Una sfida da accettare perché è alla nostra portata.

A metà gennaio il rapporto sul futuro dell’impiego pubblicato dal WEF non lasciava molto spazio alle illusioni. Gli effetti della quarta rivoluzione industriale comporteranno nuove attività nei prossimi cinque anni che creeranno circa due milioni di nuovi lavori. Purtroppo circa sette milioni di posti di lavoro saranno distrutti e questo al netto di eventuali nuove crisi. Un panorama fosco al quale non siamo sicuramente preparati. In Germania la platea dei minijobs non sembra destinata a comprimersi, in Francia i “jobber” stanno diventando un fenomeno sempre più diffuso tanto da passare, negli ultimi dieci anni da un milione a 2,3 milioni. In italia l’esplosione dei voucher segnala un problema che non si può comprendere se ci si limita solo a negare la realtà che ha provocato l’ingigantirsi del fenomeno. C’è chi pensa di nasconderlo sotto il tappeto magari ritornando al lavoro nero, sommerso o illegale coprendo una realtà che sta emergendo in tutta la sua crudezza. Da un lato il lavoro così come lo abbiamo conosciuto con le sue regole, i suoi vincoli e i suoi costi e dall’altro la necessità di costruirsi un reddito per chi, quel lavoro, non avrà la possibilità di ottenerlo. C’è “uno spettro” (la disoccupazione giovanile) che si aggira per l’Europa e che colpisce le speranze di molti giovani ma che non sembra risolvibile solo con la leva degli incentivi o degli sgravi. La mancanza di sviluppo rende tutti più fragili e più esposti alla demagogia e alla retorica. E così, invece di concentrarci sulle risposte in vista di ciò che appare all’orizzonte ci si limita a litigare nei Paesi e tra i Paesi come i polli di manzoniana memoria. È chiaro che non è questa la strada. Così come credo che nessun Paese possieda una ricetta autarchica. La globalizzazione la renderebbe comunque indigesta agli altri mettendo in forse la stabilità sociale di tutto il continente. Basta solo osservare i contraccolpi politici ed economici dell’immigrazione sui singoli Paesi e il conseguente esplodere di contraddizioni sempre più difficili da governare. Possiamo rassegnarci o sperare che altri ci pensino. Oppure impegnarci e portare il nostro contributo. Ovviamente alcune risposte possono solo essere europee e in quella sede vanno cercate. Nei singoli Paesi, però, ciascuno deve farsi carico del problema. Innanzitutto imprese e sindacati. Ovviamente né in termini assistenziali, né pensando che le vecchie ricette possano funzionare in questo contesto. Una crescita “zero virgola” non produrrà alcun beneficio significativo sull’occupazione. A mio parere occorre agire su due piani. Innanzitutto agevolando tutto ciò che porta a condividere rischi e opportunità tra capitale e lavoro. Questo comporta mettere mano ai contenuti del rapporto di lavoro. Flessibilità, salario, inquadramento, variabile, welfare. L’obiettivo non è ridurre i salari ma renderli più coerenti con un nuovo modello. E, ovviamente, occorre puntare a forme innovative di collaborazione alla vita dell’impresa. In secondo luogo ridurre i contratti nazionali lasciando alle singole imprese e ai lavoratori che vi operano la possibilità di adattarli alle esigenze specifiche. Così come in comparti omogenei. Questo per evitare situazioni di dumping tra le aziende. In terzo luogo riorganizzare forme di welfare contrattuale intersettoriale (previdenza, sanità e formazione). Occorre formare masse critiche rilevanti come già presenti in altri Paesi e non rinchiudersi in modesti interessi di settore con “fondini” ad uso e consumo più di chi li governa che di chi ne dovrebbe trarre benefici concreti. Un sistema di politiche attive che supporti i momenti di passaggio tra un’attività e un’altra è fondamentale e la possibilità di effettuare stage formativi (non strumentali) durante il percorso di studio. Io credo che occorra osare proponendo una sorta di leva civile “obbligatoria” per i nostri ragazzi alla quale le imprese dovrebbero sentirsi coinvolte positivamente. Ovviamente sarebbe meglio proporla a livello europeo per favorire una effettiva integrazione tra mondi e culture differenti. Ma tant’è. Infine il Governo dovrebbe contribuire intervenendo sul piano legislativo e fiscale. Nel primo caso aiutando le parti sociali a trovare le risposte adeguate. Il ruolo delle parti sociali è fondamentale e non va sottovalutato. Nel secondo intervenendo a sostegno con sgravi finalizzati che spingano le aziende ad accettare questa sfida. Certo, in un Paese condannato all’immobilismo come il nostro, potrebbe sembrare ingenuo proporre cambiamenti radicali e difficili da condividere. A mio parere siamo però di fronte ad una svolta epocale. Qualcuno si sta attrezzando per affrontarla semplicemente demolendo le regole attuali. Il risultato sarà una sorta di darwinismo sociale che non porta da nessuna parte. Altri stanno rimettendo al centro le persone. La loro qualità, il loro futuro e anche i loro interessi. Per i primi è sufficiente smantellare l’esistente. Per i secondi occorre costruire un sistema efficiente con nuove regole del gioco. La nostra società, come le altre società occidentali, non è in grado di reggere a lungo un modello darwiniano. La coesione sociale ne risentirebbe in modo grave. Per questo occorrerebbe dotarsi di progetti ambiziosi e coerenti. Nel nuovo paradigma economico e sociale che si sta delineando c’è spazio per le persone, per la loro intelligenza e per la loro dignità. E per il loro futuro. Dobbiamo creare le condizioni perché questo sia possibile.

