Contratto dirigenti terziario: Un “rinnovamento” assolutamente necessario più che un semplice rinnovo.

Ogni contratto nazionale è figlio della storia e del contesto che lo hanno prodotto. Non fa eccezione il contratto nazionale dei dirigenti del terziario. Chi, negli anni, lo ha costruito e negoziato (da entrambe le parti) ha avuto la lungimiranza di pensare a lungo termine. Cioè di capire che sarebbe stato necessario pensare non solo ai dirigenti nel momento della loro massima forza professionale individuale ma concentrandosi su quando questa capacità negoziale individuale sarebbe venuta meno.
Da lì un importante welfare previdenziale e sanitario di carattere marcatamente solidaristico e, in un secondo tempo, anche formativo, attraverso il Cfmt.
Intuizioni non da poco in una categoria, per sua natura, dominata da un forte individualismo.
Quindi l’anima, il cuore di questo contratto nazionale, la sua specificità e la sua ragion d’essere non sono mai state né la parte economica né il sistema di tutele peraltro presente anche in altri contratti. Ovviamente un welfare così decisivo e importante deve essere mantenuto efficace nel tempo, per rispondere alle esigenze dei dirigenti, ma anche efficiente e quindi in equilibrio economico per non pesare sulle imprese.
Questo è ottenibile solo se si rafforza un sistema di governance moderno e trasparente in un contesto effettivamente bilaterale. Quindi rispettoso del peso e del ruolo di entrambi.
Ed è chiaro che questo rappresenta e rappresenterà un tema ineludibile che deve essere affrontato. Non è materia di merito del CCNL ma precede o accompagna il suo percorso di rinnovo. Così come rappresenta un tema ineludibile, per le imprese, la necessità di mettere mano al sistema delle tutele o dei vincoli quando questi ormai rappresentano solo un costo eccessivo o hanno le loro radici in un passato che forse non ha più ragion d’essere.
Il CCNL dei dirigenti del terziario viene applicato da aziende di settori molto differenti. Il commercio ne rappresenta una minoranza. Alcune di queste aziende non hanno problemi di costo per questa specifica categoria, altre, e sono la maggioranza, sono, al contrario, estremamente sensibili. Inoltre per la Confcommercio c’è un problema di coerenza e di equilibrio in rapporto agli altri contratti firmati. E di questo occorre tenerne ben conto. Tutto ciò pone un secondo punto di riflessione.
Il termine “rinnovo contrattuale” nell’immaginario collettivo è sempre stato collegato alla necessità di migliorare le condizioni di una sola parte. Sia essa rappresentata da dirigenti, come in questo caso, o da altre categorie di lavoratori dipendenti.
È sempre stato così ma non è scritto nella pietra e, proprio per questo motivo, negli anni, questa certezza ha lasciato spazio alla constatazione che un rinnovo di contratto nazionale rappresenta un momento di confronto e verifica su ciò che dovranno essere le regole, vecchie o nuove, da confermare, aggiornare o abrogare per l’intera durata dello stesso. E siccome nulla è statico, tutto è modificabile. Ovviamente con l’accordo tra le parti. Quindi ha più senso parlare di rinnovamento concordato e necessario degli istituti contrattuali più che di rinnovo automatico.
I negoziatori meno esperti potrebbero pensare che, a certe condizioni, sia meglio non rinnovare alcun contratto come se il rifiuto di affrontare uno o più temi li possa di per sé esorcizzare.
È un errore che spesso compiono i neofiti della contrattazione o i sindacati ideologici. Il risultato è semplice: un sindacato che non firma contratti è destinato a non contare più nulla. I temi sul tavolo non vanno sottaciuti o sottovalutati. Vanno affrontati e risolti con autorevolezza e lungimiranza. Il punto centrale resta la qualità dello scambio. Ciò che si lascia in rapporto a ciò che si ottiene. È questo non in astratto ma in un determinato contesto economico del Paese.
E se da un lato, al sindacato dei dirigenti preme allargare la propria platea di riferimento, rafforzare il sistema formativo o sostenere i colleghi nei casi di transizione tra differenti opportunità di lavoro, alle imprese interessa muoversi in un contesto di riduzione di ambiguità interpretative, e che gli eventuali costi se mai dovessero esserci siano comunque compensati da contropartite certe e misurabili. Oggi siamo qui, ancora fermi al palo. Riprendere il confronto con l’idea di arrivare ad una conclusione vuol dire comprendere fino in fondo la necessità di lavorare per ottenere questo riequilibrio. Personalmente non vedo altre vie praticabili.

Rinnovo o rinnovamento dei CCNL?

