L’inutile sforzo della disintermediazione…

Delle teorie modernizzatrici del nostro Premier quella sulla inevitabile necessità di delegittimare le grandi organizzazioni di rappresentanza è la meno comprensibile. I grandi sindacati datoriali e dei lavoratori mantengono un radicamento, una credibilità e una presenza capillare sul territorio che i Partiti non hanno più da anni. Sono, al di là dei luoghi comuni, di sicura utilità per i propri associati sia in termini di difesa, di risposta a problemi specifici che di proposta. Certo, è indubbio che la crisi ne abbia rallentato l’iniziativa, offuscato l’immagine e rallentato l’azione. La crisi, dunque, non le convinzioni del Presidente del Consiglio. Gli opinionisti, in questa querelle, si sono divisi tra chi ha ha seguito l’onda, soddisfatto, perché ha sempre tifato per la loro messa in mora e chi, al contrario, deluso dalla lentezza dei cambiamenti, ha preferito suonare “le campane a morto” sulla vitalità e sulle prospettive dei corpi intermedi. Mi spiace che Di Vico sul Corriere abbia scelto questa strada. Personalmente non la condivido. Parto dal fondo. Fosse anche e solo perché questa azione di delegittimazione favorisce le spinte populiste e demagogiche che rischiano di frantumare il Paese, le generazioni e le categorie produttive, dovrebbe essere motivo sufficiente di un rapido ripensamento. Il Paese ha bisogno di unità e di condivisione per affrontare le sfide che ha di fronte e per “cambiare verso” sul serio. Le organizzazioni di rappresentanza hanno tanti problemi ma hanno anche la consapevolezza che occorre cambiare in profondità. Ciascuna di loro nelle rispettive autonomie sta procedendo in questa direzione. Si può criticarne la lentezza, le incrostazioni burocratiche, forse anche la presunta autosufficienza e perfino, in alcuni casi, l’autocompiacimento, non la volontà di procedere in quella direzione. Sono importanti comunità in cammino leali verso le istituzioni, consapevoli della posta in gioco e disponibili a dare il loro contributo. Questa è una stagione diversa da quella della concertazione. È una lunga stagione di transizione. Nei prossimi anni si giocherà una partita nella quale le elites culturali, economiche e sociali rischiano di illudersi se pensano di giocarla senza un vero radicamento popolare. Il rischio, oggi, di gettare il bambino con l’acqua sporca è reale. È necessario predisporsi ad una nuova fase di convergenza e di collaborazione e, le organizzazioni di rappresentanza, possono e debbono giocare un ruolo importante. Occorre forse ripensare ad un luogo di incontro innanzitutto per tutte le organizzazioni datoriali ma anche per le organizzazioni sindacali. Un luogo nuovo di elaborazione e proposta comune. E da questo luogo lanciare una sfida positiva sul futuro al Governo e al Presidente del Consiglio. L’alternativa è insistere con un Paese spaccato, rancoroso, chiuso nei piccoli e grandi egoismi di categoria, di territorio e di generazione. Questo sforzo di unità va fatto e va fatto velocemente. Prima che l’Europa venga vissuta dai più come una matrigna con tutte le conseguenze del caso e che le guerre, sempre più vicine, ci impongano pesanti costi a cui non siamo preparati.

Pensiero per le feste….

Ci saranno sempre degli esquimesi pronti a dettare le norme su come devono comportarsi gli abitanti del Congo durante la calura.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati, 1957

Proposta Federmeccanica: luci e ombre del “rinnovamento contrattuale”

