Rappresentanza, Rappresentatività, Regole: quale percorso.

Troppi spettatori di parte, troppe strumentalizzazioni e molto nervosismo non sembrano un buon viatico per cercare una soluzione condivisa anche perché l’autunno è ormai vicino e il rischio che il negoziato tra le parti riprenda e finisca immediatamente su un binario morto è molto forte. Personalmente credo che si voglia mettere troppa carne al fuoco impedendo, di fatto, la conclusione di un negoziato complesso. C’è una prima intesa su una parte importante tra CGIL-CISL e UIL e Confindustria che non soddisfa le altre organizzazioni datoriali.  Nello stesso tempo c’è però la volontà di confrontarsi per trovare una soluzione che tenga conto delle differenti specificità soprattutto da parte di Confcommercio che, a differenza di Confindustria è titolare di un contratto nazionale specifico che copre più di tre milioni di addetti e, a buon diritto, vuole contribuire ad un risultato utile e praticabile. Questa differenza già di per sé rende indispensabile una esigibilità certa dell’intesa senza alcun rinvio ai contratti di categoria. Questo percorso è, evidentemente più complesso e richiede il tempo necessario perché punta ad un risultato condiviso e immediatamente operativo. Immaginare forzature esterne sui tempi o sui contenuti credo sia un errore che potrebbe portare ad un pessimo risultato. Altra cosa è ritenere difficile o inefficace  la sottoscrizione di un accordo tra le parti e quindi scegliere il percorso legislativo. A parte la Cisl che solleva una questione di principio, essendo da sempre contraria all’ingerenza della legge su materie di pertinenza delle parti sociali, le altre organizzazioni non sarebbero contrarie alla traduzione in legge di un eventuale accordo tra le parti ma il punto sta proprio qui. Una legge proposta e discussa in Parlamento è un’altra cosa. È chiaro che in mancanza di accordo questa è una strada obbligata e, non è detto, che le sintesi trovate nel Governo e in Parlamento siano gradite da tutte le parti sociali ma questo è il rischio che si corre quando si assegna il compito di trovare delle soluzioni ad altri. Quello che non mi piace è il clima nel quale questo dibattitto sta riprendendo quota sui media.  Mi sembra che ci sia una costante quanto inutile tentativo di irritare o di screditare le organizzazioni sindacali confederali. E questo è incomprensibile. Da un lato si vorrebbe una legge che favorisca le grandi organizzazioni confederali rispetto alla micronesia del sindacalismo autonomo o di base è dall’altro si alimenta un continuo discredito delle stesse. Dalle generalizzazioni fuori luogo sul reddito dei sindacalisti CISL al presunto crollo degli iscritti alla CGIL passando attraverso le strumentalizzazioni delle dichiarazioni del segretario generale della FIM sulla mobilità nel pubblico impiego o della posizione dei vescovi contro il lavoro domenicale in chiave antisindacale. Le stesse dichiarazioni di alcuni esponenti dei partiti di governo non aiutano ma lasciano intendere che a breve ci troveremo una proposta complessiva su tutti i temi sul tappeto. Vedremo le prossime mosse. Personalmente continuo a pensare che è un diritto della politica quello di formulare proposte ma credo sia utile che le parti sociali siano coinvolte e attive nel processo di definizione del nuovo contesto e delle regole conseguenti. E questo è nell’interesse di tutti.

Il neo estremismo come formula impraticabile.

Landini non è una novità e non lo è neanche l’idea della coalizione sociale. Negli anni novanta ci aveva già provato Piergiorgio Tiboni allora leader della Fim CISL di Milano. Ed abbiamo visto come è finita: un modesto sindacatino  autoferenziato. Uno dei tanti nella galassia dell’estremismo parolaio. E allora non c’era né la globalizzazione, né Grillo, né la disintermediazione. Oggi Landini ci riprova. Una modesta micronesia di leader settoriali, alcuni anche meritevoli nel loro ambito, espressione di elite con scarso legame popolare e perennemente alla ricerca di prove di purezza ideologica nei compagni di viaggio. Raggruppamenti che esistono solo se sono “contro” e che hanno difficoltà ad essere “per”. Dalla strumentalizzazione  degli “ultimi” al mito dell’erba del vicino. Che sia Zapatero, Tsipras o altri che via via compaiono sulla piazza mediatica e che vengono rimossi quasi con fastidio subito dopo. Questi raggruppamenti politico sindacali falliscono perché non hanno una base sociale vera. Sono un ologramma di una parte della coscienza di ciascuno che non riesce a diventare progetto politico. O il rifugio di un gruppo di leader stanchi e senza futuro. La scena della eterogenea comitiva in missione ad Atene per il referendum e di interpreti nostrani della improbabile resistenza ellenica alla UE è sotto gli occhi di tutti. Dunque la domanda è se c’è uno spazio significativo per una sinistra radicale sociale e politica? No. Quello spazio è già occupato in Italia e altrove da altre formazioni più fresche che superano le vecchie culture del 900. Per questo sia il Sindacato confederale che la nuova sinistra politica possono tranquillamente prescindere dalla contaminazione sui contenuti. Questo apre nuovi scenari interessanti. Da un lato sul terreno sindacale dove la prospettiva unitaria e una decisa strategia partecipativa e riformista non ha alternative ma anche sul piano politico dove il neo blairismo del presidente del consiglio potrebbe trovare sponde interessanti in una Europa che deve ripensarsi rapidamente. Ci sono segnali interessanti sia nel dibattito nelle confederazioni che nel dibattito politico dopo la Grecia. Nulla sarà come prima. E allora speriamo che qualcosa si muova sul serio.