Nei percorsi negoziali e nella normale dialettica sindacale i cambiamenti di fase sono scanditi da parole chiave, da nuovi comportamenti o da modifiche strutturali che segnano contemporaneamente la chiusura di una fase o l’apertura di una nuova. Questo vale, soprattutto, nei modelli e nei contenuti della contrattazione sia essa nazionale o aziendale. Marca nuove opportunità, atteggiamenti, nuovi diritti o li rimette in discussione. C’è stata, ad esempio, la fase della “contrattazione articolata”, decisamente aggiuntiva rispetto al Contratto nazionale, quella della cosiddetta “prima parte dei contratti” dove i diritti di informazione hanno avuto ben più importanza del salario, quella della partecipazione “concessiva” (termine coniato dal prof. Baglioni) dove le imprese coinvolgevano i sindacati quasi esclusivamente nella gestione dei processi di riorganizzazione e di ristrutturazione. Poi quella nella quale le materie trattate nel CCNL non potevano essere più riprese nella contrattazione aziendale. Adesso siamo entrati nella fase del “riequilibrio” o, come preferisce chiamarla Federmeccanica di “rinnovamento contrattuale”. L’impresa vuole muoversi con maggiore rapidità e autonomia e quindi cerca di rimettere in discussione anche i ruoli e le prerogative delle organizzazioni sindacali interne o esterne. Questa fase è stata preceduta, in molte realtà di dimensione medie (Fiat a parte) da un suo sottoprodotto: l’azzeramento o la sospensione della contrattazione aziendale. Proposte e accettate dalle le organizzazioni sindacali in molte realtà del sud soprattutto in caso di acquisizioni o per evitare chiusure, unilaterali  e con scontri e battaglie legali al nord. L’obiettivo era, ovviamente, quello di ridurre i costi ma anche quello di cercare di ridefinire, una volta per tutte, i rapporti di forza all’interno di molte imprese. In generale è possibile affermare che questa asimmetria di potere oggi è favorevole alle imprese. Ed è da qui che occorre partire. Perché è necessario un profondo rinnovamento del CCNL? E perché questo rinnovamento è fondamentale sia per le imprese che per i sindacati? Al di là delle discussioni sui livelli della contrattazione e della necessità di rivederli un dato è certo: occorre comunque rivisitare e attualizzare i contratti nazionali. In primo luogo perché non ha senso superarli, in secondo luogo perché le imprese devono trovare risposte e soluzioni rapidamente e non vincoli e norme spesso inapplicabili e quindi disapplicate.  I diversi contratti nazionali hanno subito, negli anni, una continua manutenzione ordinaria e straordinaria. Sono stati adattati a nuovi mestieri, nuove realtà imprenditoriali. Si sono dovuti piegare a nuove norme e hanno dovuto accompagnare le imprese e i lavoratori sia nelle fasi di crescita che di profonda crisi spesso trascinando con sé norme e cavilli spesso contraddittori che non hanno più ragioni di esistere. Per questo occorre mettervi mano e ha più senso parlare di rinnovamento dello stesso anziché di semplice rinnovo. Nel contratto del terziario il tema è stato affrontato istituendo le cosiddette “deroghe”. Non è un caso, che proprio nel CCNL del terziario, i negoziatori hanno dovuto prendere atto che un contratto che gestisce oltre tre milioni di addetti non può non prevedere la possibilità di adattamenti e modifiche in contesti specifici. Forse non sarà sufficiente, però è una presa d’atto importante. Sarà così anche per il contratto dei dirigenti del terziario fermo proprio sulla necessità di una profonda rivisitazione di tutele che rischiano di non avere più senso. Sarà ancora più decisivo ciò che avverrà nell’industria dove si misurerà la possibilità o meno di creare nuove regole del gioco e quindi di riequilibrare diritti, doveri e costruire nuove relazioni sindacali. Ovviamente sarà interessante capire se le parti in causa giocheranno fino in fondo la partita o se si richiuderanno in un reciproco quanto infruttuoso scambio di accuse. Siamo un po’ su una nuova linea di confine. Termini come collaborazione, partecipazione, rispetto reciproco, diritti e doveri possono trovare una composizione positiva è una nuova declinazione nell’interesse delle imprese e dei lavoratori. Non si difendono il lavoro, le imprese e gli interessi del nostro Paese giocando solo contro uno all’altro come fossimo ancora nel 900. Dobbiamo tutti saper guardare oltre e costruire insieme. Quello che spero è che dietro le parole ci sia una vera presa d’atto che i cambiamenti nel nostro sistema di relazioni sindacali  sono inevitabili sia nel metodo che nei contenuti e quindi vengano affrontati come tali.

CCNL dirigenti terziario: un rinnovo che rischia di non esserci..