L’importanza della ripresa del confronto tra le parti sociali

Qualcosa, forse, si sta muovendo. Per ora solo impercettibili segnali di interesse reciproco a riprendere il filo di un dialogo costruttivo. L’occasione può essere data dall’insistente quanto opportuna richiesta di apertura di un confronto sulle relazioni sindacali e i livelli della contrattazione di Cgil, Cisl e Uil mentre il Governo fa trapelare la volontà di intervenire “autonomamente” a breve. Premetto che sono personalmente convinto che il negoziato di merito sia ancora prematuro ma ritengo altrettanto importante la ripresa di relazioni formali e costruttive. È troppo tempo che il confronto avviene a distanza o precipita nella necessità di trovare mediazioni ai tavoli contrattuali. La fine della stagione della concertazione e la stagione degli accordi separati hanno portato con sé l’idea che ognuno deve limitarsi a pensare e mediare solo in casa propria. E, in ciascuno dei luoghi di reciproca appartenenza, gli altri appaiono sempre più distanti, spesso incomprensibili nei linguaggi e nelle loro legittime identità. E non costruendo nulla insieme, si cerca di difendere al meglio le rispettive ragioni e posizioni. E questo a fronte di un Governo che, sempre meno, è in grado di utilizzare la leva distributiva per accontentare questa o quella istanza proposta. La mancanza di risultati tangibili, la natura e la dimensione della crisi, l’asimmetria di peso e di potere degli attori in gioco e la dimensione globale delle dinamiche competitive allentano inevitabilmente i rapporti con i rispettivi associati e incidono sulle rispettive capacità di mobilitazione. E se la capacità tradizionale di difendere le posizioni viene meno non cresce la capacità di proposta perché costretta nei recinti angusti dei propri mondi sempre più paralleli e sempre meno convergenti rispetto agli altri. Ma esistono tematiche che, per loro natura, sono di interesse trasversale e quindi sarebbero molto più gestibili e autorevoli se portate avanti, insieme, all’interno di una vera e innovativa cultura del confronto e della proposta. Il futuro prossimo del nostro Paese potrebbe dipendere anche da questo. La qualità della nostra democrazia, i necessari investimenti per sostenere la ripresa economica, i settori nei quali concentrare gli interventi, la lotta alla corruzione, al malaffare e alla malavita organizzata, i sistemi di welfare, il mezzogiorno solo per citare quelli che, credo, potrebbero rappresentare una grande occasione di confronto e di proposta dove ciascuno, però, non si dovrebbe limitare ad esprimere una posizione ma, con coraggio, dichiarare la propria disponibilità, nei fatti, a mettere sul tavolo parte dei suoi interessi particolari finalizzandoli ad un obiettivo comune. Quindi un nuovo ruolo dei corpi intermedi, uniti, non per chiedere, non per difendere una legittima prerogativa di parte ma per offrire il proprio contributo al futuro del nostro Paese. Personalmente credo che le parti sociali siano individualmente e inevitabilmente destinate a perdere autorevolezza e terreno. Non ci sono risorse da distribuire, la pazienza del Paese è al limite e ci sono rischi evidenti che si incrinino pilastri portanti della convivenza civile che reggono il rapporto tra culture, territori e generazioni. Se la situazione ha tenuto fino ad ora è anche grazie al lavoro “invisibile ma quotidiano” dei corpi intermedi che non hanno offerto sponde alla disperazione, alle incertezze sul futuro e alle tentazioni disgregatrici interne ed esterne. A differenza di quasi tutta l’offerta politica che, al contrario, cerca occasioni per dividersi su tutto senza trovare motivi di unità nell’interesse generale, i corpi intermedi non hanno mai scelto questa strada. Anzi. I segnali di unità nel mondo del lavoro, le iniziative comuni tra le organizzazioni datoriali esprimono altre vocazioni. Saperle mettere a fattor comune rappresenterebbe un vero salto di qualità di cui abbiamo bisogno. La ripresa del confronto, seppur provocata da temi “minori” potrebbe rappresentare l’occasione per iniziare un percorso nuovo di ricerca di una collaborazione costruttiva per qualcosa che sappia andare ben oltre i legittimi interessi di ciascuno. Per questo non è importante il luogo, la ragione o la scusa. Sarà più importante concordare l’ordine del giorno e le priorità. Le modalità, i tempi e la qualità delle intese vengono dopo.