Nell’incontro ufficiale di ieri si è finalmente materializzata la tanto attesa proposta di “rinnovamento contrattuale” di Federmeccanica. Chi si aspettava la solita strumentale presentazione limitata alle pessime condizioni del settore e alle prospettive altrettanto incerte non è stato accontentato. Ieri, secondo me, è accaduto qualcosa di nuovo che contribuirà, nel bene o nel male, a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese. Mentre mi aspetto un “respingimento” pavloviano dalla FIOM credo che, in queste ore, in casa FIM e UILM prevalga la cautela pur nell’insoddisfazione complessiva. Non essendo presente all’incontro mi posso solo limitare ad una lettura di ciò che è presente in rete. Innanzitutto non è previsto alcun aumento automatico per tutti. Il contratto nazionale diventa il regolatore economico autentico dei minimi di categoria. Solo chi nel periodo precedente di riferimento è rimasto sotto quel minimo potrà percepire l’adeguamento salariale. Ed è questo il punto su cui i sindacati sono in maggiore difficoltà perché sostengono, a ragione, che ci si troverebbe di fronte ad un rinnovo contrattuale che, per la parte economica, riguarderebbe solo una modesto numero di lavoratori. E questo non è positivo. Per Federmeccanica, questo aspetto, va messo però in relazione con una apertura a nuove forme di adeguamento salariale aziendale legata ad obiettivi. Non è chiaro però se, questi adeguamenti avvengano attraverso forme di contrattazione, di che tipo, tra quali soggetti e con quale cadenza. Fino a qui il salario. Il punto vero di svolta è, però, sul resto. Se azienda e dipendenti, attraverso i propri rappresentanti, investono sul welfare, collaborano. Questo è il punto. E decidere di collaborare è il primo gradino verso forme più o meno ampie di partecipazione. Il fatto che la proposta venga da Federmeccanica è una novità importante e significativa. Credo che nessuno possa sottovalutarla. Si può discutere la dimensione della proposta, i suoi limiti, la sua praticabilità in decine di migliaia di imprese piccole e piccolissime. Non la novità che sottende. Non sarà un percorso contrattuale facile. Non lo sarà perché costringerà tutti i soggetti coinvolti a scoprire le proprie carte e a decidere quale strada percorrere. Per certi versi questa proposta rende già un po’ vecchia la stessa posizione di Cgil Cisl Uil sulla contrattazione. Nel migliore dei casi la mette immediatamente alla prova dei fatti. Vedremo quali saranno le reazioni.

