Di questi tempi, in azienda, non è facile gestire seriamente i propri collaboratori. Aggiungo che non sono moltissime le aziende dove è presente e in uso un sistema strutturato di valutazione e sviluppo delle risorse. Questa situazione impedisce ai capi meno esperti di crescere nella capacità di ingaggiare, valutare e gestire singoli e team e quindi di far crescere i propri collaboratori. È questo crea situazioni di disagio. Apprendere specificità, diversità, metodologie e quindi dosare il proprio impegno nel coinvolgere i propri collaboratori è altrettanto importante che avere le competenze richieste per coprire una posizione manageriale. E quando ci si trova in difficoltà si mettono in crisi rapporti personali e si rischia di non ottenere quel contributo di passione, di impegno e di idee dalle proprie risorse spesso compromettendo il raggiungimento degli obiettivi di business. E, se così è, si viene messi in discussione. Un buon Capo sa capire e gestire le differenze, sa aiutare i collaboratori a crescere ed è soddisfatto quando alcuni di loro, in azienda, o fuori, si affermano professionalmente dimostrando, in questo modo, la propria capacità nell’averli cercati, selezionati, gestiti e aiutati a crescere quando erano più giovani.
I collaboratori, però, non sono tutti uguali. C’è chi cresce prima e chi dopo. E c’è anche chi non cresce mai. Occorre, però, sempre ricordare che, in azienda, esistono tre punti di osservazione. Il proprio, quello di chi ci sta di fronte e quello dell’azienda che potrebbe non coincidere né con il nostro né con quello del nostro interlocutore. Quindi è necessario avere sempre presente che i pregiudizi, la superficialità, i luoghi comuni, oggi non funzionano. O, meglio, non fanno crescere né il capo né il collaboratore. Il “Si è sempre fatto così”, “se non ti va te ne puoi anche andare”, “si fa così e basta”, “il capo sono io” rappresentano una cultura in via di estinzione o comunque priva di prospettive. I collaboratori vanno capiti e guidati, per fare questo, vanno ascoltati e gestiti. Per questo può essere interessate provare a ragionare sulle caratteristiche e sulle principali differenze oggettive tra soggetti appartenenti a categorie diverse. A questo andranno poi aggiunte, ovviamente, tutte quelle considerazioni soggettive e specifiche, indispensabili per una corretta valutazione. È una semplificazione che però può aiutare a riflettere. Nulla di più.
1) Il collaboratore brillante ma giovane
Appartiene alla generazione Y e va fino alla generazione Z. La sua idea di lavoro è profondamente diversa da chi lo ha preceduto. Non vive per l’azienda né vorrebbe trascorrervi un tempo infinito. Chi appartiene ad altre generazioni spesso pretende troppo da sé stesso e dagli altri. La quantità di tempo da investire in azienda è altra cosa rispetto alla qualità della prestazione. Il giovane, in genere, è portato a cercare un equilibrio continuo tra impegno professionale e contesto personale, spesso frequenta i social e pretende un senso in tutto ciò che fa. Nel lavoro occorre saperlo coinvolgere su diversi progetti non solo per misurarlo professionalmente ma anche per evitargli la routine. A volte sa andare ben oltre il ruolo assegnato e cerca sempre di portare un contributo positivo e costruttivo. Il capo deve lasciarlo esprimere il più liberamente possibile, aiutandolo, al massimo, a contestualizzare e a inquadrare gli aspetti che a lui sfuggono per mancanza di esperienza. Infine deve cercare di abituarlo a saper prendere la giusta distanza dai problemi insegnandogli a non reagire mai a caldo, a non dare giudizi sugli altri senza aver esaminato i differenti aspetti di un problema.
2) Collaboratore con figli o con problemi familiari
Contrariamente a quanto si crede chi ha problemi extralavorativi (soprattutto le donne) sono i più coinvolti e impegnati nel lavoro. Sono generalmente persone affidabili e produttive. Per aiutarli a sviluppare il loro potenziale il capo deve, innanzitutto, sapersi mettere nei loro panni. Ad esempio evitando di programmare riunioni tardi la sera o tollerando assenze impreviste. Agendo in questo modo e non colpevolizzando nessuno a causa di impegni improvvisi gli stessi saranno compensati da un importante investimento sul lavoro del collaboratore. Donne e uomini divorziati, famiglie con problemi e impegni extralavorativi richiedono una diversa tolleranza e un diverso approccio rispetto al passato in tema di impegno qualitativo e quantitativo sul lavoro.
3) Il futuro pensionato
Il prolungamento della vita lavorativa porta con sé la necessità di imparare a gestire collaboratori alla fine del loro percorso professionale. In genere sono arrabbiati con la Fornero, ipersensibili alle critiche e diffidenti verso capi più giovani di loro. Il rischio è di spingere, chi è in queste condizioni, a pensare di non aver più nulla da dimostrare e quindi a chiudersi in atteggiamenti passivi fino alla pensione. Al contrario occorre saper gestire queste persone con grande cautela facendo leva sull’importanza che l’azienda intende assegnare alla loro esperienza come ricchezza da valorizzare. A questo collaboratore potrebbe essere utile assegnare un ruolo di trasmissione di competenze che comunque non andrebbe mai sottovalutato. Per questo un capo dovrebbe incentivare i collaboratori più giovani a porre domande a loro, a far tesoro della loro esperienza, a far sentire il collaboratore anziano ancora utile all’azienda.
