lo sciopero è “solo” un diritto?

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ovviamente c’è la Costituzione e quindi parliamo di un diritto particolare, giustamente tutelato per le sue implicazioni sociali, politiche e di conseguenza giuslavoristiche. Ma non è questo il punto. La garanzia costituzionale era ed è necessaria a tutela di un diritto che dovrebbe consentire la maggiore simmetria sociale possibile tra imprenditore e lavoratore. Almeno così era nelle intenzioni degli estensori di quell’articolo. Poi in quel diritto si sono infilati ben altre tipologie di attività, soggetti e situazioni che nulla avevano a che fare con uno strumento a disposizione del più debole trasformandolo in un diritto di chiunque esercitabile comunque. Nel tempo il legislatore, i parlamenti e i sindacati confederali hanno via via partorito codici di regolamentazione o di autoregolamentazione che ne hanno fortemente ridimensionato l’esercizio trasformandolo, di fatto, da un diritto individuale (pur sempre in vigore) in un diritto collettivo con regole e modalità tutto sommato accettabili. Purtroppo tutto questo non poteva reggere in un contesto di proliferazione di sigle sindacali, migrazioni tattiche tra una sigla è l’altra al solo scopo di mantenere privilegi individuali  e perdita di consenso e di potere da parte delle grandi organizzazioni confederali. Nel settore privato questa situazione ha avuto scarsi effetti concreti salvo forse in settori particilari come  i trasporti e la logistica. Nel pubblico, al contrario, la proliferazione delle sigle sindacali ha portato alla situazione odierna. Generalmente queste sigle si limitano alla proclamazione dello sciopero per costringere il potere pubblico locale o nazionale ad una risposta ma, la mancanza di risorse e di interlocutori in grado di rispondere, l’acuirsi di tensioni dovute al procrastinarsi dei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, la concorrenza stessa tra sindacati spesso degenera in situazioni di grave difficoltà. Se tutto questo però fosse limitato alle sole dinamiche costituzionali costituirebbe un problema sociale e politico  limitato all’esercizio di un diritto. Favorevoli e contrari si potrebbero confrontare per giorni senza venirne a capo così come è stato fino ad oggi dove la destra accetta di buon grado lo sciopero di professionisti e/o di categorie particolari ma si indigna se lo stesso diritto viene messo in campo da categorie tradizionalmente  deboli, mentre la sinistra non si indigna se lo sciopero viene utilizzato dalle categorie di cui sopra per reazione pavloviana all’esercizio di un diritto ma  ne difende sostanzialmente l’esercizio per tutte le altre categorie. Ma non è questo il punto. Il punto è se terzi, cittadini, turisti, malati, viaggiatori, consumatori, debbano subire un danno senza averne alcuna responsabilità né possibilità di intervento. In altre parole se l’esercizio di un diritto può provocare danni a terzi che vengono trasformati in ostaggi di vicende a causa delle quali viene messo in discussione un loro diritto altrettanto importante. E allora che fare? Una via passa certamente dalla regolamentazione del diritto di sciopero estendendo ad altri settori la definizione delle modalità di proclamazione ed effettuazione delle agitazioni, la possibile precettazione, l’addebito di eventuali danni agli individui o ai sindacati che non rispettano le regole e quindi puntare a norme che riducano il rischio per gli eventuali terzi anche se questo non è assolutamente sufficiente. Lo abbiamo visto: un’assemblea in un’ora “strategica”, un ricorso ad assenze improvvise, una migrazione da una sigla all’altra provoca simpatie, opportunismi e via discorrendo che lasciano al palo le buone intenzioni. Occorre fare altro. Definire regole che impediscano la proclamazione di scioperi non preceduti da referendum con quorum significativi e che non lascino mai nelle mani di pochi la decisione, sanzioni pesanti per i trasgressori, precettazione automatica nel caso di rischio di danni indiretti, possibilità di sottoscrivere contratti e accordi limitati ai sindacati maggiormente rappresentativi che rispondono delle loro azioni o dei mancati controlli. Un vecchio sindacalista diceva:”l’unica regola valida per evitare che uno sciopero produca danni è non farlo”. Forse è vero. È certo però che la situazione sociale non sta migliorando e quindi dobbiamo prevedere una recrudescenza di questi fenomeni. Il problema è che avverranno in un contesto di minore credibilità e maggiore debolezza delle grandi organizzazioni sindacali. E questa debolezza, prima o poi lo capiremo tutti, non è un bene per il Paese. Per questo chi ha responsabilità politica di governo dovrebbe evitare continui processi di delegittimazione o di sottovalutazione di questo aspetto della vita democratica del Paese. Prima che sia troppo tardi.