Contratto nazionale? Si, no, forse…

Nelle discussioni sui futuri livelli della contrattazione la contrapposizione è ormai chiara: da un lato viene presentata una caricatura di un ipotetico contratto nazionale come uno strumento vecchio, distante dalle aziende e dai problemi reali e dall’altro l’opportunità di negoziare facilmente nei singoli luoghi di lavoro o altrove attraverso uno strumento nuovo di zecca: il contratto aziendale e/o il contratto di settore. Messa così, l’alternativa non si pone. Tra una cosa vecchia, distante, complicata, omnicomprensiva e una nuova, rapida e su misura la scelta sembrerebbe obbligata. Ma è proprio così o siamo di fronte ad una semplificazione furbesca o di chi fatica a comprendere il complesso sistema contrattuale e il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese? La vicenda FCA è emblematica nel suo essere un caso pressoché isolato e difficilmente imitabile. Un’azienda di grandi dimensioni, sostanzialmente unica nel suo settore esce dal CCNL di riferimento per costruirsene uno disegnato sulle proprie esigenze. Nulla di sconvolgente. Se avesse avuto la possibilità di derogare le norme ritenute obsolete e di non subire la reazione dei dissidenti e l’effetto paralizzante dei loro inevitabili ricorsi in tribunale, non lo avrebbe fatto. In quel contesto non era possibile fare altro sia per l’evidente opposizione della FIOM ma anche per problemi di equilibrio complessivo in Federmeccanica e quindi anche in Confindustria. Uscire da tutto ciò che avrebbe potuto ritardare il processo di cambiamento organizzativo in atto è stata una scelta tutto sommato, ragionevole. E, per questo, nessuno l’ha messa in discussione. Anzi, tre importanti organizzazioni radicate in quel contesto (FIM, UILM e Fismic) si sono dichiarate disponibili a seguire l’azienda in quel percorso. E infine, anche i lavoratori, visti gli esiti referendari, hanno approvato sia il percorso che il nuovo contratto. Cosa ha reso possibile quella scelta dunque? La presenza di un’azienda che gioca sul piano globale che rappresenta di fatto un intero settore, tre sindacati convinti e determinati a condividere una scommessa sul futuro e i lavoratori pronti a sostenerla. In altri contesti, però, non ha funzionato. Il caso di Federdistribuzione lo dimostra efficacemente. Una Federazione che raggruppa un numero importante di imprese della GDO (escluso le catene che fanno capo a Confcommercio, Coop e Confesercenti) decide di uscire dal contratto del terziario firmato da Confcommercio proponendo alle organizzazioni sindacali di farne uno specifico. Il quarto CCNL della GDO. Sarebbe bastato questo ultimo dato per fermarsi e riflettere, ma così non è stato. I vertici della Federazione si sono predisposti a impostare una piattaforma “nazionale” sostanzialmente indigeribile e impraticabile per qualsivoglia interlocutore e, infatti, nessun sindacato ha mai dichiarato esplicitamente di volere entrare nel merito. Al massimo qualche apertura generica sull’opportunità di continuare a confrontarsi e questo più per volontà di protagonismo di singoli esponenti sindacali che per reale disponibilità a concessioni concrete. Nonostante ciò si è preferito andare comunque avanti, forzando la situazione, abbandonando i fondi del welfare contrattuale del CCNL del terziario e lanciandosi in un negoziato senza rete sperando in una conclusione che, per come è stata prospettata fin dall’inizio alle imprese, non potrà mai esserci. Quando chi gestiva la trattativa si è accorto che Federdistribuzione non poteva continuare ad applicare sine die un contratto scaduto di cui non era firmataria e che non sarebbero stati in grado di farne uno nuovo, era ormai troppo tardi. Nel frattempo è stato rinnovato il contratto del terziario da Confcommercio lasciando Federdistribuzione e chi ne ha seguito la linea in una palude fatta di possibili ricorsi, agitazioni, malcontento dei collaboratori e isolamento organizzativo da cui sarà difficile uscire perché il livello di mediazione rischia di diventare sempre più difficile per tutti. E questo, sia chiaro, non è un bene né per le imprese né per i lavoratori. L’idea di farsi ciascuno il proprio contratto in una fase nella quale i contratti nazionali andrebbero ridotti e semplificati si è dimostrata ingenua e impraticabile. Quindi sostanzialmente inutile. Federdistribuzione aveva ed ha un ruolo ben più importante da svolgere nella tutela delle imprese della Distribuzione Organizzata. Si è purtroppo sottovalutato che le aziende della GDO hanno, negli anni, beneficiato dall’essere parte del CCNL del terziario. Addirittura lo hanno sempre condizionato a loro favore “nascondendosi” spesso dietro le difficoltà economiche delle piccole imprese e che, semmai, i guasti sono stati provocati proprio dalla contrattazione aziendale nella GDO