Gli incontri programmati sul CCNL dei metalmeccanici ci diranno qualcosa di certo sul suo destino già nei primi mesi del 2020. Il leder della Fim CISL Marco Bentivogli spinge per chiuderlo rapidamente mentre Federmeccanica, per altrettante buone ragioni, frena.
Se togliamo qualche rinnovo minore lo scenario non è certo incoraggiante in numerosi comparti. Quello che avrebbe dovuto essere l’argomento centrale di questa nuova stagione di rinnovi: il “diritto/dovere” all’occupabilità vero antidoto all’instabilità del mercato del lavoro e al ritorno su piazza dell’art. 18, sembra scomparso dai radar.
Le aziende hanno preferito chiudersi a riccio in questi anni per cercare di tutelarsi dal contesto e hanno tenuto fuori dalla porta le organizzazioni sindacali spingendo quest’ultime a formulare piattaforme meno innovative. Lo stallo è evidente. Nel Commercio le scadenze sono state posticipate in attesa di tempi migliori. In molte aziende il clima che si respira è profondamente diverso rispetto a quattro anni fa.
Il cosiddetto “diritto soggettivo alla formazione” non è entrato nel DNA delle aziende metalmeccaniche figuriamoci in altri comparti. La stessa eliminazione dalla manovra in approvazione dell’obbligo di depositare gli accordi aziendali sulla formazione 4.0 segnala e conferma la volontà di far da sé delle imprese. Si preferisce navigare a vista più che scommettere su di un coinvolgimento in positivo del sindacato.
Meglio puntare al rapporto diretto con i collaboratori attraverso politiche retributive e di sviluppo individuali gestite in esclusiva dalle direzioni risorse umane. C’è qualcosa nel linguaggio e nell’atteggiamento di buona parte del sindacato che sembra consigliare le imprese più o meno strutturate di tenerlo a debita distanza. Altro che rilancio della contrattazione aziendale. Sta bene parlarne nei convegni o nelle determinazioni spesso generiche tipiche dei contratti nazionali dove un avverbio piazzato in posizioni strategica consente tutto e il suo contrario.
Ma è la preoccupazione di trovarsi in casa un sindacalista incompetente, a volte ideologico che può fare più danni della grandine che si è rafforzata in questi anni. Sopratutto in tempi come questi. A poco servono le legittime esternazioni di chi tra i dirigenti sindacali quei problemi li ha studiati e propone ai propri attivisti e delegati di approfondirli attraverso una formazione di qualità per essere proattivi e preparati al confronto con l’impresa.
Un confronto che al contrario rischia quindi di non esserci mai o di essere vissuto come un inutile perdita di tempo relegato alle poche realtà che hanno capito che l’ingaggio vero delle persone non può essere estorto o comprato ma si nutre anche del confronto tra le parti. E magari in quelle realtà si cerca di investire in modelli formativi progettati in comune per crescere insieme.
Resta però una intera classe dirigente sindacale che preferisce interpretare stancamente una parte immutabile e quindi di fatto subalterna. E dall’altra parte la stragrande maggioranza delle imprese che non si fidano per nulla. Quando ci si domanda perché ciò che è stato concordato nel testo del contratto nazionale non ha trovato riscontro nelle aziende non bisognerebbe fermarsi alle letture superficiali o ai rifugi dialettici tipiche della rappresentanza. Questo impedisce di crescere.
La realtà è spesso più semplice. Se la si vuole vedere. Le stesse organizzazioni datoriali appaiono spesso disorientate perché strette dalla necessità di interpretare un ruolo più da ammortizzatore che di guida e di cambiamento. Sembra fatichino molto più che in passato ad orientare le imprese nella valorizzazione delle relazioni industriali non riuscendole sempre a collegarle ad una strategia di innovazione.
Dopo la stagione che ha visto la marginalizzazione delle HR nelle aziende si sta delineando una situazione analoga nei confronti delle rappresentanze da parte delle imprese? “Limitare i danni” sembra essere la parola d’ordine che caratterizza la stagione che ci attende. Quando poi si leggono certe dichiarazioni come quelle di Maurizio Landini che da un lato propone un positivo patto con le imprese e dall’altro dichiara che le persone che fanno lo stesso lavoro nella stessa azienda non possono avere retribuzioni diverse non fa certo ben sperare perché continua ad assegnare al sindacato un ruolo tradizionale di chi ragiona ancora pensando alle mansioni e all’inquadramento del 900 che esclude il merito e l’impegno individuale dai criteri valutativi.
Una parte del sindacato però è ferma lì. Altro che rinnovamento. Le aziende, d’altra parte, sono ormai strutturate per poter far da sole e la tentazione di continuare così, è forte. L’idea stessa che la rappresentanza datoriale sia più un costo che non un’opportunità di confronto e di crescita collettiva sta prendendo piede sempre più. E in molte situazioni la lentezza, l’autoreferenzialità e la farraginosità decisionale non depongono certo a favore dell’insieme dei corpi intermedi. E lo stato delle adesioni lo conferma.
A mio parere però resta una scorciatoia senza sbocco. Nessuna impresa è in grado di far da sola a lungo se non porta il suo contributo ad una riflessione più complessiva sul “sistema Paese”. Non si affrontano i nodi strutturali che frenano la nostra competitività senza un coinvolgimento di tutti gli attori che vi interagiscono. Lo stesso rapporto con le persone rischia di essere strumentale e quindi poco efficace nel lungo periodo.
Per questo i rinnovi contrattuali sono un’occasione da non perdere. Soprattutto se lasciano da parte le accuse e le incomprensioni reciproche. C’è uno spazio innanzitutto culturale da recuperare. E non lo si recupera se si forza la realtà e i suoi tempi di maturazione necessari.
Certo i contratti potranno essere rinnovati comunque. Ma la loro importanza si rivelerà differente se imprese e i lavoratori attraverso le loro rappresentanze scommetteranno sulla stessa direzione di marcia.