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Contrattazione: quale riforma?

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adesso i sindacati si muovono in ordine sparso. La Cisl propone la sua riforma, Cgil e Uil chiedono che prima di discutere di un nuovo modello si firmino i contratti nazionali ancora aperti mentre le organizzazioni datoriali stanno a guardare perché credo sia improponibile, oggi, un negoziato separato. Infine il Governo che potrebbe essere tentato, in assenza di proposte, di mettere mano alla materia. Quasi tutte le proposte danno per scontato un punto che invece scontato non è: la contrattazione di primo, secondo o come la si voglia chiamare, si fa e si farà sempre e ovunque. Ci sarebbero solo da individuare luoghi, temi, livelli e i conseguenti sgravi fiscali. Mi sembra una tesi semplicistica. Oggi, pur in presenza di centinaia di contratti nazionali, abbiamo interi settori e comparti dove non vengono rinnovati o si trascinano senza trovare accordi per anni. E questo non è solo causato dalla intransigenza delle organizzazioni datoriali. È dato anche dal difficile contesto economico che spinge molte imprese e molti settori a cercare di liberarsi di uno schema contrattuale costruito in situazioni economiche e sociali completamente differenti. E questo elemento, mi sembra, non venga preso in minima considerazione dai “riformatori” del sistema. Le condizioni precedenti che hanno dato origine ad un sistema che aveva il suo centro nel contratto nazionale alimentato dalla contrattazione aziendale delle grandi imprese è finito. La contrattazione aziendale da “innovativa” o aggiuntiva è diventata o “concessiva”, perché si è dovuta confrontare con la realtà, o si è addirittura arrestata. Questo esaurimento del ruolo si sta via via estendendo al contratto nazionale. Da FCA o altre realtà che lo ritengono superato e che comunque fanno accordi condivisi (seppure in alcuni casi separati), ai tempi che si dilatano o alle furberie di chi, pur dichiarando la disponibilità ad aprire i negoziati, si guarda bene dal concluderli. Questa realtà non si risolve semplicemente con nuove architetture contrattuali. Occorre un vero ripensamento peraltro già iniziato nel CCNL del commercio appena firmato. Occorre cioè stabilire delle regole e dei contenuti con la possibilità delle parti di derogarne o sterilizzarne, in tutto o in parte, gli effetti se questi producono situazioni negative nelle singole imprese. Limitarsi a teorizzare il superamento del CCNL è un errore perché porta al far west non alla contrattazione decentrata. Ipotizzare decentramenti con obblighi a contrattare o penali è semplicemente illusorio o addirittura controproducente perché si verrebbe a creare solo una situazione dove la contrattazione aziendale viene sostituita da una sorta di una tantum obbligatoria. tra un CCNL e l’altro per la stragrande maggioranza delle imprese. È giusto detassare i premi di risultato e/o di produttività che, per loro natura sono aggiuntivi ma, secondo me, il problema dovrebbe essere risolto prevedendo una sostanziale rimodellazione della retribuzione in tre parti. Una che potrebbe rappresentare il nuovo minimo (uguale in tutti i settori) parametrato alla CIGS, una legata al ruolo professionale esercitato dal lavoratore e una terza legata all’andamento dell’azienda. Ovviamente la prima fissa, la seconda che può variare a seconda della professionalità espressa concretamente e la terza legata al risultato aziendale. Solo in questo modo le aziende non si trascinerebbero situazioni e inquadramenti fasulli e quindi potrebbero avere interesse a confrontarsi seriamente. Così come sul resto dei contenuti del negoziato che dovrebbero avere la stessa durata dell’accordo, riconfermati, o meno, solo se il contesto lo consente. Questo perché se non c’è interesse reciproco al confronto (dato dai rapporti di forza o da problemi specifici che necessitano un coinvolgimento) l’impresa tenderà sempre più a voler fare da sola. Così come sta succedendo in numerose situazioni dove la contrattazione aziendale è un ricordo lontano e quella nazionale è disattesa. Non capire questo può portare a conclusioni sbagliatele o a proposte difficilmente realizzabili nel contesto specifico del nostro Paese dove la contrattazione aziendale, checché se ne pensi, è una pratica assolutamente marginale.

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meglio soli che “male” accompagnati?