Ikea: il sindacato con lo specchietto retrovisore

Quello che sta accadendo all’Ikea è purtroppo emblematico di una difficoltà a cambiare del Sindacato italiano. Di fronte ad un passaggio molto delicato della vita di un’azienda l’approccio è completamente sbagliato. Nel merito e nelle modalità. Anzi si trasforma in “lotta simbolica” una vicenda di aggiustamenti contrattuali necessari ad un’azienda che ha smesso di crescere e quindi guarda con una certa preoccupazione al futuro pur continuando a investire nel nostro Paese. Un’azienda particolare. Non certo un “padrone delle ferriere”, un’azienda multinazionale attenta al contesto socio economico in cui si insedia. La reazione del sindacato, al contrario, è pavloviana. Addirittura si storpiano slogan, marchi e colori aziendali in un marketing che ricorda la famosa “cassaintegratissima Alfa” di triste memoria. Il merito apparente è una difesa di alcuni presunti diritti acquisiti sul lavoro domenicale. I lavoratori con maggiore anzianità di servizio ne godono in alcuni punti vendita grazie al fatto che quando sono stati istituiti il lavoro domenicale era sporadico e volontario in tutta la GDO. Oggi è normale orario di lavoro che, a rotazione, tocca tutti i lavoratori. Quindi non ha senso che solo alcuni di essi percepiscano una maggiorazione pari al 130% del salario. In realtà la partita vera è un’altra. La qualità del servizio e l’apporto richiesto ad ogni singolo lavoratore. E qui nasce il problema serio. Per il sindacato la qualità del servizio, l’atteggiamento del lavoratore verso il cliente non è un normale  comportamento organizzativo che si deve compiere in un determinato modo cioè come richiesto dall’azienda. L’azienda ha un suo approccio, una sua filosofia di contatto è pretende giustamente che la proattività, la disponibilità e l’ascolto siano coerenti con questo approccio. Il sindacato pensa che tutto questo appartenga alla sfera della libertà dell’individuo e quindi propugna come legittimo un approccio legato al carattere di ciascuno e al tipo di situazione. È la cultura tayloristica che rientra dalla finestra. Accetta la qualità del prodotto e gli alti standard qualitativi ma non che sia l’azienda a decidere come proporre quel prodotto. È quindi quella cultura differenzia i clienti tra buoni e rompipalle, li parifica al “padrone” bollandoli come isterici e stressati perché vanno di fretta, accetta come giustificazione solo e soltanto lo stato d’animo del lavoratore e, infine, ritiene spersonalizzante l’idea di un appproccio predeterminato. Ovviamente l’azienda ha un obiettivo: coinvolgere il lavoratore spingendolo a sentirsi parte di un progetto. Lo slogan “ti comporteresti così se l’azienda fosse tua?” rende bene l’idea. Ovviamente il sindacato si guarda bene dal sostenere questo approccio perché pensa possa spingere i lavoratori a condividere una filosofia aziendale e quindi a non riconoscersi nel sindacato stesso. E allora che fa? Fa una caricatura dell’avversario di “classe”, lo dipinge come un traditore esso stesso dei valori che propugna e trasforma una vicenda dove servirebbe un grande salto culturale in una storia di terz’ordine dove una multinazionale mette le mani in tasca ai suoi poveri dipendenti. In questo modo ottiene un risultato a breve: qualche iscritto in più e qualche trafiletto sulla stampa ma pregiudica un risultato a lungo: la costruzione di un nuovo modello di relazioni sindacali con un’impresa che potrebbe essere interessata a fare qualche passo avanti. E su una posizione così miope non c’è solo il sindacato di categoria con tutti i suoi limiti, ci sono purtroppo anche i tre segretari confederali. Che dire.  un’altra occasione sprecata. Il fatto che IKEA non sia FCA impedisce una vera riflessione delle confederazioni e questo non è un bene. Soprattutto per il sindacato.