stessa dove il rischio di volubili rapporti di forza interni (con minacce di blocco dei centri logistici e dei punti vendita) hanno spinto le DHR ad accordi tattici che, nel tempo, si sono rivelati trappole da cui, oggi, non è facile uscire. Inoltre la sovrapposizione temporale con il contratto nazionale della Cooperazione, che ha una necessità forte di riallineamento dei costi verso le aziende concorrenti che si riconoscono anche in Federdistribuzione, rende ancora più complesso il tutto. “Far da soli” ha senso quando l’obiettivo è quello di marcare un nuovo campo da gioco, insieme, non quello di “declinare crescendo” per riposizionarsi, in perenne lotta tra insegne. Un contratto nazionale senza scambio vero sui contenuti né basato su una scommessa sul futuro né su di un forte riconoscimento reciproco è fuori dalla realtà. Quello che è mancata è una leadership vera e riconosciuta di un’azienda con le idee chiare sulle altre come è sempre avvenuto in passato ma anche e soprattutto un’influenza e un’autorevolezza dei vertici della Federazione stessa sull’insieme delle imprese associate. E, mancando questa determinazione, non è stato trovato nessun interlocutore sindacale disposto a condividere quel disegno assumendosene le relative responsabilità anche perché, quelli che viviamo, non sono più tempi favorevoli ad accordi separati. Questi due estremi (FCA e Federdistribuzione) dimostrano che la strada maestra da percorrere è forse un’altra. Ed è quella già prevista dal CCNL del commercio che, non a caso, è il contratto nazionale più utilizzato dalle imprese italiane di ogni dimensione e di differenti settori del terziario. Quella che, in caso di necessità, possa prevedere delle deroghe di comparto da concordare su casi concreti all’interno di un corpo solido e riconosciuto. Si può fare di più e meglio? Certamente. Ad esempio studiando in futuro materie specifiche, nuovi livelli di competenza, maggiore autonomia, ulteriori deroghe. Ma questo solo all’interno di un CCNL unico, forte e rappresentativo. Questo, tra l’altro, consentirebbe di risparmiarsi “goffe” dichiarazioni sulla presunta insostenibilità di un aumento medio di 85 euro lordi scaglionati, di fatto, in quattro anni che l’insieme della GDO non potrebbe permettersi al contrario delle imprese dello stesso comparto e delle stesse dimensioni aderenti a Confcommercio. Solo una cosa un contratto nazionale o aziendale non può comprendere e cioè che una parte, unilateralmente, possa decidere quello che gli pare. Napoleone sosteneva che: “tutto si può chiedere ai propri soldati meno che sedersi sulla punta delle baionette”. Ecco. Se qualcuno pensa che la contrattazione nazionale o aziendale sia solo una richiesta formale di resa ai sindacati temo non abbia capito il contesto sociale e politico del nostro Paese. C’è una profonda differenza tra ciò che l’azienda può concedere individualmente e unilateralmente al proprio collaboratore e ciò che può o deve negoziare con i sindacati sul piano collettivo. Così come tra un livello aziendale dove può prevalere una esigenza interna o uno scambio anche “tattico” e un livello nazionale dove nessuno può imporre nulla alla propria controparte e tutto assume un rilievo politico e di principio. Per questo occorre un luogo terzo che definisca i minimi contrattuali, le norme generali e le regole del gioco evitando così il rischio di dumping tra aziende. E che si faccia carico del welfare contrattuale. Anche perché dovrebbe essere interesse di tutti il suo sviluppo, integrativo e complementare, al welfare pubblico con la creazione di masse critiche importanti. Inoltre nulla impedisce, ad esempio, di assegnare compiti precisi ai diversi livelli attraverso “clausole di dissolvenza” che lascino il tempo alle imprese che lo volessero di raggiungere accordi alternativi o applicare più o meno integralmente il CCNL di riferimento. Addirittura nulla impedirebbe di identificare un “minimo di garanzia” per ciascun comparto sotto il quale nessuno può scendere lasciando alle parti, nelle singole aziende, la possibilità di integrarlo verso l’alto o di comprenderlo con formule incentivanti o di coinvolgimento su specifici obiettivi aziendali. Ma questa non è una discussione che si può condurre sui media. Occorre che le parti sociali coadiuvati dagli esperti della materia possano confrontare proposte, soluzioni e contropartite accettabili. Modificare un modello contrattuale per renderlo attuale e in grado di rispondere alle necessità di oggi è di domani per le imprese e per i lavoratori non è materia semplice. La dimensione delle imprese, i settori, la loro collocazione nel territorio pesano quanto la cultura dei singoli imprenditori, dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali. Trovare una soluzione non sarà semplice. Sicuramente sarà necessario.