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“sono d’accordo con Schauble” tuona Fassina. “Lo dice anche Papa Francesco” sottolinea il  Bernocchi di turno. “In Germania fanno così” ci assicura Landini. Mi fermo qui ma potrei continuare all’infinito. Il senso è sempre quello: strumentalizzare un aspetto della vita politica, sociale o istituzionale di altri Paesi per rendere più credibile il proprio ragionamento. È molto utilizzato da una parte della sinistra. Soprattutto estrema. Citare un’affermazione di un esponente di un mondo distante per avvalorare i propri ragionamenti altrimenti inascoltati. C’è una parte di quel mondo che non è interessata al Governo del Paese e forse, nemmeno troppo, ad entrare in sintonia con gli strati sociali che pur dicono di rappresentare. Intervengono da professori che hanno capito tutto, si segnalano per i distinguo continui e ingessano le gambe alle formiche. In genere sono personaggi astiosi e tristi. Non perdono mai per le loro debolezze ma perché gli altri sono sleali. Fanno danni continui perché non dicono cose campate in aria anche se, quasi sempre, impraticabili. Sono presenti dappertutto. Si muovono in quell’interstizio della coscienza che non distingue le aspettative dalla loro realizzazione concreta. E quindi suscitano dubbi. Nella politica, nel sindacato nelle associazioni. Di solito creano aree a loro immagine e somiglianza. E, ovviamente, non riescono a allearsi con altri soggetti contigui se non partendo dalla loro alterigia. È la Micronesia della politica. Tutti disposti ad unirsi però alle rispettive condizioni. Rendono meglio se hanno un nemico.csoprattutto se occupa uno spazio contiguo al loro. Altrimenti se lo creano e, nel crearselo, disfano il lavoro altrui. Sono demolitori di professione. Oggi sono stati messi in un angolo dai populisti e dai demagoghi. Siccome nascono e proliferano nella vecchia sinistra si trovano in difficoltà quando devono combattere con un nemico che non conoscono. I loro nemici con cui cercano di litigare continuamente sono il sindacato e i partiti della sinistra riformista. Che, anziché isolarli, cerca a volte di comprenderne alcuni argomenti proposti rischiando un perenne immobilismo. Ne sa qualcosa Siriza e le sue beghe interne. Con gli altri oppositori sono tolleranti anche se vengono sbeffeggiati continuamente. Da Grillo in primo luogo. Lo spazio per loro inevitabilmente si riduce e quindi tentano di far nascere sensi di colpa nelle aree tradizionali dove, al contrario, si sta cercando di affrancarsi da questa cultura minoritaria e condannata  alla sconfitta. Che fare? Lasciarli al loro destino. Nel sindacato e nel Paese. Basta guardare la fine che hanno fatto altrove. Scavalcati da populisti di ogni risma o da oltranzisti monotematici. L’alternativa non può essere tra la loro retorica e altre retoriche. Ma tra la demagogia e la concretezza. Gli elettori stanno con chi affronta e risolve i problemi non chi vende ricette immaginifiche. Il riformismo e il gradualismo sono più complessi da proporre ma pagano di più nel lungo periodo.

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Ecologia integrale, non integralismo ecologico di Raffaele Morese

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Non mi meraviglierei se Laudato si’ fosse proposta come libro di testo per la preparazione di qualche esame universitario. Né che battesse ogni record di traduzione nelle lingue parlate nel mondo (con relativo collocamento nella “top ten” delle librerie). E neppure che ci fossero tentativi di farlo diventare un manifesto di parte. Mi meraviglierei se l’enciclica raccogliesse soltanto consensi, se – anche nella Chiesa – la si coprisse con una montagna di cemento armato, come si fa con gli impianti nucleari incidentati, se fosse considerata soltanto un’opinione piuttosto che un magistero.

Laudato si’ si colloca come “pietra d’angolo” della visione planetaria della Chiesa, prendendo di petto le questioni che meritano priorità ed i soggetti che devono agire, nel presente, per renderela Terra, “la casa comune” più vivibile, più giusta, più umana. Ma soprattutto per preservarla dalla possibile catastrofe. Che non è soltanto ecologica ma anche sociale. Degrado ambientale e vita dei più poveri sono sempre visti come un tutt’uno, senza gerarchizzazione ma certamente compenetrazione. Proprio per questo, l’accento posto sull’ecologia integrale la preserva da ogni rischio di integralismo ecologico.

Ma nello stesso tempo, la questione del “tutto si tiene”, al punto che l’ecologia è coniugata in ambientale, economica e sociale (138 e seguenti), colloca i due corni del problema – l’ambiente e l’indigenza, il rifiuto consumistico e lo scarto umano – ad un livello di superiorità mai finora posto con tanta determinazione. Il fatto che in gioco sia il Creato (parola che con Creazione e Creature ricorre il maggior numero di volte nel testo, conteggio riportato dal settimanale Vita luglio 2015) e quindi non solo la natura ma anche l’uomo, sollecita Papa Francesco a lanciare l’allarme, a scuotere le coscienze, a proporre un pressante impegno per esercitare la responsabilità individuale e collettiva.