Quando un rinnovo contrattuale resta al palo

Succede sempre più spesso. La tanta auspicata sigla sul rinnovo dei contratti non c’è. E quindi i contratti non si rinnovano. Da molti anni il fondamento teorico dell’azione sindacale (obiettivo, lotta, risultato) era già in crisi. La stagione delle grandi ristrutturazioni aziendali, le crisi che si sono via via succedute hanno messo in discussione e poi definitivamente accantonato parte delle liturgie. Sempre più spesso le cosiddette piattaforme preparate con cura nelle assemblee si sono trasformate in accordi che parlano d’altro. Si è passati, nel tempo, da negoziazioni incrementali per i lavoratori a situazioni win win fino a rimettere in discussione in tutto o in parte quelli che erano ritenuti diritti acquisiti e quindi non negoziabili. La fase finale di quel ciclo è stata caratterizzata da un azzeramento più o meno deciso di tutto ciò che non faceva parte della contrattazione nazionale. In altri termini in una sorta di “legge del pendolo” non dichiarata i rapporti di forza, che nel frattempo si erano spostati a vantaggio dell’impresa, consentivano di rimettere in discussione tutto ciò che, fino al giorno prima veniva dato per consolidato in azienda. Questo segnava (almeno in termini concettuali) il fondo del barile. La globalizzazione, le crisi aziendali, la concorrenza sui costi ha spinto molti settori e aziende a non fermarsi ad una sorta di “pulizia” di vecchie situazioni costruite negli anni ma le ha spinte a rimettere in discussione lo stesso contratto nazionale di categoria rifiutandone il rinnovo. La scarsa reazione dei sindacati ha fatto il resto creando una situazione nuova. Il settore o il comparto in perenne fase di rinnovo contrattuale senza alcuna possibiltà di concludere il percorso. Apparentemente questo potrebbe essere apprezzato da molte imprese. Risparmiare sui costi è importante. Come e dove farlo è spesso secondario. E se addirittura una situazione del genere permette alla singola azienda il “fai da te” contrattuale, questo è ancora meglio. I vantaggi, che nel breve sono evidenti però si fermano qui. È vero che il CCNL ha perso nel tempo parte del suo valore simbolico e che, per molti lavoratori i risultati non sono stati ritenuti significativi o che, ad esso, sono seguiti accordi di tipo personale (come nei dirigenti) però il contratto ha un valore in sé che comprende e legittima chi lo sottoscrive e fornisce le coordinate fondamentali alla base dei rapporti di lavoro. È un punto di riferimento. Una base a disposizione dell’azienda e del lavoratore sulla quale costruire un rapporto fatto di correttezza, professionalità e reciprocità. Senza è la giungla. Da entrambe le parti. E, nel lungo periodo si sta peggio tutti. Ma questo fenomeno è causato solo dalle imprese o dalle loro rappresentanze vecchie e nuove? No. Spesso è provocato più o meno inconsapevolmente anche dai rispettivi sindacati. Rifiutarsi di firmare per mere questioni di bandiera, pretendere di decidere che i propri punti di caduta debbano coincidere con quelli della controparte sono i segnali evidenti del contributo sindacale al declino dello strumento. Non esistono più pregiudiziali, tabú, materie indisponibili. Esistono scambi. È ciò che è ritenuto irragionevole da una parte dimostra buone ragioni dall’altra. Chi lo comprende contribuisce a costruire le nuove regole del gioco mentre chi non lo comprende accompagna al declino lo strumento che così perde inevitabilmente valore.