Dopo un anno di moratoria seguito da lunghi quanto infruttuosi negoziati il rinnovo del contratto nazionale dei dirigenti del terziario rischia di non trovare una sua conclusione. Le ragioni alla base dell’impasse sono essenzialmente da ricercare nella difficoltà di trovare una sintesi tra le necessità, espresse da Confcommercio, tese a modificare alcune datate normative contrattuali e la posizione ribadita da Manageritalia di mantenerle comunque in vigore accettando, al massimo, modifiche non sostanziali e comunque non ritenute sufficienti dalla controparte.
Ovviamente sono posizioni di parte assolutamente legittime.
Personalmente cerco di andare oltre perché credo che un rinnovo di un contratto nazionale oggi deve saper trovare un vero e proprio riequilibrio rispetto ad un passato più o meno recente dove, era dato per scontato, che l’asimmetria fosse esclusivamente a favore del lavoratore. Era cioé ovvio ritenere che il rinnovo di un contratto prevedesse solo miglioramenti a favore di una parte. Oggi non è più così.
E se questo equilibrio non lo si riesce a trovare un contratto non si chiude. Certo è che Confindustria e ABI lo hanno siglato da poco senza costi aggiuntivi e prevedendo revisioni importanti su alcune vecchie tutele. Quindi in quei contesti  un ragionevole riequilibrio è stato possibile trovarlo.
Personalmente ritengo che sarebbe saggio chiudere anche il contratto del terziario. E questo per una serie di ragioni.
Credo sia ormai sia chiaro a tutti che stiamo entrando in una fase di ripensamento  sulla contrattazione in generale e sull’adeguatezza o meno degli attuali modelli o livelli a disposizione.
Il contratto dei dirigenti del terziario è un piccolo contratto rispetto ad altri ma da esso dipende un importante welfare che non sarebbe certamente gestibile se smontato o decentrato a livello regionale o aziendale.
Così come credo sia improponibile pensare di separare la gestione del welfare, che resterebbe come è oggi, lasciando alla singola azienda il compito di determinare la normativa individuale più adatta per i propri dirigenti. Ed è inutile negare che alcune aziende pensano sia giusto spingere in questa direzione.
In un contesto del genere lasciare aperto all’infinito il confronto può rivelarsi un grave errore di valutazione.
Ovviamente è una mia personalissima opinione.
La figura del dirigente sta cambiando molto sia in ruolo che in status. Nessuno credo, possa ipotizzare più che tra la nomina e la pensione tutto è destinato a procedere come in passato. Il percorso manageriale è sempre più caratterizzato da una forte instabilità. Si alternano ormai fasi a tempo indeterminato con altre a tempo determinato, consulenze e fasi di riorientamento della propria carriera che rendono necessari strumenti e normative diverse e più adatte ai tempi. Capacità e competenze vengono costantemente messe alla prova e quindi la formazione continua deve diventare parte fondamentale del patto tra dirigente e impresa. E deve crescere nel dirigente la consapevolezza che la qualità del proprio percorso dipende essenzialmente dalle proprie scelte o non scelte in termini di sviluppo professionale, formazione e impiegabilità. Tutto questo rende inevitabile percorsi personalizzati, momenti di verifica, capacità di acquisire anche quelle competenze soft che unite alle ovvie competenze tecnico professionale potranno fare la differenza sul mercato del lavoro. A questo vanno aggiunte le altrettanto importanti modifiche che i differenti percorsi professionali determineranno alla propria previdenza integrativa e all’assistenza sanitaria in tempi dove dovremo inevitabilmente misurarci con profondi cambiamenti del sistema a cui eravamo abituati. Tutto ciò determinerà, a sua volta, priorità e conseguenze i cui costi non possono essere semplicemente messi a carico delle imprese come in passato. Quella fase è finita per sempre.
Non è certamente facile portare a termine un negoziato dove far coesistere vecchio e nuovo, esigenze di tutela e esigenze di cambiamento, aspettative dei singoli e obiettivi delle imprese. Non è facile, però è indispensabile. I gruppi dirigenti si misurano sulla loro capacità di capire come anticipare e gestire i cambiamenti in atto. C’è stato un momento, alcuni mesi fa, dove sembrava possibile chiudere ma è stato purtroppo sprecato. Quindi occorre ricominciare da capo. Con pazienza e con determinazione.Se qualcuno pensa che sia sufficiente rilanciare la propria posizione convincendosi così di fare passi avanti si sbaglia così allo stesso modo chi pensa che occorra cercare un semplice punto di equilibrio e non cerca di comprendere la necessità ormai indilazionabile di un riequilibrio complessivo dimostra di non capire la posta in gioco. Quello che è avvenuto fino ad ora dimostra che non ci sarà alcun contratto per forza. Ci sarà solo se il punto di incontro sarà accettabile da entrambe le parti.
Sempre manifestando una mia personalissima opinione io credo che chi non lavora con questo spirito e con la volontà di arrivare a questa determinazione rischia solo di continuare a perdere tempo.

Declinare crescendo?