L’uomo è chiamato a “coltivare e custodire il Creato” (genesi 2,15). Se questo è il fine, non solo per i credenti, l’enciclica ci obbliga ad interrogarci su come evitare che succeda il contrario. Perché è incontrovertibile che sta succedendo l’indesiderato. E non a caso. La ricetta è lo sviluppo sostenibile? Ma si potrà mai agguantarlo senza porre dei limiti all’espansionismo tecnologico, alla concentrazione del possesso finanziario, alla crescita dei capitali impazienti? Non sarà, forse, una scorciatoia la velleità di una decrescita (felice o infelice, non importa) che – come il socialismo – se fatto in un solo Paese e non a scala planetaria, potrebbe produrre brutte copie di totalitarismi di triste memoria?

Lo sviluppo sostenibile e integrale è la terza via più ragionevole, dopo il fallimento delle economie pianificate e l’asfissia progressiva dell’economia di mercato. Esso ha bisogno di una strutturata visione non convenzionale del benessere, di una forte ridistribuzione del lavoro e della ricchezza tra i popoli e all’interno di ciascuno di essi, di un capitalismo che non ricerchi il massimo guadagno nel più breve tempo possibile, come pretende il rampantismo finanziario che razzola nel mondo, in modo da favorire investimenti possenti proprio nell’area dei “beni comuni” ben individuati dall’enciclica (23 e seguenti), come i volani della di una rottura di continuità con le logiche dominanti e che portano al disastro.

La politica è chiamata pressantemente a rendere conto della sua fragilità propositiva e della scarsa egemonia nei confronti della tecnologia e della finanza. L’enciclica non è diplomatica al riguardo. Ma non è tacciabile di antipolitica(196); anzi, le riconosce un grande ruolo di leadership (53) specie a livello internazionale. Purtroppo, viene da osservare che la politica esprime sempre di più un deficit di visione lunga, di cristallinità nella sua azione, di formazione di classe dirigente capace di governare il presente pensando al futuro. Così alimenta populismi e disaffezioni che a loro volta lasciano spazi enormi al consolidamento del paradigma tecno-economico.

Da ciò il giusto riconoscimento della necessità di “educare all’alleanza tra umanità e ambiente” (209 e seguenti). Non si può dare per scontato che ciò stia avvenendo diffusamente. Per questo, i mondi della scienza, dell’educazione e della comunicazione sono direttamente coinvolti dalla sollecitazione papale. Nell’enciclica si tirano giù, verso la realtà, questi mondi ed è sperabile che essi rispondano all’appello e non che, dall’alto dei loro saperi e poteri, si rinchiudano nell’antropocentrismo moderno, come se fosse la loro rassicurante coperta di Linus (115 e seguenti).

Ma il destinatario principale di questa enciclica è il povero, come rappresentante cardine di un’umanità intera a rischio di catastrofe. Un povero che non deve subire, che deve agire (232), che deve conoscere (182), deve lottare per un lavoro dignitoso (128), che non va abbandonato, come uno scarto qualsiasi. E così, da essi risale alla responsabilità di ciascuno di noi. A ragione. Abbiamo tutti compartecipato a costruire le condizioni per accrescere le ricchezze di questo mondo, per produrre di più e meglio, per allargare le opportunità di benessere, grazie all’inventiva, alla scienza e alla laboriosità delle persone. Ma abbiamo sostanzialmente fallito, almeno finora, nel ridistribuire equamente tanto sviluppo. E il fallimento si protrarrà pericolosamente fintanto che individualmente non prendiamo coscienza che occorre correggere profondamente i nostri stili di vita, le nostre priorità esistenziali, la nostra percezione dell’altro, specie se più debole.

La gratitudine verso lo “schiaffo” di Papa Francesco sarebbe poca cosa se non fosse accompagnata dalla consapevolezza che ciascuno di noi può dare il proprio contributo per avere “gioia e pace”.

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Il neo estremismo come formula impraticabile.

