Il bluff del secondo livello contrattuale: 1+1=1

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Il non detto in cui cadono i sostenitori del decentramento contrattuale è sempre quello. Da una parte la Cisl che vorrebbe sommare i benefici di entrambi i livelli e dall’altro chi pensa che, una volta scardinato il CCNL si potrà fare a meno anche del livello aziendale. Due facce della stessa medaglia. Le critiche alla pesantezza e alla mancanza di flessibilità del CCNL si superano concretamente percorrendo il terreno delle deroghe. Il contrario non esiste. Lo vediamo nell’impasse del negoziato tra Federdistribuzione e le OOSS che, di fatto, lascia quasi duecentomila lavoratori senza alcun contratto nazionale senza alcuna reazione, lo vediamo con la disdetta di FIPE che lascia tanti altri lavoratori privi di rinnovo del contratto. Da parte sindacale non c’è alcuna presa di posizione significativa perché questi non sono tempi di mobilitazione. Da parte di molte aziende c’è poi l’idea di poter star fermi un giro o, almeno fino a quando è possibile. È la legge del pendolo. Quando i sindacati erano più forti e combattivi “caricavano” di costi le imprese. Adesso che sono oggettivamente deboli si caricano dei costi delle imprese. E, come un pugile suonato non sanno che fare. Inoltre, in molte aziende, l’idea di non fare alcun contratto nazionale o aziendale comincia a farsi strada. il dibattito aperto sui media su questo tema non comprende quasi mai questi aspetti. Ci si limita a teorizzare lo spostamento della contrattazione più vicino al territorio come soluzione di tutti i mali. È vero il contrario. L’asimmetria dei rapporti di forza si tradurrebbe nell’assenza di contrattazione. A meno che non vogliamo comprendere sotto questo termine tutto ciò che in caso di crisi i sindacati lasciano di tutto sul tavolo in cambio di impegni più o meno generici sull’occupazione. La messa in discussione del CCNL porta con sé molti effetti collaterali. In primo luogo mette in discussione il ruolo di regolatore salariale delle parti sociali. Non è cosa da poco. Oggi il contratto è sostanzialmente rispettato d tutte le aziende in tutto il Paese. Se non viene applicato determina la possibilità di farsi valere in altre sedi. È l’unico antidoto al downgrading salariale in atto in molti settori. in secondo luogo contiene tutti quegli elementi di welfare, gestione organizzativa e di inquadramento che sono punti di riferimento utili sia per le aziende che i lavoratori. In terzo luogo la non applicazione determina situazione di dumping tra aziende che, in un Paese con oltre quattro milioni di imprese, non è da sottovalutare. Infine il cosiddetto salario minimo. Avere un punto di riferimento nazionale e accettato da tutti è importante. Forse sarebbe più utile un nuovo modello che preveda 4 contratti: industria, terziario e servizi, alimentare e agricoltura, pubblico impiego anziché gli oltre 600 previsti oggi. Al proprio interno ciascun contratto potrebbe prevedere le specificità necessarie per singoli comparti. I contratti nazionali potrebbero inoltre gestire importanti quote di welfare nel campo della previdenza, della sanità e della formazione. A questi, infine, si potrebbe aggiungere un contratto unico per i manager (dirigenti, quadri, professional) che non ha senso inquadrare nei contratti di categoria con un welfare specifico. A livello aziendale e/o territoriale basterebbe introdurre il concetto della deroga. Una opzione a disposizione delle parti per gestire situazioni particolari aziendali o territoriali. Personalmente spero si vada in questa direzione. L’alternativa è Darwin. Non credo sia una strada da percorrere.

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