È vero. A volte quando osservi i comportamenti nei CDA di alcuni sindacalisti negli  enti bilaterali ti viene il sospetto che vivano fuori dal tempo. Lontani dalla realtà. Avendo fatto il DHR per tanti anni mi rendo conto che la capacità di comprendere i problemi concreti delle imprese, la rapidità necessaria a risolverli e  l’attenzione ad affrontare tutto ciò che non è noto e scontato sono caratteristiche sempre meno presenti. Anche il linguaggio è vecchio e di difficile comprensione per i non addetti, soprattutto se sono di altri Paesi. La stessa comunicazione spesso propone una caricatura della realtà, i toni sono quasi sempre esagerati e poco credibili e offrono soluzioni semplici ma quasi mai realizzabili nei modi e nei tempi proposti ai destinatari. I comportamenti incoerenti. Ad esempio tutte le deroghe in pejus consentite per i nuovi assunti (lavoro domenicale, turni, disagi vari) hanno creato un confine tra generazioni che non è più  stato colmato. Le stesse piattaforme contrattuali, i tempi di rinnovo e la distanza tra obiettivi e risultati spiegano bene la difficoltà nel costruire strategie e consapevolezze nuove tra i lavoratori. L’idea che del sindacato si può farne a meno è presente in molte aziende soprattutto là dove le imprese cercano di gestire in modo autonomo il rapporto con i propri collaboratori. Di fronte a chiavi di lettura molto tradizionali si consolida sempre più la voglia di fare a meno del loro contributo. Gli incontri si trasformano in liturgie della parola, i colleghi dirigenti delle altre direzioni (vendite, acquisti, logistica, ecc.) guardano noi DHR come professionisti della chiacchera e nell’impresa si consolida l’idea della irrilevanza e dell’inutilità del confronto con i sindacati. E spesso anche noi quando ci sediamo di fronte a loro partiamo prevenuti con la convinzione che stiamo solo perdendo tempo. In azienda, in molte realtà, si va senza di loro. Nel bene e nel male. Di Vico fa bene a porre il problema. Siamo forse già in una fase post sindacale. Personalmente non credo sia una buona cosa. E questo per varie ragioni. Non ci sono solo le aziende che propongono forme di welfare aziendale o che si occupano positivamente dei propri collaboratori. In Italia ci sono oltre quattro milioni di imprese. Proviamo a pensare come potrebbe essere una realtà senza contrattazione nazionale, senza equilibrio tra diritti e doveri, dove non esistono regole e dove se la cava il più furbo o solo chi è disposto a tutto pur di lavorare. Il sindacato è necessario in una società complessa come la nostra. Certo c’è chi ne puó fare a meno sia individualmente che collettivamente ma non è cosí per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Secondo me anche per le imprese è utile. Pensiamo solo al dumping contrattuale.  Detto questo possiamo discutere di quale sindacato avrebbero bisogno i lavoratori e le imprese oggi. Io ho le mie idee. Penso ad un sindacato che sa collaborare con l’impresa in modo nuovo. Che comprende e forma i suoi esponenti a capire il nuovo e ad affrontarlo senza paura. Intransigente sui principi ma aperto alle novità. Pronto a sperimentare soluzioni innovative e conscio che la stagione dell’obiettivo-lotta-risultato è finita. Oggi la stagione è condivisione-convergenza-risultato. Ma questa è solo una mia opinione. Al sindacato spettano le mosse che vorrà compiere e decidere le traiettorie conseguenti. Io, a differenza di Di Vico registro segnali nuovi. Nelle categorie dell’industria della CISL e in alcune aree del nord ma anche provenienti dalla conferenza organizzativa della CGIL vedo proporre riflessioni significative sia in direzione di un superamento della situazione di concorrenza tra sigle confederali sia nel merito. i rinnovi contrattuali la governance degli organismi bilaterali, il welfare contrattuale e gli accordi sulla rappresentanza possono costituire un passaggio importante. Speriamo venga colto da tutti.