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Landini non è una novità e non lo è neanche l’idea della coalizione sociale. Negli anni novanta ci aveva già provato Piergiorgio Tiboni allora leader della Fim CISL di Milano. Ed abbiamo visto come è finita: un modesto sindacatino  autoferenziato. Uno dei tanti nella galassia dell’estremismo parolaio. E allora non c’era né la globalizzazione, né Grillo, né la disintermediazione. Oggi Landini ci riprova. Una modesta micronesia di leader settoriali, alcuni anche meritevoli nel loro ambito, espressione di elite con scarso legame popolare e perennemente alla ricerca di prove di purezza ideologica nei compagni di viaggio. Raggruppamenti che esistono solo se sono “contro” e che hanno difficoltà ad essere “per”. Dalla strumentalizzazione  degli “ultimi” al mito dell’erba del vicino. Che sia Zapatero, Tsipras o altri che via via compaiono sulla piazza mediatica e che vengono rimossi quasi con fastidio subito dopo. Questi raggruppamenti politico sindacali falliscono perché non hanno una base sociale vera. Sono un ologramma di una parte della coscienza di ciascuno che non riesce a diventare progetto politico. O il rifugio di un gruppo di leader stanchi e senza futuro. La scena della eterogenea comitiva in missione ad Atene per il referendum e di interpreti nostrani della improbabile resistenza ellenica alla UE è sotto gli occhi di tutti. Dunque la domanda è se c’è uno spazio significativo per una sinistra radicale sociale e politica? No. Quello spazio è già occupato in Italia e altrove da altre formazioni più fresche che superano le vecchie culture del 900. Per questo sia il Sindacato confederale che la nuova sinistra politica possono tranquillamente prescindere dalla contaminazione sui contenuti. Questo apre nuovi scenari interessanti. Da un lato sul terreno sindacale dove la prospettiva unitaria e una decisa strategia partecipativa e riformista non ha alternative ma anche sul piano politico dove il neo blairismo del presidente del consiglio potrebbe trovare sponde interessanti in una Europa che deve ripensarsi rapidamente. Ci sono segnali interessanti sia nel dibattito nelle confederazioni che nel dibattito politico dopo la Grecia. Nulla sarà come prima. E allora speriamo che qualcosa si muova sul serio.

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Ikea: il sindacato con lo specchietto retrovisore

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Quello che sta accadendo all’Ikea è purtroppo emblematico di una difficoltà a cambiare del Sindacato italiano. Di fronte ad un passaggio molto delicato della vita di un’azienda l’approccio è completamente sbagliato. Nel merito e nelle modalità. Anzi si trasforma in “lotta simbolica” una vicenda di aggiustamenti contrattuali necessari ad un’azienda che ha smesso di crescere e quindi guarda con una certa preoccupazione al futuro pur continuando a investire nel nostro Paese. Un’azienda particolare. Non certo un “padrone delle ferriere”, un’azienda multinazionale attenta al contesto socio economico in cui si insedia. La reazione del sindacato, al contrario, è pavloviana. Addirittura si storpiano slogan, marchi e colori aziendali in un marketing che ricorda la famosa “cassaintegratissima Alfa” di triste memoria. Il merito apparente è una difesa di alcuni presunti diritti acquisiti sul lavoro domenicale. I lavoratori con maggiore anzianità di servizio ne godono in alcuni punti vendita grazie al fatto che quando sono stati istituiti il lavoro domenicale era sporadico e volontario in tutta la GDO. Oggi è normale orario di lavoro che, a rotazione, tocca tutti i lavoratori. Quindi non ha senso che solo alcuni di essi percepiscano una maggiorazione pari al 130% del salario. In realtà la partita vera è un’altra. La qualità del servizio e l’apporto richiesto ad ogni singolo lavoratore. E qui nasce il problema serio. Per il sindacato la qualità del servizio, l’atteggiamento del lavoratore verso il cliente non è un normale  comportamento organizzativo che si deve compiere in un determinato modo cioè come richiesto dall’azienda. L’azienda ha un suo approccio, una sua filosofia di contatto è pretende giustamente che la proattività, la disponibilità e l’ascolto siano coerenti con questo approccio. Il sindacato pensa che tutto questo appartenga alla sfera della libertà dell’individuo e quindi propugna come legittimo un approccio legato al carattere di ciascuno e al tipo di situazione. È la cultura tayloristica che rientra dalla finestra. Accetta la qualità del prodotto e gli alti standard qualitativi ma non che sia l’azienda a decidere come proporre quel prodotto. È quindi quella cultura differenzia i clienti tra buoni e rompipalle, li parifica al “padrone” bollandoli come isterici e stressati perché vanno di fretta, accetta come giustificazione solo e soltanto lo stato d’animo del lavoratore e, infine, ritiene spersonalizzante l’idea di un appproccio predeterminato. Ovviamente l’azienda ha un obiettivo: coinvolgere il lavoratore spingendolo a sentirsi parte di un progetto. Lo slogan “ti comporteresti così se l’azienda fosse tua?” rende bene l’idea. Ovviamente il sindacato si guarda bene dal sostenere questo approccio perché pensa possa spingere i lavoratori a condividere una filosofia aziendale e quindi a non riconoscersi nel sindacato stesso. E allora che fa? Fa una caricatura dell’avversario di “classe”, lo dipinge come un traditore esso stesso dei valori che propugna e trasforma una vicenda dove servirebbe un grande salto culturale in una storia di terz’ordine dove una multinazionale mette le mani in tasca ai suoi poveri dipendenti. In questo modo ottiene un risultato a breve: qualche iscritto in più e qualche trafiletto sulla stampa ma pregiudica un risultato a lungo: la costruzione di un nuovo modello di relazioni sindacali con un’impresa che potrebbe essere interessata a fare qualche passo avanti. E su una posizione così miope non c’è solo il sindacato di categoria con tutti i suoi limiti, ci sono purtroppo anche i tre segretari confederali. Che dire.  un’altra occasione sprecata. Il fatto che IKEA non sia FCA impedisce una vera riflessione delle confederazioni e questo non è un bene. Soprattutto per il sindacato.