Strategia unitaria e deriva identitaria

Chiunque è dotato di un minimo di sensibilità politica e sociale non può non identificare in una nuova stagione unitaria il prossimo percorso che devono compiere le organizzazioni sindacali confederali. Lo dimostrano i tempi, la storia e il contesto nazionale e internazionale con cui occorre misurarsi. È giusto dire, come fa Bentivogli, che senza strategia il sindacato, unitario o meno, non va da nessuna parte ma è anche corretto non dare per scontato che il problema sia rappresentato solo dalla FIOM o dalle tentazioni politiche del suo segretario generale. Anzi, limitarsi a pensare che, rimosso il problema Landini la strada sia in discesa rischia di essere un errore molto grave con nefaste conseguenze. Negli ultimi vent’anni il sindacato (quasi tutto il sindacato) ha rinunciato a pensare al futuro e si è chiuso in un recinto identitario da cui non è più uscito. gli stessi gruppi dirigenti di categoria nazionali e locali hanno costruito piú sull’identità e sul l’appartenenza che sui contenuti. In parte era inevitabile. Dal 1994 in avanti alle divisioni sui contenuti sono subentrate le divisioni e basta. Su tutto. E quando non ci si incontra più né ci si confronta su nulla, difficilmente si costruisce insieme. A parte poche eccezioni tutto si è svolto nei rispettivi recinti. E i nuovi gruppi dirigenti sono stati selezionati e sono cresciuti all’interno di quelle logiche. Chiunque volesse trovare un’analogia con gli anni 60 quando i vecchi gruppi dirigenti furono messi in crisi dall’effervescenza sociale di quel periodo si sbaglia. Il contesto è diverso, gli attori in campo sono diversi e, soprattutto, l’attacco ai corpi intermedi coinvolge anche le organizzazioni datoriali e quindi è in corso un evidente cambio di paradigma economico e sociale che impedisce una semplice riproposizione del passato. Per questo sarebbe fondamentale per il sindacato riprendere il rapporto con gli intellettuali, rilanciare i centri di formazione, riprendere il confronto unitario sui contenuti, e impegnarsi in una nuova strategia riformista. Ovviamente una strategia che fa della collaborazione nel Paese e per il Paese il suo punto di partenza. Lavoro, produttività, merito, condivisione convinta di rischi e opportunità con le imprese, welfare contrattuale e aziendale, politiche attive del lavoro, superamento definitivo del modello antagonista, sono i temi da approfondire. Evitando di limitarsi a segnalare le rispettive posizioni ma individuando alleanze, convergenze e priorità. L’alternativa è condannarsi all’irrilevanza politica e sociale. I segnali positivi ci sono: il contratto nazionale del Terziario e le complesse vertenze chiuse unitariamente con risultati apprezzabili sono lì a dimostrare che si può fare. Occorre andare avanti così.

Il bluff del secondo livello contrattuale: 1+1=1

Il non detto in cui cadono i sostenitori del decentramento contrattuale è sempre quello. Da una parte la Cisl che vorrebbe sommare i benefici di entrambi i livelli e dall’altro chi pensa che, una volta scardinato il CCNL si potrà fare a meno anche del livello aziendale. Due facce della stessa medaglia. Le critiche alla pesantezza e alla mancanza di flessibilità del CCNL si superano concretamente percorrendo il terreno delle deroghe. Il contrario non esiste. Lo vediamo nell’impasse del negoziato tra Federdistribuzione e le OOSS che, di fatto, lascia quasi duecentomila lavoratori senza alcun contratto nazionale senza alcuna reazione, lo vediamo con la disdetta di FIPE che lascia tanti altri lavoratori privi di rinnovo del contratto. Da parte sindacale non c’è alcuna presa di posizione significativa perché questi non sono tempi di mobilitazione. Da parte di molte aziende c’è poi l’idea di poter star fermi un giro o, almeno fino a quando è possibile. È la legge del pendolo. Quando i sindacati erano più forti e combattivi “caricavano” di costi le imprese. Adesso che sono oggettivamente deboli si caricano dei costi delle imprese. E, come un pugile suonato non sanno che fare. Inoltre, in molte aziende, l’idea di non fare alcun contratto nazionale o aziendale comincia a farsi strada. il dibattito aperto sui media su questo tema non comprende quasi mai questi aspetti. Ci si limita a teorizzare lo spostamento della contrattazione più vicino al territorio come soluzione di tutti i mali. È vero il contrario. L’asimmetria dei rapporti di forza si tradurrebbe nell’assenza di contrattazione. A meno che non vogliamo comprendere sotto questo termine tutto ciò che in caso di crisi i sindacati lasciano di tutto sul tavolo in cambio di impegni più o meno generici sull’occupazione. La messa in discussione del CCNL porta con sé molti effetti collaterali. In primo luogo mette in discussione il ruolo di regolatore salariale delle parti sociali. Non è cosa da poco. Oggi il contratto è sostanzialmente rispettato d tutte le aziende in tutto il Paese. Se non viene applicato determina la possibilità di farsi valere in altre sedi. È l’unico antidoto al downgrading salariale in atto in molti settori. in secondo luogo contiene tutti quegli elementi di welfare, gestione organizzativa e di inquadramento che sono punti di riferimento utili sia per le aziende che i lavoratori. In terzo luogo la non applicazione determina situazione di dumping tra aziende che, in un Paese con oltre quattro milioni di imprese, non è da sottovalutare. Infine il cosiddetto salario minimo. Avere un punto di riferimento nazionale e accettato da tutti è importante. Forse sarebbe più utile un nuovo modello che preveda 4 contratti: industria, terziario e servizi, alimentare e agricoltura, pubblico impiego anziché gli oltre 600 previsti oggi. Al proprio interno ciascun contratto potrebbe prevedere le specificità necessarie per singoli comparti. I contratti nazionali potrebbero inoltre gestire importanti quote di welfare nel campo della previdenza, della sanità e della formazione. A questi, infine, si potrebbe aggiungere un contratto unico per i manager (dirigenti, quadri, professional) che non ha senso inquadrare nei contratti di categoria con un welfare specifico. A livello aziendale e/o territoriale basterebbe introdurre il concetto della deroga. Una opzione a disposizione delle parti per gestire situazioni particolari aziendali o territoriali. Personalmente spero si vada in questa direzione. L’alternativa è Darwin. Non credo sia una strada da percorrere.