Conferenza organizzativa CGIL: interessanti spunti di riflessione

Le conferenze organizzative sono un momento importante per le organizzazioni di rappresentanza. Lo sono ancora di più quando avvengono in momenti particolari nella vita del Paese. Nella relazione di Baseotto della CGIL ho trovato alcuni spunti interessanti sui quali mi sembra utile ritornare. Innanzitutto il linguaggio utilizzato l’ho trovato sufficientemente pacato. Poco spazio alla retorica, nessuna caricatura o semplificazione della realtà, puntuale presentazione delle proprie e legittime posizioni. Anche quelle meno condivisibili. Nel merito individuo alcuni temi su cui soffermarmi. Sulla rappresentanza condivido la tesi. Non abbiamo bisogno di una legge sul sindacato. Sarebbe un’inutile provocazione. Abbiamo bisogno di una buona legge sulla rappresentanza che traduca il confronto in atto tra organizzazioni sindacali e datoriali e che misuri la reale rappresentatività di tutti. Anche delle associazioni datoriali. Il secondo tema riguarda la riforma della contrattazione. L’enfasi che alcuni stanno mettendo sul tema è quella giusta? Il rischio che un decentramento non governato dal CCNL porti ad un “fai da te” che inevitabilmente apre a situazioni di dumping contrattuale è alto e quindi meglio sarebbe ridurre anche drasticamente il numero  dei Contratti Nazionali e definire con chiarezza le materie affidabili a livelli territoriali o aziendali. E questa è una posizione assolutamente condivisibile. In terzo luogo il tema dell’unità posto senza retorica e senza illusioni particolari. È interesse del Paese che il sindacalismo confederale ritrovi una strada unitaria, riformista e propositiva. Non si esce dalla crisi e non si affronta un contesto complesso e globalizzato con battaglie identitarie che hanno le loro radici in un passato che non c’è più. Abbiamo tutti bisogno di un Paese unito, diverso più collaborativo nelle sue componenti, aperto al mondo e ai problemi che il mondo stesso ci pone. Le organizzazioni di rappresentanza non sono formazioni residuali di un mondo che va scomparendo ma articolazioni importanti del tessuto sociale, economico e politico che devono contribuire a ridisegnare. Un altro tema sul quale non c’è stata reticenza ma proposta è quello della bilateralità e dei suoi strumenti discendenti dai rispettivi CCNL. Va sottolineato che, rispetto ad alcuni interventi del passato, non c’è nessun pregiudizio di fondo sul tema. Anzi. C’è però la determinazione di improntare il sistema alla trasparenza, all’efficacia e alla effettiva utilità dei servizi offerti ai lavoratori (e aggiungo io anche alle imprese). È una presa di posizione importante che va colta e resa concreta attraverso meccanismi di governance convincenti e diffusi nei territori. Infine la territorialità. Una grande organizzazione esiste se è radicata nel territorio.e questo vale per tutte le organizzazioni di rappresentanza. Anche per quelle datoriali. La reputazione, la riconoscibilità, l’iniziativa deve essere nel territorio. E soprattuto deve essere a rete riconoscendo a tutti i punti la stessa dignità di proposta e di iniziativa. In conclusione il tema della trasparenza su stipendi e pensioni, che mi sembra quello più colto dai media. Vale quanto già detto qui in passato. Separare il grano dal loglio senza se e senza ma. E anche su questo punto mi sembra molto netta la posizione espressa. Una relazione importante, quindi, utile per aprire un confronto a tutto campo. Speriamo trovi la convergenza necessaria con le altre organizzazioni e si trasformi in materia di confronto vero con il Governo e con le altre parti sociali.

È solo di Marchionne il successo?

Non c’è quotidiano che non sottolinei i successi del CEO FCA. Anche chi ha dovuto compiere una conversione di 360 gradi passando da critiche feroci e pregiudiziali al sostegno incondizionato. Ha certamente dimostrato di essere un ottimo manager e i risultati ottenuti sono evidenti. Per quanto mi riguarda c’è un però. La sua non è una vittoria solitaria. Ed è incomprensibile che, proprio lui, non capisca che nel momento del trionfo è sempre buona cosa dividere gli onori con chi lo ha reso possibile. Certo Renzi e il Governo sono stati alleati indispensabili e questo va loro riconosciuto. Ma non è abbastanza. Nella solitaria lotta contro la FIOM di Landini Marchionne ha trovato altri interlocutori sindacali cche hanno scommesso su di lui e sulle sue promesse rischiando la loro reputazione e, a volte, la loro incolumità. FIM, UILM e Fismic hanno sottoscritto e poi difeso (non subìto) gli accordi sottoscritti nelle assemblee e nei referendum accettando di passare agli occhi di media poco attenti come succubi di Marchionne, sindacati gialli e via discorrendo. Si sono dipinte all’esterno e sulla stampa le fabbriche come opifici dell’800, piegate e umiliate da un padrone delle ferriere dove solo la pistola alla tempia a ciascun lavoratore ha permesso lo scempio dei diritti e instaurato una nuovo concetto di schiavitù. Mi rendo conto che per molti sindacalisti, soprattutto quelli con cui condivido l’età Marchionne è un’anomalia evidente. Temo anche per molti dirigenti aziendali che si sono visti mettere in discussione e spazzare via in pochi istanti carriera e reddito. Ma Marchionne è un prodotto specifico di questa epoca, svelto, globale e opportunista. Inaccettabile per chi pensa di poter dettare tempi, modalità e contenuti delle relazioni industriali come fossimo nel secolo scorso. Marchionne aveva una strategia, una filosofia e un comportamento difficile da accettare e da condividere. Non ero presente al tavolo in cui si sono svelati i passi da compiere e quindi mi limito a osservare da fuori. Al sindacato non restava che accettare la sfida o scommettere sul fallimento e non sedersi nemmeno. C’è chi ha fatto la prima scelta e chi la seconda. Beh, Marchionne sbaglia a non condividere questo risultato con chi gli ha creduto e ci ha messo la faccia. Soprattutto la FIM CISL che ha il maggior numero di iscritti in azienda. È questo per due ragioni. Innanzitutto perché ammettere che esistono uno o più sindacati che nella collaborazione e nella conseguente sottoscrizione di intese hanno rilanciato un ruolo fondamentale  per il futuro dell’impresa e dei lavoratori  è semplicemente la verità. Nessuno può vincere da solo. In secondo luogo perché è interesse del Paese che cresca la consapevolezza e lo spazio per un sindacato riformista e collaborativo che sa difendere gli interessi dei suoi rappresentati in modo efficace se pur diverso dal passato. Nel mondo globalizzato il lavoro in un Paese si difende anche creando alleanza nella filiera nella quale l’azienda è inserita fuori da logiche classiste. Altri si dedicheranno, legittimamente, alla costruzione di sindacati che continuano a trovare nel conflitto e nella contrapposizione la loro ragion d’essere. Ma non legittimare i primi è un errore che un manager del livello di Marchionne non dovrebbe commettere.