La metafora della Reggia di Caserta…

Quello che è accaduto alla Reggia di Caserta deve farci riflettere. Per certi versi è una metafora del nostro Paese. Un luogo bellissimo che tutti ci invidiano, sottovalutato, da rilanciare, dove un direttore cerca di impegnarsi, in perfetta solitudine, completamente circondato da una fortissima resistenza al cambiamento. Il fatto che, questa resistenza, si sia manifestata con una lettera sottolinea ancora di più l’arroganza di chi pensava che, nascondersi dietro una o più sigle sindacali, fosse sufficiente a “spaventare” l’intruso costringendolo a recedere e a comportarsi di conseguenza. I “mariuoli” non pensavano certo di assurgere agli onori della cronaca nazionale. Pensavano che, a seguito della loro iniziativa, qualche solerte funzionario sarebbe stato inviato dal Ministero per mediare, magari convincendo il direttore che, certe richieste di maggiore impegno e disponibilità, pur assolutamente condivisibili, avrebbero dovuto essere gestite con maggiore tatto e sensibilità nei confronti dei sindacati locali. Così facendo il direttore avrebbe perso completamente la sua autorità (ma anche la sua motivazione) e si sarebbe trovato ostaggio, non dei lavoratori, ma di qualche “cacicco” locale che, in questo modo, avrebbe potuto rimarcare il suo potere personale di interdizione. Fortunatamente non è andata così. I vertici confederali non hanno avuto dubbi a schierarsi dalla parte della ragione creando quell’isolamento necessario che sarà fondamentale nei prossimi mesi e che consentirà al direttore a continuare il suo lavoro con ancora maggiore determinazione. E sicuramente presto, tutti noi, ne godremo i benefici. Nessuno ha avuto dubbi su quali fossero i veri interessi in gioco. Né il Governo, né le parti sociali, né i media, né l’opinione pubblica. Quello che mi chiedo è perché tutto questo “buon senso” non possa essere trasportato a livello “Paese”. Ne avremmo veramente bisogno. Se tutti insieme convergessimo su quattro o cinque macro obiettivi fondamentali e non ci perdessimo in scontri verbali di retroguardia trasformeremmo questo nostro Paese in una Reggia. Non bisogna essere dei fini politici per capire che il Paese che dobbiamo cambiare è quello che si nasconde dietro quei comportamenti, che a Caserta si sono manifestati alla luce del sole, ma che sono presenti e radicati ovunque. Nella politica, nei diversi ceti sociali, nei corpi intermedi, nei media, nelle istituzioni. E che solo con uno scatto di orgoglio e di determinazione collettiva riusciremo a sconfiggere. Il nostro è un Paese che ha bisogno di una nuova Costituente più che di una nuova Costituzione. I corpi intermedi potrebbero dare il proprio contributo convergendo unitariamente su alcune proposte sulle quali sono disposti a mettersi in gioco. Così come a Caserta si è scelto il Direttore senza se e senza ma, in questo caso si sceglierebbe il Paese, l’interesse generale e la necessità di riscriverne le regole del gioco. E così passare finalmente da una logica difensiva ma perdente dove domina il “già dato” e “cosa mi aspetto dal mio Paese” a quello di “cosa posso fare”. Prima che sia troppo tardi.

