Com’era prevedibile il libro di Giuseppe Caprotti sta facendo emergere altre letture, credo ben al di là delle intenzioni dell’autore. Alcune frasi, estrapolate dal contesto narrativo, pesano come macigni rischiando, a distanza di tempo, di apparire provocatorie e offensive non tanto per le traiettorie e gli obiettivi del racconto quanto per le strumentalizzazioni a cui si prestano. Gabriele Arosio, pastore della chiesa evangelica battista di Bollate, raccoglie qualche aneddoto dal libro per affrontare un tema ricorrente nella storia di Esselunga: la cultura del lavoro e l’atteggiamento nei confronti dei sindacati (https://bit.ly/48ZU4xS) e conclude il suo commento: “Certo amaro e foriero di grandi sofferenze il destino del figlio cacciato, umiliato, perseguitato e fatto oggetto di stalking durante le lunghe vicende giudiziarie seguite all’allontanamento. Ma certi silenzi tra perdenti pesano e alla fine distruggono”.
Difficile affrontare un tema così complesso all’interno del racconto di una saga familiare raccontata da uno dei protagonisti come Giuseppe Caprotti. Tra poco uscirà la terza edizione di “Falce e Carrello” (la storia di Esselunga raccontata da Bernardo Caprotti con l’epico scontro con Coop) uscito nel 2007, con l’aggiunta di un sottotitolo eloquente “In memoria di un uomo che non può più difendersi” insieme all’atteso intervento di Marina Caprotti, la figlia che ha ereditato l’azienda. Era evidente che, sul piano umano, le pesanti accuse al padre del primo, impossibilitato per ovvie ragioni a replicare, non lasciassero indifferente la seconda. Per quanto mi riguarda, provo a restare sul tema proposto da Arosio. È sicuramente vero che Bernardo Caprotti avesse una pessima opinione dei sindacati e che ha cercato in tutti i modi di contrastarne l’iniziativa. Come, va ricordato, buona parte degli imprenditori, grandi e piccoli, della Distribuzione commerciale di allora.
Va sottolineato, però, che il suo concetto di azienda e di lavoro, pur essendo diametralmente opposto a quello espresso da buona parte dei sindacalisti che si è trovato di fronte, coincideva abbondantemente con il pensiero della stragrande maggioranza dei lavoratori di Esselunga. E questo, più che alla “paura” e dal profilo del personaggio estrapolati dalle affermazioni contenute nel libro, era dovuto alla forza e alla crescita continua dell’insegna, alle assunzioni, al rispetto dei contratti, alla gestione e sviluppo delle carriere interne, alle retribuzioni (sicuramente tra le maggiori del comparto), al coinvolgimento e all’orgoglio di appartenenza che hanno caratterizzato una lunga fase della vita di Esselunga. Banalizzare tutto questo estrapolando una frase è un primo grave errore.
Arosio quindi parte da un pregiudizio dando scontato ciò che scontato non è. I lavoratori in Esselunga ai tempi di Bernardo Caprotti ma anche in quelli che hanno visto co-protagonista il figlio Giuseppe (certamente diverso per stile e caratteristiche) non sono stati affatto sconfitti o perdenti. Lo è stata, al contrario, quella parte del sindacato che ha pensato possibile, in un contesto di debolezza organizzativa, di rapporti di forza sfavorevoli e di grande crescita dell’insegna, utilizzare fatti, pur deprecabili, cercando di elevarli a sistema, nel disinteresse generale (che è altra cosa della paura) dei lavoratori occupati in quell’azienda senza così riuscire ad incidere nella realtà.
Il prof. Zamagni ex presidente dell’Agenzia per il terzo settore e, fino all’anno scorso presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali, ha definito quel modello, importato dalle multinazionali e presente da sempre in molte realtà “Totalismo aziendale” intendendo la capacità di un’azienda di includere una leadership forte, valori che hanno le loro radici nel territorio o nella cultura aziendale, un consenso pressoché totale e risposte concrete ai bisogni. Un sistema chiuso che esclude modelli sindacali conflittuali o deboli che pensano di poter scegliere loro il terreno di confronto. Oggi anche altre insegne hanno sviluppato metodi e sistemi di gestione del lavoro che possono includere o escludere (di fatto) i sindacati. Allora, la divisione era ancora più netta. Gli estremi in campo, nel comparto, erano occupati da Esselunga da una parte che rifuggiva il rapporto con il sindacato e Coop, dall’altra che lo alimentava. Per la prima gli incontri con il sindacato, se non nelle aule di tribunale, erano ridotti al minimo indispensabile. Questo però non impediva una gestione di ottimo livello dei lavoratori da parte della direzione risorse umane dell’azienda. Per la seconda, la mancanza di un confine netto tra differenti responsabilità, in quegli anni, ha spesso portato con sé costi e problematiche che, ancora oggi, complicano la gestione in alcune cooperative. In mezzo a questi estremi c’era il resto del comparto… È chiaro che quella di Esselunga era (ed è tuttora, pur senza l’anziano leader) un’impostazione che tende ad escludere ed emarginare chi non ne condivide finalità e atteggiamenti.