4) Lo stagiaire
L’errore più comune è non considerarli proprio. Quasi fossero fantasmi di passaggio. Al contrario con i costi di selezione e di ricerca avere la possibilità di valutare e impiegare in azienda giovani che poi potrebbero restare a lungo è un fattore importante. Un buon capo sa assegnare allo stagiaire un tutor di riferimento, obiettivi realizzabili e lo aiuta a crescere proponendogli momenti di confronto per coinvolgerlo. Quindi gli assegnerà dei lavori anche parziali e modesti ma dove lui stesso potrà apprezzarne i risultati. Questo non solo sarà utile per la sua crescita ma lascerà a lui una buona immagine dell’azienda e del Capo che porterà con sé anche altrove. Con l’utilizzo esagerato che si è fatto nelle imprese di questa figura pochi hanno considerato come la reputazione stessa dell’azienda risenta di ciò che chi vi ha lavorato anche per pochi mesi trasmette all’esterno.
5) Il lavoratore a tempo parziale
Spesso si pensa che chi lavora a metà tempo va gestito come un collaboratore di passaggio. O a metà. Niente di più sbagliato. Soprattutto non bisognerebbe mai assegnargli ciò che gli altri non vogliono fare. Il capo deve accettare l’idea che il collaboratore deve essere impegnato per il tempo equivalente e non caricato oltre il suo orario se non strettamente necessario. Colpevolizzare il collaboratore con orario ridotto (per scelta sua o spesso per scelta aziendale) non serve a nulla se non a frustrarne motivazione e impegno.
Il collaboratore da promuovere
Per prima cosa occorre accertarsi che la promozione che si vorrebbe assegnare sia il vero obiettivo del collaboratore. Non sempre lo è. Soprattutto per chi pensa di avere ancora delle possibili aree in cui è necessario crescere. Essere un ottimo specialista non significa saper gestire le persone e saper gestire le persone non sempre è accompagnato dalla capacità di mantenere alto il proprio livello di specializzazione. Spesso chi viene promosso è chiamato a gestire collaboratori che fino al giorno prima erano colleghi e questo può generare grosse difficoltà. Al Capo spetta accompagnarlo in questa nuova situazione perché intervenire dopo è spesso troppo tardi. Accompagnarlo nei primi mesi significa fornire tutti gli strumenti utili e i punti di riferimento necessari al suo nuovo incarico ed essere sempre disponibili a supportarlo. Potrebbe anche essere utile un coaching di supporto con esperti esterni propedeutici della promozione.
6) Il futuro ex
L’approssimarsi della fine di un contratto a tempo determinato, le dimissioni o un licenziamento spingono questa tipologia di collaboratore a considerarsi in uscita e quindi con scarsa motivazione e poco propenso a essere coinvolto. Se lascia l’azienda dopo pochi giorni il problema non sussiste ma, spesso, l’azienda ci mette del suo pretendendo la presenza sul posto di lavoro fino all’ultimo giorno del preavviso ma sottovalutandone la gestione interna. E quindi? In genere questo collaboratore viene pagato ma scarsamente utilizzato: una sciocchezza per l’azienda che lo paga inutilmente e per il collaboratore che si trova stipendiato senza fare nulla. In questo caso sarebbe molto meglio coinvolgerlo sui progetti che conosce e che ha seguito fino a quel momento fornendo a lui obiettivi o attività stimolanti anche se non strategici o di lungo periodo.
7) Il numero 2
È quello che aspira al posto del capo. Difficile da gestire perché in genere si muove coperto. L’unica arma con lui è il dialogo. Se il Capo merita quel posto non deve avere nessuna preoccupazione nella sua gestione.
Occorre ricordare sempre al numero 2 qual’è la sua posizione, fargli i complimenti per il suo spirito di iniziativa e per i suoi successi ricordandogli però sempre qual’è il suo posto nel suo interesse e nell’interesse dell’azienda. Occorre saperne sfruttarne l’energia positiva e spingerlo alla collaborazione continua accettando però l’idea che l’ambizione personale e la voglia di crescere rappresentano un valore positivo in una impresa.
8) Il nuovo arrivato
Chi è appena arrivato in azienda vuol fare una buona impressione con tutti. E questo provoca stress anche per paura di sbagliare. In poco tempo il nuovo arrivato deve apprendere un linguaggio nuovo, una cultura spesso diversa da quella di provenienza, interagire con colleghi e con strumenti differenti. Quindi si muove in modo spesso impacciato. Il capo si deve mostrare indulgente a fronte di inevitabili errori spiegando dove e perché ha sbagliato e rassicurando il nuovo collaboratore. Nelle prime settimane occorre prevedere degli incontri specifici sul contesto di lavoro, le difficoltà incontrate, l’adattamento, i colleghi, ecc. finalizzate ad abbassare lo stress e a finalizzare l’impegno.
A queste tipologie se ne potrebbero aggiungerne altre. Il collega polemico, quello con problemi personali, il millantatore, il sindacalista o quello che lancia il sasso e nasconde sempre la mano. Infine quello che da sempre la colpa agli altri. L’azienda è un contenitore ricco di umanità varia. Gestire diversità, tensione, competizione, atteggiamenti infantili o prepotenti fa parte dei compiti di chiunque ha a che fare con risorse e carriere. Per questo fare il capo non è facile. Come tutti i mestieri si può però apprendere come farlo al meglio. Questo deve essere l’obiettivo.