Rappresentanza, Rappresentatività, Regole: quale percorso.

Troppi spettatori di parte, troppe strumentalizzazioni e molto nervosismo non sembrano un buon viatico per cercare una soluzione condivisa anche perché l’autunno è ormai vicino e il rischio che il negoziato tra le parti riprenda e finisca immediatamente su un binario morto è molto forte. Personalmente credo che si voglia mettere troppa carne al fuoco impedendo, di fatto, la conclusione di un negoziato complesso. C’è una prima intesa su una parte importante tra CGIL-CISL e UIL e Confindustria che non soddisfa le altre organizzazioni datoriali.  Nello stesso tempo c’è però la volontà di confrontarsi per trovare una soluzione che tenga conto delle differenti specificità soprattutto da parte di Confcommercio che, a differenza di Confindustria è titolare di un contratto nazionale specifico che copre più di tre milioni di addetti e, a buon diritto, vuole contribuire ad un risultato utile e praticabile. Questa differenza già di per sé rende indispensabile una esigibilità certa dell’intesa senza alcun rinvio ai contratti di categoria. Questo percorso è, evidentemente più complesso e richiede il tempo necessario perché punta ad un risultato condiviso e immediatamente operativo. Immaginare forzature esterne sui tempi o sui contenuti credo sia un errore che potrebbe portare ad un pessimo risultato. Altra cosa è ritenere difficile o inefficace  la sottoscrizione di un accordo tra le parti e quindi scegliere il percorso legislativo. A parte la Cisl che solleva una questione di principio, essendo da sempre contraria all’ingerenza della legge su materie di pertinenza delle parti sociali, le altre organizzazioni non sarebbero contrarie alla traduzione in legge di un eventuale accordo tra le parti ma il punto sta proprio qui. Una legge proposta e discussa in Parlamento è un’altra cosa. È chiaro che in mancanza di accordo questa è una strada obbligata e, non è detto, che le sintesi trovate nel Governo e in Parlamento siano gradite da tutte le parti sociali ma questo è il rischio che si corre quando si assegna il compito di trovare delle soluzioni ad altri. Quello che non mi piace è il clima nel quale questo dibattitto sta riprendendo quota sui media.  Mi sembra che ci sia una costante quanto inutile tentativo di irritare o di screditare le organizzazioni sindacali confederali. E questo è incomprensibile. Da un lato si vorrebbe una legge che favorisca le grandi organizzazioni confederali rispetto alla micronesia del sindacalismo autonomo o di base è dall’altro si alimenta un continuo discredito delle stesse. Dalle generalizzazioni fuori luogo sul reddito dei sindacalisti CISL al presunto crollo degli iscritti alla CGIL passando attraverso le strumentalizzazioni delle dichiarazioni del segretario generale della FIM sulla mobilità nel pubblico impiego o della posizione dei vescovi contro il lavoro domenicale in chiave antisindacale. Le stesse dichiarazioni di alcuni esponenti dei partiti di governo non aiutano ma lasciano intendere che a breve ci troveremo una proposta complessiva su tutti i temi sul tappeto. Vedremo le prossime mosse. Personalmente continuo a pensare che è un diritto della politica quello di formulare proposte ma credo sia utile che le parti sociali siano coinvolte e attive nel processo di definizione del nuovo contesto e delle regole conseguenti. E questo è nell’interesse di tutti.

Il neo estremismo come formula impraticabile.