“Fare impresa per creare valori”

Roger Abravanel non poteva ottenere migliore risposta. Confindustria c’è. Per la prima volta nella sua storia una delle grandi organizzazioni degli imprenditori italiani decide che è arrivato il momento di chiedere ai suoi associati un importante momento di riflessione sul senso e sul ruolo dell’imprenditore nella società. E non lo fa chiedendolo a qualche intellettuale amico in un convegno ma a quello che sempre più si sta dimostrando un grande punto di riferimento in questo cambio di paradigma economico, sociale e politico che attraversa l’intero pianeta: Papa Francesco. E non è stata una passerella mediatica. Anzi. È stato un momento fortemente simbolico. In Italia ci sono oltre cinque milioni di imprenditori. Un numero sconosciuto altrove. Cinque milioni di persone che ogni giorno devono trovare in se stessi la forza e l’ingegno di guardare avanti. In un mondo dominato dalla finanziarizzazione e dall’integrazione globale non è facile. Non lo è mai stato ma oggi lo è ancora meno. Per affrontare questa sfida quotidiana, oggi più che mai, occorre trovare un senso, una ragione, una direzione di marcia che sappiano andare oltre la semplice realizzazione del profitto e del benessere personale. Ed è questo disorientamento sul proprio futuro, su quello dei propri figli, sulla capacità o meno di navigare in mari sconosciuti ma anche sulla grande responsabilità rispetto ai propri collaboratori e alle loro famiglie che spinge a cercare dentro di sé una motivazione, una forza d’animo un senso che rimetta in discussione vecchie convinzioni alla ricerca di un ruolo attivo, di presenza, nella comunità. In una comunità nazionale anch’essa percorsa da smarrimento, incertezza, preoccupazione verso il futuro dei propri membri. Ed è questa necessità di sentirsi di nuovo “parte” e non solo “homo oeconomicus” che mostra in tutta la sua forza morale il messaggio di Papa Francesco e la volontà degli imprenditori di interrogarsi veramente. Frasi come “Non c’è giustizia e benessere senza il rispetto dell’individuo” pronunciata dal Papa, oppure “rinnoviamo l’impegno a costruire una società più giusta e vicina alle nostre persone” pronunciata da Storchi, presidente di Federmeccanica, segnalano la presenza di qualcosa di più profondo che Confindustria ha avuto il merito di intercettare e di fare emergere in tutta la sua forza. Certo non basta. Ma guardiamoci intorno. Dove cogliere un segnale altrettanto importante? Nel mondo, in Europa o anche più vicino a noi? Nulla. Tutto sembra andare in ben altra direzione. “Come sarebbe diversa la nostra vita se imparassimo a costruire insieme”. In questa affermazione semplice, diretta ma inequivocabile sta il senso del messaggio di Papa Francesco. L’applauso degli imprenditori presenti rappresenta una conferma e un impegno. Hemingway sosteneva che:”dobbiamo abituarci all’idea che ai più grandi crocevia della vita, non c’è segnaletica”. Beh! Questo è un segnale forte e chiaro. A tutti noi saperlo coglierlo o meno.

L’indispensabile vitalità dei corpi intermedi.