Lo sciopero e la sua attualità.

Trovo interessante lo spunto di di Vico sul Corriere di oggi sul ritorno di attualità dello sciopero. Medici, trasporti, GDO, tre indizi fanno una prova. È un ritorno al passato o un segnale debole di disagio sociale che viene colto da alcuni e sottovalutato da altri? Forse occorre partire da un altro punto di osservazione. La crisi, la disoccupazione, la paura di perdere il posto di lavoro costituiscono, da sempre, un deterrente fondamentale sul piano individuale, ad aderire o meno a forme di protesta costose sul piano economico. Più l’obiettivo è distante, omnicomprensivo e ‘politico” meno coinvolge. La credibilità di chi propone l’iniziativa poi fa la differenza. Ma nessuno di questi o altri elementi risolve il disagio che cova sotto la cenere. Un disagio economico, professionale, familiare e relazionale. Di Vico, giustamente, parla di welfare aziendale, sharing economy, staffetta generazionale e tutto quell’insieme di politiche riformiste che non accendono il cuore delle persone come antidoto possibile ma rischia di sottovalutare l’incoerenza continua dei messaggi che passano e contribuiscono ad alimentare il disagio dei singoli. Come può una commessa di supermercato accettare l’idea che 85 euro lordi e scaglionati in tre anni siano fuori dalla portata delle aziende della GDO? Un medico, un insegnante o un poliziotto per bene sentirsi paragonati, ad esempio, agli impiegati di una particolare regione sotto inchiesta o di un comune dove un vigile in mutande timbra il cartellino e non sentirsi indignati? Ciò che crea l’humus sul quale si innesta la reazione (per ora a macchia di leopardo) è l’ingiustizia diffusa che si percepisce e alla quale non c’è spiegazione che tenga. Sembra che tutto ciò che di negativo c’è nella nostra società sia ritenuto normale e scontato mente tutto ciò che riguarda il rapporto tra le persone, la loro dignità, il loro reddito, la loro futura pensione, i loro risparmi e il loro lavoro siano, appunto, problemi loro. È su questo che si crea il distacco. Ed è su questo che si crea la “necessità” di reagire. La risposta non sono le palestre, il welfare o un riformismo astratto che non incide nella vita quotidiana, non ne permea i valori di riferimento individuali che si sono via via persi spingendo le persone ad occuparsi dei fatti propri e della propria sopravvivenza fregandosene di tutto ciò che è comunità, socialità e condivisione. Si è incattivito il contesto sociale e tutti rischiano di continuare cercare scorciatoie che, purtroppo, non esistono. Questo disagio crescerà. Lo vediamo nei rapporti interpersonali, nell’accettare o meno il rapporto con lo Stato, nella clamorosa distanza tra ciò che i media ci offrono in termini di segnali di cambiamento o di interesse e la specifica realtà individuale fatta di problemi semplici ma spesso privi di soluzioni altrettanto semplici. Addirittura sembra che ai problemi reali le uniche risposte siano lo sfogatoio inconcludente dei salotti televisivi o una bella statistica che spiega in modo dotto e supponente che il problema è sempre un altro e che il “mio” problema me lo devo tenere… E allora lo sciopero non è più un antico rito collettivo di condivisione e solidarietà tra uguali ma è, al contrario, un segnale di insofferenza, di reazione individuale incattivita dal rendersi conto che i propri problemi economici, professionali umani non sono ritenuti importanti da nessuno di coloro che dovrebbero occuparsene. Io credo che il nocciolo della questione stia qui. Se le persone non trovano risposte al loro disagio, si incattiviscono, si irrigidiscono nelle loro convinzioni e cercano di reagire in qualche modo. Compito dei riformisti dovrebbe essere quello di comprendere questo disagio e riportarlo entro limiti accettabili cercando risposte concrete e non limitandosi ad alimentare domande. Altrimenti, dobbiamo saperlo che chi si mette alla testa di questo malcontento sta lavorando, più o meno inconsapevolmente, per il re di Prussia….