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Quando un rinnovo contrattuale resta al palo

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Succede sempre più spesso. La tanta auspicata sigla sul rinnovo dei contratti non c’è. E quindi i contratti non si rinnovano. Da molti anni il fondamento teorico dell’azione sindacale (obiettivo, lotta, risultato) era già in crisi. La stagione delle grandi ristrutturazioni aziendali, le crisi che si sono via via succedute hanno messo in discussione e poi definitivamente accantonato parte delle liturgie. Sempre più spesso le cosiddette piattaforme preparate con cura nelle assemblee si sono trasformate in accordi che parlano d’altro. Si è passati, nel tempo, da negoziazioni incrementali per i lavoratori a situazioni win win fino a rimettere in discussione in tutto o in parte quelli che erano ritenuti diritti acquisiti e quindi non negoziabili. La fase finale di quel ciclo è stata caratterizzata da un azzeramento più o meno deciso di tutto ciò che non faceva parte della contrattazione nazionale. In altri termini in una sorta di “legge del pendolo” non dichiarata i rapporti di forza, che nel frattempo si erano spostati a vantaggio dell’impresa, consentivano di rimettere in discussione tutto ciò che, fino al giorno prima veniva dato per consolidato in azienda. Questo segnava (almeno in termini concettuali) il fondo del barile. La globalizzazione, le crisi aziendali, la concorrenza sui costi ha spinto molti settori e aziende a non fermarsi ad una sorta di “pulizia” di vecchie situazioni costruite negli anni ma le ha spinte a rimettere in discussione lo stesso contratto nazionale di categoria rifiutandone il rinnovo. La scarsa reazione dei sindacati ha fatto il resto creando una situazione nuova. Il settore o il comparto in perenne fase di rinnovo contrattuale senza alcuna possibiltà di concludere il percorso. Apparentemente questo potrebbe essere apprezzato da molte imprese. Risparmiare sui costi è importante. Come e dove farlo è spesso secondario. E se addirittura una situazione del genere permette alla singola azienda il “fai da te” contrattuale, questo è ancora meglio. I vantaggi, che nel breve sono evidenti però si fermano qui. È vero che il CCNL ha perso nel tempo parte del suo valore simbolico e che, per molti lavoratori i risultati non sono stati ritenuti significativi o che, ad esso, sono seguiti accordi di tipo personale (come nei dirigenti) però il contratto ha un valore in sé che comprende e legittima chi lo sottoscrive e fornisce le coordinate fondamentali alla base dei rapporti di lavoro. È un punto di riferimento. Una base a disposizione dell’azienda e del lavoratore sulla quale costruire un rapporto fatto di correttezza, professionalità e reciprocità. Senza è la giungla. Da entrambe le parti. E, nel lungo periodo si sta peggio tutti. Ma questo fenomeno è causato solo dalle imprese o dalle loro rappresentanze vecchie e nuove? No. Spesso è provocato più o meno inconsapevolmente anche dai rispettivi sindacati. Rifiutarsi di firmare per mere questioni di bandiera, pretendere di decidere che i propri punti di caduta debbano coincidere con quelli della controparte sono i segnali evidenti del contributo sindacale al declino dello strumento. Non esistono più pregiudiziali, tabú, materie indisponibili. Esistono scambi. È ciò che è ritenuto irragionevole da una parte dimostra buone ragioni dall’altra. Chi lo comprende contribuisce a costruire le nuove regole del gioco mentre chi non lo comprende accompagna al declino lo strumento che così perde inevitabilmente valore.