È difficile replicare a Roger Abravanel. La sua convinzione sulla sostanziale inutilità dei corpi intermedi è granitica. Così come la certezza che la contrattazione nelle singole aziende di qualsivoglia dimensione rappresenterebbe la soluzione ottimale per imprese e lavoratori. Nella sua intervista televisiva auspica, addirittura, una fine parallela per le organizzazioni datoriali e sindacali. Anzi. Utilizza le critiche di Bombassei e Marchionne per generalizzare un opinione di sostanziale inutilità dell’organizzazione datoriale che, a suo giudizio, sarebbe condiviso da molti imprenditori. È una opinione diffusa. E non da oggi. Innanzitutto essere iscritti ad un’organizzazione sindacale non è obbligatorio così come è ovvio che chi ha ritenuto opportuno non rinnovarne l’iscrizione ha tutto il diritto di criticarne i comportamenti. La volontarietà e quindi la libertà di aderire o meno, di per sé, dovrebbero far riflettere chi crede nel tramonto imminente dei corpi intermedi. Personalmente credo che questa prospettiva non sia né prevedibile né auspicabile. I corpi intermedi, pur attraversando, nel tempo, cicli di crescita e di calo del tutto fisiologici, hanno una vitalità propria difficile da contestare. La loro legittimità è data dalle migliaia di imprese e lavoratori che nei territori, nelle associazioni o nelle federazioni conferiscono loro un mandato. Basterebbe entrare in una qualsiasi sede associativa periferica per rendersene conto. Far da soli non è sempre possibile. Chi è in grado di farlo sottovaluta spesso l’esigenza di rappresentanza che ha chi non è in grado di tutelarsi da solo. Per fare solo un piccolo esempio recente basta citare il caso dei proprietari di appartamento di Firenze sostenitori della disintermediazione, che, ai primi problemi di rapporto con la loro controparte, hanno ritenuto indispensabile associarsi per trattare al meglio con Airbnb. Ma è così ovunque e su ogni tema che abbia un interesse minimamente collettivo. Quindi ipotizzarne un declino irreversibile e definitivo è, di per sé, un errore di valutazione. Non va sottovalutata, inoltre, la capacità di rigenerazione dei corpi intermedi. Sicuramente più marcata in periferia, meno evidente al centro, dove resta però fondamentale la presenza di una leadership riconosciuta e autorevole in grado di determinare un impatto mediatico specifico. In periferia, è evidente registrare una presenza a macchia di leopardo a seconda del differente insediamento territoriale e della capacità di interazione con il contesto economico, sociale e politico. Detto questo nessuno nega la necessità di profondi cambiamenti sia per le organizzazioni datoriali che sindacali. Ma questo non c’entra nulla con la disintermediazione auspicata da alcuni esponenti del mondo politico e da alcuni opinionisti poco informati sulle dinamiche organizzative e sociali proprie del nostro Paese. La presenza di più candidati alla carica di Presidente di Confindustria è un segno di grande vitalità. Ciascuno di loro porta con sé un modo specifico di intendere la rappresentanza. Chiunque vincerà proporrà scelte differenti che influenzeranno non poco il contesto politico. Confcommercio ha, da parte sua, da tempo avviato profondi programmi di rinnovamento investendo su progetti organizzativi importanti sia a livello locale che centrale. Anche nei sindacati dei lavoratori si registrano chiari segnali di cambiamento, ad esempio, nelle categorie industriali della CISL ma anche in scelte precise di rinnovamento dei gruppi dirigenti locali e centrali in molte categorie della Cgil. Tutto questo è sufficiente? Ovviamente no. La velocità di cambiamento del contesto economico nazionale e internazionale impone una accelerazione continua per fornire alle imprese e ai lavoratori punti di riferimento costanti su temi quali modelli contrattuali praticabili, nuove tutele, servizi innovativi, welfare integrativo, reti e capacità di sviluppare integrazione nelle filiere. Quindi tutto ciò che è fuori dalla portata dei singoli. Ipotizzare un contesto futuro che non preveda contrappesi sociali significa inevitabilmente rassegnarsi ad un modello di società darwiniana dove solo ai più forti è consentito dettare le regole del gioco. Esattamente l’opposto di ciò che serve ad una comunità nazionale complessa come la nostra che deve trovare nella convergenza di interessi e nella collaborazione tra generazioni e territori la sua rinnovata ragion d’essere.