Eppur si muove….

A leggere i giornali sembra immobile. Per alcuni, ormai inutile. Per altri addirittura dannoso. Il Sindacato confederale italiano è messo continuamente in discussione. Sembra affetto da una crisi irreversibile incapace di affrontare un contesto politico, sociale ed economico in continua evoluzione. Non è così. I contratti nazionali che si sono chiusi o che si stanno chiudendo coinvolgono importanti settori produttivi. Non tutti, ovviamente, ma sicuramente quelli che hanno, da sempre, saputo proporre o accettare “scambi” importanti sul piano negoziale. Sono categorie che difficilmente hanno dovuto impegnarsi in prove “muscolari” nei rinnovi contrattuali degli ultimi trent’anni. Se togliamo i chimici che si sono guadagnati da sempre e sul campo il diritto a contrastare sul piano della strategia contrattuale i metalmeccanici, gli alimentaristi e il sindacato del commercio sono sempre stati ritenuti incapaci di produrre riferimenti validi in termini di innovazione ma solo fino a quando i rapporti di forza si sono modificati provocando la crisi dell’egemonia dei metalmeccanici e della loro cultura sul resto del sindacato. Questo ha consentito nel tempo, ad esempio nel terziario, di costruire un solido sistema bilaterale e un welfare di qualità negoziando anche nastri orari, part time, misure di contrasto all’assenteismo e lavoro domenicale particolarmente indigesti per una cultura sindacale tradizionale e accompagnato, nello stesso tempo, lo sviluppo delle imprese. Negli alimentaristi e nei chimici si è impostato, negli anni, un modello di contrattazione aziendale di qualità che ha permesso di affrontare con intelligenza e visione del futuro le ristrutturazioni e le concentrazioni aziendali che si sono via via succedute. Oggi, pur a rapporti di forza profondamente cambiati, quella lungimiranza maturata in tempi passati consente a queste categorie la firma di importanti contratti nazionali e la continuazione di un dialogo utile alle imprese e quindi anche ai lavoratori con l’appoggio forte delle confederazioni. La proposta di “sindacato dell’industria” maturata in casa Cisl consentirebbe, anche ai metalmeccanici, di ritornare a giocare un ruolo forte e condiviso pur nelle diverse sensibilità categoriali che saranno chiamate a costituire questo nuovo soggetto. Resta fuori la FIOM ma la recente scelta di giocare sul confine tra aggregatore sociale e nuovo soggetto politico la porterà a subire le contraddizioni di un’area che, da sempre, vive tra leadership di scopo, agitatori politici d’antan e neo “sandinisti” in concorrenza perenne con i grillini che mantengono comunque una capacità di movimento maggiore e meno vincolata da storie personali e dalle ideologie. La Cgil, nel suo complesso ha tutto l’interesse a giocare di sponda con le altre due organizzazioni confederali e, di conseguenza, l’importante carta dell’unità sindacale, sia per ragioni difensive e di merito ma anche per il suo indubbio potenziale aggregativo. Va inoltre dato merito alla gestione di Susanna Camusso di aver avviato e portato avanti un processo di rinnovamento e ringiovanimento profondo nelle strutture di categoria e confederali che non tarderà a dare frutti anche sul piano politico. Contesto che invece è ancora “a macchia di leopardo” nelle altre due organizzazioni confederali. Comunque i processi di cambiamento sono in atto pur non essendo visibili nettamente agli osservatori distratti o in cerca di scoop troppo semplicistici. Sono processi decisamente lenti (forse troppo) che però segnalano una vitalità che caratterizza tutte le organizzazioni di rappresentanza radicate nei territori, che mantengono solidi valori di riferimento e che, nonostante qualche “mariuolo” e qualche burocrate di troppo, restano ancora un solido punto di riferimento per tutti coloro che non sono in grado di difendersi da soli. L’accordo sulla rappresentanza e la inevitabile intesa sulla contrattazione che presto arriverà vanno ovviamente in questa direzione. E questo al di là del giudizio che si può avere sull’efficacia concreta di queste intese. Quello che manca è forse la volontà di dichiarare esplicitamente e inequivocabilmente il cambio di passo e quindi la nuova direzione di marcia. Pesano sicuramente i guasti prodotti dalla deriva identitaria che ha caratterizzato ben oltre il necessario la storia recente dei rapporti tra le diverse organizzazioni al centro come in periferia, la stagione degli accordi separati e il disorientamento prodotto dai rimescolamenti dell’intero schieramento della sinistra politica e sociale. Ma questo non può più rappresentare un alibi. Sulle spalle dei dirigenti di oggi pesa la necessità di alzare lo sguardo e operare decisamente in una nuova direzione aprendo, se necessario, una vera fase costituente.