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Strategia unitaria e deriva identitaria

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Chiunque è dotato di un minimo di sensibilità politica e sociale non può non identificare in una nuova stagione unitaria il prossimo percorso che devono compiere le organizzazioni sindacali confederali. Lo dimostrano i tempi, la storia e il contesto nazionale e internazionale con cui occorre misurarsi. È giusto dire, come fa Bentivogli, che senza strategia il sindacato, unitario o meno, non va da nessuna parte ma è anche corretto non dare per scontato che il problema sia rappresentato solo dalla FIOM o dalle tentazioni politiche del suo segretario generale. Anzi, limitarsi a pensare che, rimosso il problema Landini la strada sia in discesa rischia di essere un errore molto grave con nefaste conseguenze. Negli ultimi vent’anni il sindacato (quasi tutto il sindacato) ha rinunciato a pensare al futuro e si è chiuso in un recinto identitario da cui non è più uscito. gli stessi gruppi dirigenti di categoria nazionali e locali hanno costruito piú sull’identità e sul l’appartenenza che sui contenuti. In parte era inevitabile. Dal 1994 in avanti alle divisioni sui contenuti sono subentrate le divisioni e basta. Su tutto. E quando non ci si incontra più né ci si confronta su nulla, difficilmente si costruisce insieme. A parte poche eccezioni tutto si è svolto nei rispettivi recinti. E i nuovi gruppi dirigenti sono stati selezionati e sono cresciuti all’interno di quelle logiche. Chiunque volesse trovare un’analogia con gli anni 60 quando i vecchi gruppi dirigenti furono messi in crisi dall’effervescenza sociale di quel periodo si sbaglia. Il contesto è diverso, gli attori in campo sono diversi e, soprattutto, l’attacco ai corpi intermedi coinvolge anche le organizzazioni datoriali e quindi è in corso un evidente cambio di paradigma economico e sociale che impedisce una semplice riproposizione del passato. Per questo sarebbe fondamentale per il sindacato riprendere il rapporto con gli intellettuali, rilanciare i centri di formazione, riprendere il confronto unitario sui contenuti, e impegnarsi in una nuova strategia riformista. Ovviamente una strategia che fa della collaborazione nel Paese e per il Paese il suo punto di partenza. Lavoro, produttività, merito, condivisione convinta di rischi e opportunità con le imprese, welfare contrattuale e aziendale, politiche attive del lavoro, superamento definitivo del modello antagonista, sono i temi da approfondire. Evitando di limitarsi a segnalare le rispettive posizioni ma individuando alleanze, convergenze e priorità. L’alternativa è condannarsi all’irrilevanza politica e sociale. I segnali positivi ci sono: il contratto nazionale del Terziario e le complesse vertenze chiuse unitariamente con risultati apprezzabili sono lì a dimostrare che si può fare. Occorre andare avanti così.

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il “controllo” del dirigente. Luogo fisico, orario, attività….

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Qualche anno fa un amministratore delegato tedesco mi fece chiamare con urgenza dalla sua assistente. Cosa era successo? Un collega, responsabile commerciale, alla sua richiesta di spiegazioni su una missione, ancora da compiere, in Sicilia, aveva risposto che non era tenuto a fornire alcuna spiegazione perché, in quanto dirigente, aveva l’autonomia di decidere cosa fare, quando e come. E che, l’amministratore delegato avrebbe dovuto e potuto misurarlo sui risultati e non sulla gestione del tempo o delle modalità di esecuzione della prestazione. Pur non giustificando la ruvidezza della risposta del collega ho dovuto confermare le sue buone ragioni nel difendere la sua autonomia e il suo modo di lavorare. Succede spesso, soprattutto da parte di manager di vecchia generazione, che si pretenda una presenza tipo quella richiesta ad un impiegato del catasto. Oggi si lavora per obiettivi e si dispone di una tecnologia che consente di lavorare in modo profondamente diverso dal passato scegliendo tempi e modi. Ma chi è rimasto in vecchi schemi superati ragiona ancora in termini di luogo fisico definito, catena di comando tradizionale e orario di lavoro. Il dirigente di vecchia scuola non delega, decide in prima persona, giustifica sempre i suoi comportamenti e, siccome non riesce a controllare tutto, accusa il prossimo dei propri limiti. Il mondo del lavoro è ancora abitato da figure di questo tipo. Fortunatamente stanno scomparendo perché nelle moderne organizzazioni non li vuole più nessuno ma resistono ancora su qualche scoglio dove sono rimasti attaccati come cozze. Questi manager amano la sera lasciare l’azienda per ultimi e pretendono lo stesso atteggiamento dai collaboratori. Non importa se fingono di lavorare o perdono tempo giocando a tetris o al solitario con il PC, l’importante è che stiano supini nella postazione di lavoro a loro assegnata. Di solito si circondano di signorsì. Non amano il contraddittorio e si vogliono sentire temuti. Non delegano perché non si fidano di nessuno. E, non fidandosi di nessuno, non fanno crescere i collaboratori. Fingono di essere democratici, spesso vogliono essere trattati in modo amicale. I collaboratori sanno che il rapporto con il capo è sempre asimmetrico e quindi stanno sempre attenti a non esporsi. Lavorare con loro può diventare impossibile. In genere non hanno visione del futuro. Ne parlano a vanvera. Sono tattici, giocano nel breve. Non si rendono conto dei loro limiti e, in genere portano le loro organizzazioni al capolinea. Che fare quando si incontrano? Occorre gestirli. Adularli, prenderli in parola e crearsi contemporaneamente spazi autonomi. Soprattutto di pensiero. Di solito elencano progetti e idee improbabili, vagheggiano ruoli, compiti e funzioni che non praticano, chiedono contributi agli altri che non usano. Si dimenticano delle promesse che fanno. Ma, proprio per questo, lasciano spazi a chi sa prenderseli. In fondo non sono cattivi. Sono solo superati.