Chi fa da sé, non fa per tre…

Nuove associazioni di imprese, di professionisti, di attività. L’ultima, in ordine di tempo, è nata a Firenze con lo scopo di mettere a fattor comune i problemi di chi affitta il proprio appartamento su AIRBN. È un segno dei tempi o si rischia, ancora una volta, di confondere un alba con un tramonto? È già successo con i sindacati dei lavoratori. Intorno al sindacalismo confederale sono nate e si sono sviluppate una infinità di sigle che non hanno mai contato nulla e che non hanno portato risultati apprezzabili e concreti ai propri iscritti. Solo disagi a terzi. Nei professionisti sta succedendo, più o meno, la stessa cosa. Tanto fervore organizzativo ma due ostacoli restano comunque insormontabili: la mancanza di risorse che impedisce ristorni significativi da parte pubblica per i rispettivi soci e, pensando a lungo termine, la scarsa massa critica per operazioni di necessarie nuove forme di welfare a favore dei propri associati. Resta solo la convinzione di avere un maggiore peso contrattuale mettendosi insieme evitando, contemporaneamente, le grandi organizzazioni di rappresentanza. E cosi un’attività che nasce proprio per disintermediare, ai primi problemi, propone forme di aggregazione tradizionale. Da qui la prima riflessione. Fare da soli è comunque molto difficile. Soprattutto quando l’interlocutore principale è di grandi dimensioni e agisce in un contesto planetario e anche lo Stato nazionale arranca e insegue con le sue leggi e le sue determinazioni. In secondo luogo è necessaria, sia una struttura per finalità specifiche (federazione, associazione, ecc.) ma anche un contenitore più ampio che consenta autorevolezza, forza e massa critica utile a moltiplicare l’effetto associativo verticale. Le principali organizzazioni di rappresentanza sono, da sempre, strutturate in questo modo. È la loro forza sia localmente che centralmente. E, soprattutto, le grandi organizzazioni datoriali ma anche quelle dei lavoratori sono strutturalmente integrate nel Sistema e quindi conoscono, rispettano ma contribuiscono anche a modificare a proprio vantaggio le regole del gioco. E questo resta un punto di forza soprattutto quando la partita non si svolge solo nel proprio cortile di casa. Queste nuove realtà spesso nascono e si sviluppano fuori dalle regole proprio perché sfuggono ad una valutazione tradizionale. Un agriturismo, una sagra di paese, un bed and breakfast, un affittacamere, se fanno attività dove altri sono soggetti devono sottostare a regole precise (igiene, sicurezza, contabilità, fisco) sono tenuti anch’essi a rispettarle o no? Stesso mercato, stesse regole vale per tutti o solo per chi opera in un settore da più tempo? Ovviamente nessuno vuole impedire la nascita di nuove attività sia in campi tradizionali che ovunque ma le regole sono importanti se valgono per tutti. I corpi intermedi hanno questa capacità di operare sintesi rispettate dai propri associati. Pensare di scavalcare questo ruolo non rende tutti uguali, semmai tutti più deboli.

Lotta all’evasione fiscale, vera battaglia di civiltà.

La prima conferenza televisiva del nostro Presidente della Repubblica verrà ricordata per le parole chiare e nette che ha pronunciato sullo scandalo dell’evasione fiscale nel nostro Paese. Non è un caso, che, anziché limitarsi ad un forte quanto generico appello sul tema, ha volutamente citato una recente ricerca di Confindustria pubblicata da poco tempo e caduta immediatamente nel dimenticatoio. Secondo me ha voluto indicare un confine. Un limite ormai intollerabile. Il punto di passaggio necessario dalle parole ai fatti. L’evasione fiscale non è solo un grave problema economico per un Paese come il nostro. E non divide semplicemente i buoni dai cattivi cittadini. E soprattutto, non sempre, i cattivi sono gli “altri”. Ci sono le multinazionali che scelgono residenze fiscali convenienti, industriali, commercianti, artigiani e professionisti di diversa estrazione. Perfino il giovane o l’insegnante pubblico che danno ripetizione in nero al figlio del cassaintegrato in difficoltà con gli studi. C’è una grande evasione e una diffusa mentalità indulgente verso vari tipi di evasione. Ciascuno di noi, sul tema, giustifica ciò che gli pare. Ma, oltre alla solita litania su scontrini, idraulici e dentisti, c’è anche la malavita organizzata, la corruzione, il lavoro nero, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri. E di questa “evasione” si parla molto meno. È evidente che siamo al cospetto della madre di tutti i nostri problemi. Combattere sul serio l’evasione significa cambiare veramente la qualità del nostro Paese. Ma è un’impresa difficile che deve mobilitare tutte le coscienze. Altrimenti è un’impresa impossibile. Per questo il nostro Presidente ha fatto bene a parlarne. Al Governo e al Parlamento spetta agire già nel 2016. Altrimenti resteranno parole al vento che rischiano di coinvolgere nel giudizio anche la più alta autorità morale del Paese che ha indicato le priorità del 2016. Dal punto di vista economico c’è già maggiore consapevolezza nel Paese. La cassa è vuota, le tasse sono oltre al limite di sopportazione e non sarà lo zero virgola concesso di volta in volta da Bruxelles a far cambiare verso all’Italia. Aumentare le entrate riducendo con gradualità la pressione fiscale significa far pagare le imposte a chi non le paga. La metà dell’evasione censita dal centro studi di Confindustria porta ad un’aumento di 3,5 punti del PIL quindi, si stima, ad un effetto sull’occupazione superiore al Jobs Act. E questo senza mettere le categorie, i territori e le generazioni gli uni contro gli altri. È l’unica possibilità nel breve/medio periodo di aumentare considerevolmente le entrate. Per farlo, però, serve un vero patto nazionale. Ma soprattutto serve che nessuno si smarchi. Non tutti hanno applaudito il discorso del nostro Presidente. Però quelli che hanno applaudito sono indubbiamente la maggioranza. Anzi. Siamo la maggioranza. Forse serve solo qualcuno che interpreti questa nuova disponibilità all’ascolto e alla concretezza. Il fatto che per la prima volta il monito sia partito dalla più alta carica dello Stato è veramente importante.