I Quadri del terziario: quali prospettive contrattuali?

In molti stanno ragionando sul futuro del management nelle imprese del terziario. Quando però si passa dalle mansioni/funzioni aziendali, spesso descritte in inglese, all’articolo 2095 del codice civile la cruda realtà giuslavoristica italiana ci impone di misurarci con il 900 e con due su quattro categorie ben precise: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Non si sfugge. Il simpatico trio Reno a Zelig sosteneva l’alternativa secca:” o moto o ciclista”. È così anche per il codice civile. Non c’è “manager più qualcosa” che tenga. O dirigente o quadro. E i Contratti nazionali seguono necessariamente questo schema rigido. Come sempre sono gli aggettivi a fare la differenza. Il quadro ha funzioni di “notevole” importanza e autonomia, il dirigente ha “ampi” poteri e “rilevante” autonomia. In azienda, al contrario, non è così da molto tempo. Sono due popolazioni che, al loro interno, presentano sfaccettature e responsabilità ormai difficili da separare nettamente. Nel terziario di mercato convivono circa 25.000 dirigenti e 90.000 quadri. In sostanziale tenuta i primi, in crescita i secondi. Se non fosse per il welfare contrattuale, le differenze quotidiane, nelle aziende del terziario, sarebbero minime ad eccezione dei licenziamenti individuali. I benefit sono ormai presenti e diffusi in entrambe le categorie, le retribuzioni (ad esclusione dei top manager) non sono sensibilmente differenti. Addirittura, in caso di passaggio a dirigente, a parità di stipendio, il quadro rischia di perdere circa il 10% della retribuzione diretta pur trovandosi a disposizione un welfare previdenziale, sanitario e formativo, di buon livello. Il Quadro ha a disposizione Quas per l’assistenza sanitaria, Quadrifor e Forte per la formazione e Fonte per la previdenza, il dirigente ha a disposizione FASDAC per l’assistenza sanitaria, Mario Negri e fondo Pastore per la previdenza e Cfmt e Fondir per la formazione. Welfare più costoso, certo, ma di altro livello. I quadri sono stati riconosciuti formalmente come categoria a se stante solo dalla Legge n. 190/1985. I dirigenti hanno un contratto nazionale specifico, i quadri, al contrario, sono inseriti nel contratto nazionale dei dipendenti del terziario al punto massimo della scala parametrale. È però difficile trovare imprese che affrontano in modo differenziato queste due categorie anche perché in azienda si gestiscono risorse, team, progetti e non categorie contrattuali. I piani di crescita e sviluppo, le carriere, il coinvolgimento, quando ci sono, riguardano l’intera popolazione manageriale indipendentemente dall’inquadramento professionale. Nelle multinazionali è spesso difficile spiegare ai colleghi di altri Paesi questi confini esclusivamente “legali” e italiani nati e consolidati nel secolo scorso e che, per loro, non hanno alcuna ragione di esistere. In alcuni settori e specifiche realtà aziendali medio piccole, al contrario, il livello Quadro resta un punto di arrivo. Invalicabile. L’unico approccio possibile se si vuole trovare una risposta è nella segmentazione e nella differenziazione come peraltro avviene già nelle imprese. E allora, che fare? O si interviene nel CCNL dei dipendenti del terziario introducendo una nuova figura di “quadro superiore” come già presente altrove, o si introduce questa nuova figura nel contratto dirigenti. Personalmente propendo per la seconda ipotesi anche perché ritengo un’anomalia concettuale la presenza di una figura manageriale, non impiegatizia o tecnica, nel CCNL dei dipendenti del terziario. Ovviamente questo si potrebbe fare dopo una seria analisi di quale parte della popolazione, oggi di livello Quadro, potrebbe esserne coinvolta, quali ricadute in termini di vantaggi, costi per le imprese e sul sistema di welfare contrattuale dei dirigenti nel lungo periodo. Aggiungo che, secondo me, questa figura professionale introdotta forzatamente nella metà degli anni ’80 per iniziativa dei sindacati confederali che inseguivano una effimera convinzione di rappresentanza generale, non ha giovato né ai quadri né al necessario allineamento tra organizzazione aziendale, funzionalità dell’impresa e articolato contrattuale. Né alla pianificazione delle carriere e delle retribuzioni per le imprese “costrette” ad accettare come inevitabile una forte spinta verso l’alto anche per figure tipicamente impiegatizie; e così si sono trovate costrette a pagare inutilmente anche sul piano del costo del lavoro complessivo. Perché se è vero che ad un’azienda non converrebbe promuovere un quadro a dirigente, è altrettanto vero che avere figure apicali gestite come impiegati sul piano dello standing professionale, della motivazione e della partnership tra singolo e impresa genera non poche contraddizioni. Aggiungo che negli anni 80 le differenze sul piano retributivo, dei benefit e del ruolo erano molto più marcate rispetto ad oggi dove sia il CCNL dei dirigenti che il CCNL dei dipendenti del terziario non hanno portato quasi nulla di significativo a queste categorie se non un tentativo continuo quanto inefficace di difesa di quello che alcuni considerano “diritti acquisiti”. E questo è un errore strategico commesso da tutti i sindacati che, come sempre, piuttosto che affrontare i problemi posti dalle imprese sul piano generale, definendo limiti legittimi ma uguali per tutti, preferiscono chiudere gli occhi e lasciarli alla gestione del singolo e della sua impresa. O dei rispettivi legali.
Consentire alle imprese e ai manager di dotarsi di tutte le opportunità necessarie per affrontare la crisi, le prospettive di sviluppo personale e professionale e il consolidamento di un welfare contrattuale di qualità è un obiettivo raggiungibile. Lo è ancora di più se i contratti nazionali che accompagnano questi passaggi sapranno cogliere le esigenze di chi rappresenta i rispettivi interessi in campo. Pensare che ci sia ancora la possibilità di avere, come dicono in Polonia, “il lupo sazio e l’agnello intero” è una illusione che rischia di far pensare a molti che lo strumento contrattuale non sia più in grado di regolare efficacemente il rapporto di lavoro a certi livelli. O meglio che l’unico modo di regolare il rapporto di lavoro tra manager (siano essi dirigenti o quadri) e impresa è farlo individualmente rendendo così inutili o ridondanti i contratti nazionali di categoria.