Il sociologo Renato Curcio aveva allora un obiettivo preciso ben espresso nella sua prolifica produzione letteraria. Non aveva alcun interesse o simpatia per il ruolo del sindacato. Era alla ricerca di conferme alle sue spericolate tesi. Le interviste (non solo in Esselunga) furono solo un pretesto. L’obiettivo di Curcio era dimostrare la similitudine del modello organizzativo di luoghi apparentemente così diversi (nella sua testa, assolutamente confrontabili) tra di loro: le carceri, le caserme e i punti vendita della Grande Distribuzione. Luoghi retti da piccole gerarchie, culturalmente modeste e dalla “complicità” di parte degli “internati”, messi a capo di altri, prima loro pari, indispensabili per la gestione collettiva del sito. Il secondo obiettivo era individuare il profilo del cosiddetto nuovo “soggetto rivoluzionario” che, secondo il sociologo, avrebbe dovuto sostituire l’operaio massa degli anni 70 da lui identificato nel lavoratore della GDO (i lavoratori della logistica e delle piattaforme, fortunatamente per loro, non c’erano ancora e non c’erano nei radar del sociologo) vessati dal “padrone” e dai capi, integrati in una gerarchia costruita dal basso e formata da lavoratori disposti a trasformarsi in “cani da guardia del padrone”. E dulcis in fundo, in combutta con l’isteria consumistica del “cliente” in coda alle casse. Una realtà grottesca e immaginaria che necessitava, per essere credibile, di elevare situazioni specifiche di repressione a sistema per poterci poi costruire una narrazione “rivoluzionaria” in linea con le idee strampalate del personaggio.
Curcio e altri si sono quindi “appassionati” agli effetti ingigantendo fatti e accadimenti che pur ci sono stati ma che, proprio per la loro ridotta numerosità in rapporto al numero dei dipendenti coinvolti e la scarsa solidarietà generata testimoniavano solo errori gravi di gestione del personale che alcune affermazioni dello stesso Caprotti riportate nel libro, amplificano. I termini e gli slogan partoriti in quel contesto (“mambrucco” per indicare il sindacalista rompicoglioni o “ci piace di più il Caprotti a testa in giù” dall’altra parte) più che strumentalizzarli oggi, li lascerei alle pesanti forzature di quegli anni.
È chiaro che un modello organizzativo come quello della GDO che si basa su impegnativi nastri orari giornalieri, sulla movimentazione della merce sugli scaffali, sui flussi di entrata dei clienti e sulle loro esigenze è molto più complesso da strutturare rispetto ad un reparto industriale dove ritmi e tempi di lavoro sono scanditi dagli obiettivi di produzione e dalle macchine. La tipologia del lavoro richiesto nella GDO necessitava (allora più di oggi) di rigidità organizzative, di rapidità esecutive, soprattutto all’imbuto delle casse e di “ossessione” sui costi con tutto ciò che questo determina sul piano delle conseguenze, spesso ruvide, nella gestione delle persone.
Il contratto nazionale, oggi al palo, è un prodotto di quelle contraddizioni. Un testo obsoleto, mutuato dalla cultura tayloristica industriale dove al centro non c’è mai stato né il cliente né il servizio che al contrario rappresentano la specificità del comparto. E quindi non c’è il merito, l’impegno, il lavoratore ma un’ omologazione collettiva verso il basso che oggi non regge più. Questo ha costretto le insegne ad aggiramenti continui, limitando il potenziale partecipativo delle relazioni sindacali nel rapporto di lavoro e impedendo, di fatto, la convergenza di interessi e quindi una sintesi negoziale moderna. I fenomeni repressivi, che indubbiamente ci sono stati, e, dall’altra parte, le forme di lotta estreme che rischiavano di coinvolgere, i clienti da un lato e la gestione organizzativa dei negozi dall’altro, che hanno caratterizzato una modesta parte tra gli anni 80 e 90 del secolo scorso hanno poi prodotto un riflusso inevitabile che ha, di fatto, confinato il sindacato, in gran parte della categoria, ad un ruolo marginale e notarile di sottoscrizione di procedure di riduzione di personale, di accordi sul salario aziendale e poco più ma rendendolo inefficace dal punto di vista di una sua potenziale credibilità propositiva. La vicenda delle liberalizzazioni degli orari e l’introduzione delle forme di flessibilità in entrata lo ha poi definitivamente messo fuori gioco.
Ma il salto di qualità che l’intero comparto (aziendale e sindacale) dovrebbe compiere passa proprio da qui. Da una visione moderna del punto vendita, delle dinamiche che lo animano, dalle professionalità che lo caratterizzano. Dalla polivalenza e dal lavoro che richiede per assolverlo. Dall’importanza del cosiddetto “cliente interno”. Indipendentemente da quando e da come sarà il prossimo CCNL solo partendo dal punto vendita e dalle sue dinamiche è possibile ricostruire il nuovo perimetro e il ruolo della rappresentanza. Dalla comprensione della quantità e della qualità del lavoro necessaria, del suo riconoscimento e dal legame con l’andamento aziendale e quindi del ruolo negoziale dei soggetti preposti. Welfare contrattuale rinnovato, professionalità, coinvolgimento, contributo ai risultati e qualità del servizio al cliente. L’ originalità del CCNL del commercio dovrà passare da qui. Altrimenti è un testo destinato inevitabilmente all’obsolescenza in un contesto di inevitabile pseudo antagonismo declinante.