Landini non è una novità e non lo è neanche l’idea della coalizione sociale. Negli anni novanta ci aveva già provato Piergiorgio Tiboni allora leader della Fim CISL di Milano. Ed abbiamo visto come è finita: un modesto sindacatino  autoferenziato. Uno dei tanti nella galassia dell’estremismo parolaio. E allora non c’era né la globalizzazione, né Grillo, né la disintermediazione. Oggi Landini ci riprova. Una modesta micronesia di leader settoriali, alcuni anche meritevoli nel loro ambito, espressione di elite con scarso legame popolare e perennemente alla ricerca di prove di purezza ideologica nei compagni di viaggio. Raggruppamenti che esistono solo se sono “contro” e che hanno difficoltà ad essere “per”. Dalla strumentalizzazione  degli “ultimi” al mito dell’erba del vicino. Che sia Zapatero, Tsipras o altri che via via compaiono sulla piazza mediatica e che vengono rimossi quasi con fastidio subito dopo. Questi raggruppamenti politico sindacali falliscono perché non hanno una base sociale vera. Sono un ologramma di una parte della coscienza di ciascuno che non riesce a diventare progetto politico. O il rifugio di un gruppo di leader stanchi e senza futuro. La scena della eterogenea comitiva in missione ad Atene per il referendum e di interpreti nostrani della improbabile resistenza ellenica alla UE è sotto gli occhi di tutti. Dunque la domanda è se c’è uno spazio significativo per una sinistra radicale sociale e politica? No. Quello spazio è già occupato in Italia e altrove da altre formazioni più fresche che superano le vecchie culture del 900. Per questo sia il Sindacato confederale che la nuova sinistra politica possono tranquillamente prescindere dalla contaminazione sui contenuti. Questo apre nuovi scenari interessanti. Da un lato sul terreno sindacale dove la prospettiva unitaria e una decisa strategia partecipativa e riformista non ha alternative ma anche sul piano politico dove il neo blairismo del presidente del consiglio potrebbe trovare sponde interessanti in una Europa che deve ripensarsi rapidamente. Ci sono segnali interessanti sia nel dibattito nelle confederazioni che nel dibattito politico dopo la Grecia. Nulla sarà come prima. E allora speriamo che qualcosa si muova sul serio.

Ikea: il sindacato con lo specchietto retrovisore

Quello che sta accadendo all’Ikea è purtroppo emblematico di una difficoltà a cambiare del Sindacato italiano. Di fronte ad un passaggio molto delicato della vita di un’azienda l’approccio è completamente sbagliato. Nel merito e nelle modalità. Anzi si trasforma in “lotta simbolica” una vicenda di aggiustamenti contrattuali necessari ad un’azienda che ha smesso di crescere e quindi guarda con una certa preoccupazione al futuro pur continuando a investire nel nostro Paese. Un’azienda particolare. Non certo un “padrone delle ferriere”, un’azienda multinazionale attenta al contesto socio economico in cui si insedia. La reazione del sindacato, al contrario, è pavloviana. Addirittura si storpiano slogan, marchi e colori aziendali in un marketing che ricorda la famosa “cassaintegratissima Alfa” di triste memoria. Il merito apparente è una difesa di alcuni presunti diritti acquisiti sul lavoro domenicale. I lavoratori con maggiore anzianità di servizio ne godono in alcuni punti vendita grazie al fatto che quando sono stati istituiti il lavoro domenicale era sporadico e volontario in tutta la GDO. Oggi è normale orario di lavoro che, a rotazione, tocca tutti i lavoratori. Quindi non ha senso che solo alcuni di essi percepiscano una maggiorazione pari al 130% del salario. In realtà la partita vera è un’altra. La qualità del servizio e l’apporto richiesto ad ogni singolo lavoratore. E qui nasce il problema serio. Per il sindacato la qualità del servizio, l’atteggiamento del lavoratore verso il cliente non è un normale  comportamento organizzativo che si deve compiere in un determinato modo cioè come richiesto dall’azienda. L’azienda ha un suo approccio, una sua filosofia di contatto è pretende giustamente che la proattività, la disponibilità e l’ascolto siano coerenti con questo approccio. Il sindacato pensa che tutto questo appartenga alla sfera della libertà dell’individuo e quindi propugna come legittimo un approccio legato al carattere di ciascuno e al tipo di situazione. È la cultura tayloristica che rientra dalla finestra. Accetta la qualità del prodotto e gli alti standard qualitativi ma non che sia l’azienda a decidere come proporre quel prodotto. È quindi quella cultura differenzia i clienti tra buoni e rompipalle, li parifica al “padrone” bollandoli come isterici e stressati perché vanno di fretta, accetta come giustificazione solo e soltanto lo stato d’animo del lavoratore e, infine, ritiene spersonalizzante l’idea di un appproccio predeterminato. Ovviamente l’azienda ha un obiettivo: coinvolgere il lavoratore spingendolo a sentirsi parte di un progetto. Lo slogan “ti comporteresti così se l’azienda fosse tua?” rende bene l’idea. Ovviamente il sindacato si guarda bene dal sostenere questo approccio perché pensa possa spingere i lavoratori a condividere una filosofia aziendale e quindi a non riconoscersi nel sindacato stesso. E allora che fa? Fa una caricatura dell’avversario di “classe”, lo dipinge come un traditore esso stesso dei valori che propugna e trasforma una vicenda dove servirebbe un grande salto culturale in una storia di terz’ordine dove una multinazionale mette le mani in tasca ai suoi poveri dipendenti. In questo modo ottiene un risultato a breve: qualche iscritto in più e qualche trafiletto sulla stampa ma pregiudica un risultato a lungo: la costruzione di un nuovo modello di relazioni sindacali con un’impresa che potrebbe essere interessata a fare qualche passo avanti. E su una posizione così miope non c’è solo il sindacato di categoria con tutti i suoi limiti, ci sono purtroppo anche i tre segretari confederali. Che dire.  un’altra occasione sprecata. Il fatto che IKEA non sia FCA impedisce una vera riflessione delle confederazioni e questo non è un bene. Soprattutto per il sindacato.