Illegittimi controlli a distanza o legittimi controlli di apparecchiature aziendali?

Ci risiamo. Nessuno si è mai sognato di protestare all’assegnazione di strumenti quali il telepass, la carta carburante, il cellulare o il p.c. portatile. Addirittura per un manager, insieme all’auto, costituiscono ciò che vengono  definiti benefit e dati per scontato. Anzi pretesi, come è ovvio che sia. Quasi sempre vengono usati sia per lavoro che per motivi extra lavorativi. Lo sanno tutti. Azienda e collaboratori. L’azienda sa esattamente come vengono usati e il collaboratore sa che l’azienda è perfettamente a conoscenza del loro utilizzo. Dal telepass si ricava dove e quando un collaboratore transita in autostrada. Dalla carta carburante dove, a che ora fa il pieno e se il consumo è in linea con i consumi standard. Cosí è per le telefonate. I gestori mandano con una certa regolarità consumi e numeri telefonici chiamati (pur con modesti accorgimenti a tutela della privacy). L’azienda sa perfettamente dove è stato il suo collaboratore, quanto si è fermato da un cliente, dove ha perso tempo, con chi ha parlato, quanto ha usato il p.c. per cosa e per quanto tempo. Sia quando lavora che quando è in ferie o in malattia. E questo da sempre. Questo ha comportato problemi particolari? No. Se un collaboratore esagera nell’utilizzo qualcuno glielo fa notare. Direttamente o indirettamente. Altrimenti non succede proprio nulla. Se c’è dolo grave scattano provvedimenti disciplinari? Si. Se un collaboratore in malattia ha l’auto in qualche località vacanziera, è normale che nasca un sospetto. Così come se una utilitaria improvvisamente consuma come una fuoriserie. Non c’è nessun grande fratello. È un problema di rapporto fiduciario che non deve mai venire meno. I controlli a distanza non incidono sulle idee o sulle affermazioni del collaboratore. Semmai la rete vene scandagliata prima dell’assunzione di un collaboratore. Quindi fuori dalla portata della legge 300. Che fare? Informare il collaboratore di come l’azienda utilizzerà le informazioni e informare il collaboratore dei rischi che corre in caso di abuso o di violazione delle policy aziendali. Tutto qui. Questi interventi fanno parte di una normale attività di gestione dell’organizzazione che, in forza della tecnologia, si dilata e va oltre i confini tradizionali. E, infine, superare nei testi definitivi le possibili contraddizioni create negli articoli della legge 300. Tutto qui. Non serve complicare la vita delle imprese né far passare l’idea che le stesse passano il tempo a controllare i collaboratori. L’invenzione del semaforo ha reso meno semplice l’attraversamento spontaneo delle strade perché ha certamente ridotto la libertà individuale del pedone. Forse qualcuno all’epoca ha protestato ma una cosa è certa. Se conosci come funziona ti muovi di conseguenza. La protesta dei sindacati è, ovviamente, strumentale. Pensare di affidare a loro un intervento preventivo è pura follia. Sarebbe come se qualcuno avesse pensato di affidare alle Poste italiane un controllo preventivo sul traffico delle mail.  Inutile, burocratico è inefficace. Non c’è mai stata protesta all’assegnazione di questi strumenti e nessuno ha mai rifiutato un benefit con queste motivazioni. In azienda, che piaccia o meno, c’è un livello di rispetto e di democrazia ben diverso da quello degli anni 70. Allora veniva licenziato chi leggeva L’Unità. Oggi chi lavora all’Unità. Non mi sembra una differenza da poco.