Grande Distribuzione. Il clima aziendale va in classifica…

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Mi sono immaginato l’espressione di sorpresa di molti formatori, consulenti e sindacalisti del commercio nel vedere la classifica pubblicata dal Corriere Economia sulle insegne della GDO in classifica tra le aziende top in cui lavorare. Così come quella dei CEO che si sono trovati chiamati in  causa improvvisamente senza, probabilmente, neanche sapere di aver partecipato ad una gara. Due domande semplici: dai un voto alla tua azienda da 1 a 10 e la consiglieresti a un tuo familiare? Nulla di particolarmente sofisticato ma 12.000 lavoratori coinvolti  da Statista che ha costruito la graduatoria con  i giudizi espressi e pesati che hanno superato i 650.000 e hanno messo in gioco 400 aziende.

Il clima aziendale, checché se ne pensi,  è uno dei principali fattori di successo di un’impresa che sa dove andare. È complementare alle strategie e alle politiche commerciali. È quell’elemento che fa superare le difficoltà, i piccoli e grandi problemi che ti porti sul posto di lavoro ma anche quelli che incontri mentre sei nel PDV. È costituito da quello scambio continuo tra il dare e l’avere (non solo economico) che si gioca sul piano organizzativo, psicologico e personale. È quello che, se stai sopra, di convince che puoi provare a chiedere qualcosa di più in certi momenti.  

Il clima aziendale non lo determina il contratto nazionale. Né il suo rispetto. Semmai quello è dato  per scontato. E spesso quel testo è citato, come il Vangelo, da molti anche se pochi lo hanno letto. Alcune di quelle insegne  hanno una turbolenta e travagliata storia sindacale. Il “tempo tuta”, le pause, le turnazioni nei reparti più disagiati, gli orari e il lavoro festivo, la mobilità interna e esterna, gli straordinari, la contrattazione aziendale, solo per indicare alcuni problemi, hanno segnato la storia delle complesse relazioni sindacali nei punti vendita.

Per questo vedere il mondo Coop che del mantenimento di quell’equilibrio ne ha fatto un punto di distinzione rispetto all’intera GDO in posizione non invidiabilissima, fa riflettere. Come credo che, nel caso di Carrefour o di altre insegne, pesino le acquisizioni e il conseguente allineamento di modelli organizzativi e di gestione del personale diversi tra di loro che hanno determinato e determinano  per un certo periodo di tempo problemi di clima aziendale tra acquisiti e subentranti. 

Dentro il PDV si crea un microclima particolare, un legame con il territorio e con i clienti che le aziende più accorte coltivano e che, spesso, fanno la differenza tra un’insegna e l’altra. Per queste ragioni non condivido chi critica la graduatoria suggerendo letture superficiali o sottesi intenti manipolatori.

Spesso le insegne guardano solo ai risultati immediati. La flessibilità indispensabile  si traduce in disponibilità alle mutevoli esigenze dell’azienda. E questo va bene. Quello che manca è, a volte, la reciprocità nella comunicazione, la gratificazione dell’ascolto da parte di chi rappresenta l’azienda nel PDV e la restituzione di una risposta coerente. Solo dove c’è, si crea il giusto scambio. Così come nelle opportunità di crescita.

La grande distribuzione è spesso vista come un concentrato di lavoro povero, di part time involontario, di basse retribuzioni e di vincoli orari giornalieri e settimanali complicati e pesanti. È vero, non è un lavoro per tutti. Lo è però per le fasce spesso rifiutate dal mercato del lavoro tradizionale, per età e condizioni socio economiche, lo è per chi nel lavoro cerca relazioni umane e interpersonali non formali, lo è per chi, pur non avendo potuto studiare, vuole crescere professionalmente. Lo è per giovani che hanno capito che solo la frequentazione del cosiddetto  “marciapiede” e la comprensione anche del lavoro più umile consente di crescere in seguito sul piano manageriale. È un mestiere che consente di capire il consumatore, le sue esigenze e la sua volubilità. Il clima che si crea tra colleghi e capi spesso compensa i sacrifici necessari, l’impegno e la rigidità di certi ambienti lavorativi vissuti intensamente.

Le insegne in classifica, salvo alcune particolarmente evolute nella gestione delle risorse umane, non hanno grandi politiche di sviluppo RH codificate. Però presidiano il campo molto bene. Il limite semmai è che si nasce e si muore nello stesso comparto. Difficile uscirne. Sono però realtà che si trasformano in grandi scuole professionali per specialisti e middle manager che non trovano nella scuola pubblica e nei corsi esterni grandi risposte formative alle loro esigenze.

C’è sicuramente ancora molto da fare. Cosa dice però la  classifica? Nella GDO non è la classe dimensionale, né l’appartenenza al food o al no food a fare la differenza. Si può stare bene o male dappertutto. C’è una buona formazione interna, spesso on the job e il ricorso alla formazione finanziata attraverso i fondi interprofessionali è significativo.

Scorrendo le insegne in classifica si nota  una importante  presenza dell’imprenditore stesso sempre in diretta sui PDV cosa che ha sempre un effetto sul clima. In altri casi c’è un ruolo delle direzioni vendite o delle direzioni risorse umane. Non esiste un modello prevalente. Discount, super, iper o altro non ci leggo una grande differenza. E questo mette la mordacchia agli spacciatori  di  leggende metropolitane.

Se dovessi tirare un riga credibile non mi fermerei alle prime 10 del settore. Non c’è un dato omogeneo significativo. Occorre al contrario metterle in relazione con il clima complessivo del lavoro e della sua percezione nel Paese.

Le prime 15 del  comparto rientrano tra le prime 150 della classifica generale fatto di 400 aziende che hanno superato una certa soglia di tutti i settori merceologici e quindi conseguono, a mio parere,  un buon risultato. E, in certi casi, anche oltre quel dato, la differenza è minima e poco significativa.

Si può fare meglio? Certo che sì. Ma la fotografia mostra un settore vivace e interessante. E questo è quello che conta. 

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