Quando un rinnovo contrattuale resta al palo

Succede sempre più spesso. La tanta auspicata sigla sul rinnovo dei contratti non c’è. E quindi i contratti non si rinnovano. Da molti anni il fondamento teorico dell’azione sindacale (obiettivo, lotta, risultato) era già in crisi. La stagione delle grandi ristrutturazioni aziendali, le crisi che si sono via via succedute hanno messo in discussione e poi definitivamente accantonato parte delle liturgie. Sempre più spesso le cosiddette piattaforme preparate con cura nelle assemblee si sono trasformate in accordi che parlano d’altro. Si è passati, nel tempo, da negoziazioni incrementali per i lavoratori a situazioni win win fino a rimettere in discussione in tutto o in parte quelli che erano ritenuti diritti acquisiti e quindi non negoziabili. La fase finale di quel ciclo è stata caratterizzata da un azzeramento più o meno deciso di tutto ciò che non faceva parte della contrattazione nazionale. In altri termini in una sorta di “legge del pendolo” non dichiarata i rapporti di forza, che nel frattempo si erano spostati a vantaggio dell’impresa, consentivano di rimettere in discussione tutto ciò che, fino al giorno prima veniva dato per consolidato in azienda. Questo segnava (almeno in termini concettuali) il fondo del barile. La globalizzazione, le crisi aziendali, la concorrenza sui costi ha spinto molti settori e aziende a non fermarsi ad una sorta di “pulizia” di vecchie situazioni costruite negli anni ma le ha spinte a rimettere in discussione lo stesso contratto nazionale di categoria rifiutandone il rinnovo. La scarsa reazione dei sindacati ha fatto il resto creando una situazione nuova. Il settore o il comparto in perenne fase di rinnovo contrattuale senza alcuna possibiltà di concludere il percorso. Apparentemente questo potrebbe essere apprezzato da molte imprese. Risparmiare sui costi è importante. Come e dove farlo è spesso secondario. E se addirittura una situazione del genere permette alla singola azienda il “fai da te” contrattuale, questo è ancora meglio. I vantaggi, che nel breve sono evidenti però si fermano qui. È vero che il CCNL ha perso nel tempo parte del suo valore simbolico e che, per molti lavoratori i risultati non sono stati ritenuti significativi o che, ad esso, sono seguiti accordi di tipo personale (come nei dirigenti) però il contratto ha un valore in sé che comprende e legittima chi lo sottoscrive e fornisce le coordinate fondamentali alla base dei rapporti di lavoro. È un punto di riferimento. Una base a disposizione dell’azienda e del lavoratore sulla quale costruire un rapporto fatto di correttezza, professionalità e reciprocità. Senza è la giungla. Da entrambe le parti. E, nel lungo periodo si sta peggio tutti. Ma questo fenomeno è causato solo dalle imprese o dalle loro rappresentanze vecchie e nuove? No. Spesso è provocato più o meno inconsapevolmente anche dai rispettivi sindacati. Rifiutarsi di firmare per mere questioni di bandiera, pretendere di decidere che i propri punti di caduta debbano coincidere con quelli della controparte sono i segnali evidenti del contributo sindacale al declino dello strumento. Non esistono più pregiudiziali, tabú, materie indisponibili. Esistono scambi. È ciò che è ritenuto irragionevole da una parte dimostra buone ragioni dall’altra. Chi lo comprende contribuisce a costruire le nuove regole del gioco mentre chi non lo comprende accompagna al declino lo strumento che così perde inevitabilmente valore.