L’inutile sforzo della disintermediazione…

Delle teorie modernizzatrici del nostro Premier quella sulla inevitabile necessità di delegittimare le grandi organizzazioni di rappresentanza è la meno comprensibile. I grandi sindacati datoriali e dei lavoratori mantengono un radicamento, una credibilità e una presenza capillare sul territorio che i Partiti non hanno più da anni. Sono, al di là dei luoghi comuni, di sicura utilità per i propri associati sia in termini di difesa, di risposta a problemi specifici che di proposta. Certo, è indubbio che la crisi ne abbia rallentato l’iniziativa, offuscato l’immagine e rallentato l’azione. La crisi, dunque, non le convinzioni del Presidente del Consiglio. Gli opinionisti, in questa querelle, si sono divisi tra chi ha ha seguito l’onda, soddisfatto, perché ha sempre tifato per la loro messa in mora e chi, al contrario, deluso dalla lentezza dei cambiamenti, ha preferito suonare “le campane a morto” sulla vitalità e sulle prospettive dei corpi intermedi. Mi spiace che Di Vico sul Corriere abbia scelto questa strada. Personalmente non la condivido. Parto dal fondo. Fosse anche e solo perché questa azione di delegittimazione favorisce le spinte populiste e demagogiche che rischiano di frantumare il Paese, le generazioni e le categorie produttive, dovrebbe essere motivo sufficiente di un rapido ripensamento. Il Paese ha bisogno di unità e di condivisione per affrontare le sfide che ha di fronte e per “cambiare verso” sul serio. Le organizzazioni di rappresentanza hanno tanti problemi ma hanno anche la consapevolezza che occorre cambiare in profondità. Ciascuna di loro nelle rispettive autonomie sta procedendo in questa direzione. Si può criticarne la lentezza, le incrostazioni burocratiche, forse anche la presunta autosufficienza e perfino, in alcuni casi, l’autocompiacimento, non la volontà di procedere in quella direzione. Sono importanti comunità in cammino leali verso le istituzioni, consapevoli della posta in gioco e disponibili a dare il loro contributo. Questa è una stagione diversa da quella della concertazione. È una lunga stagione di transizione. Nei prossimi anni si giocherà una partita nella quale le elites culturali, economiche e sociali rischiano di illudersi se pensano di giocarla senza un vero radicamento popolare. Il rischio, oggi, di gettare il bambino con l’acqua sporca è reale. È necessario predisporsi ad una nuova fase di convergenza e di collaborazione e, le organizzazioni di rappresentanza, possono e debbono giocare un ruolo importante. Occorre forse ripensare ad un luogo di incontro innanzitutto per tutte le organizzazioni datoriali ma anche per le organizzazioni sindacali. Un luogo nuovo di elaborazione e proposta comune. E da questo luogo lanciare una sfida positiva sul futuro al Governo e al Presidente del Consiglio. L’alternativa è insistere con un Paese spaccato, rancoroso, chiuso nei piccoli e grandi egoismi di categoria, di territorio e di generazione. Questo sforzo di unità va fatto e va fatto velocemente. Prima che l’Europa venga vissuta dai più come una matrigna con tutte le conseguenze del caso e che le guerre, sempre più vicine, ci impongano pesanti costi a cui non siamo preparati.