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la visione uno non se la può dare…..

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le trattative per il rinnovo di qualsiasi contratto sono un test interessante per misurare la presenza o meno della capacità di visione dei negoziatori. Il negoziato è, per sua natura, un compromesso e quindi giocano sicuramente un ruolo i rapporti di forza, il contesto generale e/o aziendale, la personalità e la stima che i rappresentanti assegnano alla propria controparte e anche la fiducia che ciò che si concorda sarà rispettato. Però in ogni negoziato si afferma sempre un senso, una direzione di marcia un elemento che rappresenta la ragion d’essere della trattativa: la capacità di inserire quegli obiettivi in una strategia credibile e riuscire a trasmetterla ai propri interlocutori. Fu così per la CISL negli anni 50/60 con la contrattazione articolata e poi dall’insieme dei sindacati confederali negli anni della svolta dell’Eur e dell’assunzione di forti responsabilità per arrivare poi fino alla concertazione. Poi il vuoto. Dall’altra parte fondamentalmente Confindustria e Confcommercio hanno creato due modelli in parte uguali per l’influenza del taylorismo, in parte diversi perché al centro delle negoziazioni di area Confcommercio il welfare contrattuale ha sempre avuto un peso rilevante dimostrando, in questo modo, una notevole capacità di visione. Visione presenti anche nelle controparti sindacali di quella fase storica. Ovviamente su Confindustria e sulle sue categorie ha pesato la necessità di reggere l’urto maggiore causato dai rapporti di forza in campo e quindi la necessità di difendere tout court le imprese. In quegli anni sono nati tra l’altro lo Statuto dei lavoratori, le 150 ore, le leggi sulla sicurezza sul lavoro, la contingenza e il suo superamento, ecc. Tutti elementi che, nel bene e nel male, hanno segnato, per una generazione, un protagonismo è una partecipazione che ha avuto effetti positivi su tutta la società italiana. Cosa accumulava richieste e strategie era la visione di un futuro da condividere. Oggi non è più così. Sembra prevalere la navigazione a vista, il breve periodo, i tatticismi. Le richieste (un tempo si chiamavano piattaforme) sono mediocri. E tutte tese a mantenere ciò che c’è. Anzi. sembra più importante limitarsi a condizionare le richieste datoriali senza valutare se le stesse sono dannose per il futuro dei propri associati, inutili o potrebbero, nel tempo, provocare più problemi di quanti ne risolvano nel breve. E qui diventa evidente la mancanza di visione. Nessuno è disponibile a partire dal contesto. Azzerando ciò che va azzerato e costruendo un contenitore e naturalmente nuovi contenuti degni di reggere il medio/lungo termine. Da qui la crisi dei modelli contrattuali e la scorciatoia che oggi va per la maggiore che affiderebbe la soluzione al livello aziendale. Nessuna riflessione sulla nuova cultura necessaria, sugli strumenti, sui contenuti  e sul modello di sindacato piú idoneo ad affrontare quello che è un vero e proprio cambio di paradigma economico e sociale. Ha ragione Bentivogli quando dice che un Sindacato, pur unitario, senza una strategia non va da nessuna parte. Però temo sia poco ascoltato. E questo vale sia per il sindacato confederale ma anche per i piccoli sindacati o le associazioni  di nicchia. Un rinnovo contrattuale deve avere un soggetto, un cuore e un’anima. Un perché, innanzitutto. Non basta che sia scaduto. Questo poteva valere in passato. Oggi non è più sufficiente. Anche qui, la visione del futuro. O c’è o non c’è. E se non c’è non basta alzare la voce.

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