praticano, chiedono contributi agli altri che non usano. Si dimenticano delle promesse che fanno. Ma, proprio per questo, lasciano spazi a chi sa prenderseli. In fondo non sono cattivi. Sono solo superati.

Essere in gamba non basta più.

Si parla tanto di meritocrazia. Spesso a vanvera. E, i non meritevoli sono, quasi sempre, gli altri. A volte è vero. Ma a noi, chi ci conosce? Questo è il punto. Essere “bravi” non basta più. Bisogna che altri lo sappiano o, almeno, siano interessati a saperlo. Colleghi, gestori delle risorse umane, capi, amici, fornitori, clienti, professori e consulenti sono i nostri potenziali head hunter. Oltre a quelli veri. Le società di selezione e tutti coloro che hanno la possibilità di proporre, suggerire e valutare le nostre capacità e le nostre competenze. Quanto tempo dedichiamo a coltivare queste relazioni? Poco o nulla se osserviamo la realtà. Ce ne rendiamo conto quando è troppo tardi. E dopo è difficile recuperare il tempo perduto. La soluzione è semplice. Occorre dedicare alla costruzione del sistema di relazione il tempo necessario. Quasi quotidiano. Fare spesso il punto su chi conosciamo e chiederci se ci apprezza e ci conosce professionalmente. Perché, ad esempio, ad un colloquio di lavoro cerchiamo di essere puntuali, educati e professionali mentre ce ne dimentichiamo quando navighiamo in rete, litighiamo per sciocchezze con il collega o non coltiviamo il rapporto con chi si occupa di risorse umane nella nostra azienda? Pensiamo di non avere tempo da perdere e, invece, ci attardiamo su comportamenti e attività secondarie. Un tempo era molto semplice. Il rapporto tra azienda “mamma” e collaboratore era più gestibile nella qualità e nella durata. Oggi no. Quindi occorre costruirsi un percorso che ci faccia conoscere e ci valorizzi negli anni. Personalmente ho sempre lavorato così e mi sono sempre trovato bene. Ho sempre saputo esattamente dove erano finiti i miei ex colleghi, i miei collaboratori, i giovani che ho assunto e gli HH che mi hanno apprezzato nel tempo. Organizzo spesso incontri o cene con colleghi con cui interagivo vent’anni fa. Anche con chi mi chiede favori. Frequento convegni, professori e consulenti avendo sempre in testa che sto investendo tempo. Non lo sto perdendo. E mi sono sempre trovano bene.

Essere valutati e imparare a valutarsi. Prima che sia tardi…

la ricerca di un sistema di valutazione oggettivo è sempre stato un tema che ha impegnato esperti RH, manager e studiosi della materia. Nel secolo scorso, in molte realtà aziendali, sono state via via trovate soluzioni e strumenti idonei a gestire le carriere, i cosiddetti kpeople, e la retention dei talenti che, soprattutto se cresciuti in azienda, non si volevano perdere. Poi, è cambiato tutto. Le trimestrali, la navigazione a vista, la crisi. Il mercato del lavoro ricco di professionalità disposte a accettare non uno ma tre passi indietro. Colleghi che “andavano a letto intelligenti e si svegliavano cretini” o viceversa. Questo rovesciamento del contesto ha spostato il baricentro anche della valutazione. Prima fondamentale per l’azienda e i suoi meccanismi di crescita interna, oggi meno determinante (ovviamente con le dovute eccezioni) per l’impresa ma sempre più decisiva per il manager e non solo. La necessità di restare sul mercato più a lungo, di trovarsi spesso in fasi di transizioni professionali e quindi di reinventarsi un valore sul mercato rende indispensabile sapersi valutare e sapere come e cosa proporre di sé. Il mercato non offre nulla di oggettivamente riconosciuto. A parlare è, innanzitutto, il proprio CV. Ma è indispensabile che qualcuno abbia voglia di leggerlo. Quindi il sistema di relazioni di ciascuno diventa centrale. Non basta ritenersi in gamba occorre che qualcuno lo riconosca. E siccome il mercato è inondato da CV “gonfiati” le referenze ritornano ad essere fondamentali. Un tempo bastava impegnarsi nella propria azienda. Oggi l’impegno non basta. Occorre farsi conoscere quindi dedicare tempo e energia a questa attività. Il mondo del lavoro è però in continua evoluzione. Occorre mantersi formati. Sempre. Occorre lavorare sulla propria impiegabilità. Per ciò che si fa oggi ma anche per ciò che si potrà fare domani. Quanti colleghi che oggi lavorano rischiano di essere disoccupati domani? E quanti tra chi è disoccupato oggi rimpiange ciò che non ha fatto ieri. Per queste e per altre ragioni occorre cambiare passo. Soprattutto per se stessi.