Pensiero per le feste….

Ci saranno sempre degli esquimesi pronti a dettare le norme su come devono comportarsi gli abitanti del Congo durante la calura.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati, 1957

Lo sciopero e la sua attualità.

Trovo interessante lo spunto di di Vico sul Corriere di oggi sul ritorno di attualità dello sciopero. Medici, trasporti, GDO, tre indizi fanno una prova. È un ritorno al passato o un segnale debole di disagio sociale che viene colto da alcuni e sottovalutato da altri? Forse occorre partire da un altro punto di osservazione. La crisi, la disoccupazione, la paura di perdere il posto di lavoro costituiscono, da sempre, un deterrente fondamentale sul piano individuale, ad aderire o meno a forme di protesta costose sul piano economico. Più l’obiettivo è distante, omnicomprensivo e ‘politico” meno coinvolge. La credibilità di chi propone l’iniziativa poi fa la differenza. Ma nessuno di questi o altri elementi risolve il disagio che cova sotto la cenere. Un disagio economico, professionale, familiare e relazionale. Di Vico, giustamente, parla di welfare aziendale, sharing economy, staffetta generazionale e tutto quell’insieme di politiche riformiste che non accendono il cuore delle persone come antidoto possibile ma rischia di sottovalutare l’incoerenza continua dei messaggi che passano e contribuiscono ad alimentare il disagio dei singoli. Come può una commessa di supermercato accettare l’idea che 85 euro lordi e scaglionati in tre anni siano fuori dalla portata delle aziende della GDO? Un medico, un insegnante o un poliziotto per bene sentirsi paragonati, ad esempio, agli impiegati di una particolare regione sotto inchiesta o di un comune dove un vigile in mutande timbra il cartellino e non sentirsi indignati? Ciò che crea l’humus sul quale si innesta la reazione (per ora a macchia di leopardo) è l’ingiustizia diffusa che si percepisce e alla quale non c’è spiegazione che tenga. Sembra che tutto ciò che di negativo c’è nella nostra società sia ritenuto normale e scontato mente tutto ciò che riguarda il rapporto tra le persone, la loro dignità, il loro reddito, la loro futura pensione, i loro risparmi e il loro lavoro siano, appunto, problemi loro. È su questo che si crea il distacco. Ed è su questo che si crea la “necessità” di reagire. La risposta non sono le palestre, il welfare o un riformismo astratto che non incide nella vita quotidiana, non ne permea i valori di riferimento individuali che si sono via via persi spingendo le persone ad occuparsi dei fatti propri e della propria sopravvivenza fregandosene di tutto ciò che è comunità, socialità e condivisione. Si è incattivito il contesto sociale e tutti rischiano di continuare cercare scorciatoie che, purtroppo, non esistono. Questo disagio crescerà. Lo vediamo nei rapporti interpersonali, nell’accettare o meno il rapporto con lo Stato, nella clamorosa distanza tra ciò che i media ci offrono in termini di segnali di cambiamento o di interesse e la specifica realtà individuale fatta di problemi semplici ma spesso privi di soluzioni altrettanto semplici. Addirittura sembra che ai problemi reali le uniche risposte siano lo sfogatoio inconcludente dei salotti televisivi o una bella statistica che spiega in modo dotto e supponente che il problema è sempre un altro e che il “mio” problema me lo devo tenere… E allora lo sciopero non è più un antico rito collettivo di condivisione e solidarietà tra uguali ma è, al contrario, un segnale di insofferenza, di reazione individuale incattivita dal rendersi conto che i propri problemi economici, professionali umani non sono ritenuti importanti da nessuno di coloro che dovrebbero occuparsene. Io credo che il nocciolo della questione stia qui. Se le persone non trovano risposte al loro disagio, si incattiviscono, si irrigidiscono nelle loro convinzioni e cercano di reagire in qualche modo. Compito dei riformisti dovrebbe essere quello di comprendere questo disagio e riportarlo entro limiti accettabili cercando risposte concrete e non limitandosi ad alimentare domande. Altrimenti, dobbiamo saperlo che chi si mette alla testa di questo malcontento sta lavorando, più o meno inconsapevolmente, per il re di Prussia….