Il CCNL tra passato e futuro

La “provocazione” del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti non va sottovalutata o banalizzata perché punta dritta al cuore di un punto importante dell’impianto contrattuale prendendo a pretesto l’argomento dell’orario di lavoro in rapporto alla retribuzione finale. Il soggetto, però, è l’impianto complessivo ritenuto sempre più costrittivo, non l’orario in sé. Ed è su questo che il Ministro ci invita a riflettere. È indubbio che il rapporto concreto tra CCNL e realtà normativa, giuridica e retributiva quotidiana delle imprese è sempre più distante. E questo sia per il singolo lavoratore che per i manager. Qualche accenno sulla lettera di assunzione (spesso con riferimenti comprensibili solo dagli addetti ai lavori) e il testo appeso in bacheca vicino alla macchinetta del caffè negli uffici o nei reparti. È un po’ come il Vangelo. Molti ne parlano ma pochi lo hanno letto. Vale anche per il CCNL. È argomento da tribunali, uffici vertenze, ispettorati del lavoro. Alcune volte da delegati della RSU che si “azzuffano” con le direzioni del personale nel disinteresse generale. Difficilmente lo è tra lavoratori. Ha perso quella valenza redistributiva che aveva in passato, non genera più alcun trasporto emotivo, senso di appartenenza e partecipazione quando si avvicina la data di scadenza. Anzi spesso le moratorie che si succedono con incessante regolarità rendono vaga anche la durata. Infine i contenuti che non mobilitano più le coscienze né creano particolari aspettative. Anzi. I lavoratori più sindacalizzati vivono spesso il rinnovo come un momento dove rischiano di essere messi in discussione prerogative e diritti ritenuti acquisiti. Le aziende generalmente lo applicano riservandosi di interpretarlo in modo abbastanza lasco, con la “complicità” più o meno consapevole dei diretti interessati. Minimi tabellari esclusi. Mansioni, livelli, straordinari, orari, ferie, permessi, ecc. trovano spesso un equilibrio specifico, azienda per azienda, ben diverso dal testo scritto. Le direzioni del personale non ne parlano volentieri. Non c’è una volontà a disattenderlo c’è un’interpretazione specifica che, generalmente, si è costruita nel tempo sul piano comportamentale e organizzativo che considera marginali e comprese nel costo complessivo le rare rivendicazioni postume. Nessuno, da molti anni, agisce e lavora in azienda con in mano il contratto nazionale. Da entrambe le parti. C’è un equilibrio accettabile o accettato. A volte subito. Ovviamente ci sono le eccezioni. Alcune aziende private in diversi settori (medio grandi), pubblico impiego e cooperazione. Questi ultimi due credo siano ormai gli unici dove il CCNL è applicato alla lettera e con confini invalicabili. Ma non è affatto detto che i lavoratori, in quelle realtà, stiano complessivamente meglio che altrove. Anzi.
Questa situazione si è creata per varie ragioni. Innanzitutto perché l’impianto organizzativo e sindacale tayloristico che lo ha prodotto nella seconda metà del 900 è in crisi e perché qualsiasi contratto non sarebbe comunque in grado di coprire le aree grigie tipiche dell’organizzazione aziendale e del rapporto di lavoro. In secondo luogo perché “l’ossessione” sui costi che ha pervaso le aziende ha spostato il confronto e il controllo sui piani di riorganizzazione/ristrutturazione o sulla preoccupazione che potessero essere messi in atto. Infine perché, in azienda, esiste un approccio diverso rispetto a quello dei luoghi dove i principi e i testi scritti sono l’elemento costitutivo come le direzioni del personale, le parti sociali, i giuslavoristi, gli avvocati del lavoro e i tribunali. Chiunque ha vissuto un po’ di anni in azienda sa che se si vuole complicare un problema occorre chiederne la soluzione dove il problema (organizzativo o individuale) non si è creato concretamente. È sempre stato così.. Queste ed altre riflessioni porterebbero a dire che ha ragione chi vuole sostituire il CCNL attraverso il suo decentramento a livello aziendale o territoriale. Personalmente sono contrario. Ovviamente non basta esserlo in modo acritico o conservatore. Occorre ridefinire il ruolo, i contenuti e i rimandi necessari. È questo, sarebbe opportuno che lo facciano le parti sociali. Ad oggi, il contratto del terziario, è l’unico che ha fatto un grande sforzo in questa direzione. E di questo va dato atto anche alle organizzazioni sindacali. In futuro penso ad un sistema con quattro contratti nazionali: industria, terziario, agricoltura e pubblico impiego contenenti le norme generali (ad esempio: ferie, malattia, inquadramento minimo, orario massimo, riferimento a norme di legge, ecc.), il minimo contrattuale nazionale legato, però, più ad una scala parametrale di ingresso che a livelli specifici) e, ovviamente, il welfare contrattuale. Impostandolo sull’essenzialità dei quattro grandi comparti forse non servirebbero altri contratti di riferimento (artigianato compreso). Questa impostazione, uguale su tutto il territorio nazionale, eviterebbe il dumping contrattuale e stabilirebbe norme generali uguali per tutti. Questo livello dovrebbe essere rinnovato ogni quattro anni. A livello di settore verrebbero stabilite le norme, valide esclusivamente in quel settore specifico. Questo livello potrebbe essere rinnovato ogni due anni. A cascata, a livello aziendale, verrebbero stabilite tutte quelle norme reversibili legate al rapporto di lavoro individuale e i sistemi di coinvolgimento e incentivazione. Perché reversibili? Perché la mansione può cambiare, in meglio o in peggio nel tempo. Così come le attitudini e le esigenze. Sul piano aziendale, poi, sono le commesse, i progetti, la stagionalità, i risultati a definire l’orario, la sua remunerazione e i sistemi premianti collegati. Su questo il ragionamento del Ministro Poletti non c’entra nulla con il cottimo o altro come sostenuto da Bertinotti o da qualche poco avveduto sindacalista. Cerca semplicemente di contemperare ciò che è riconducibile ad un sistema tradizionale con altre esperienze altrettanto importanti. Personalmente ho sempre pensato ad una retribuzione suddivisa in tre parti di cui una fissa (il minimo tabellare nazionale uguale per tutti) e due variabili (una legata alla professionalità espressa i cui riferimenti potrebbero essere di settore) è una all’andamento aziendale). E questo può essere definito in azienda, fatte salve le regole generali. Un sistema collaborativo e moderno non può che prevedere condivisione dei rischi ma anche dei risultati e quindi non può non essere reversibile. Le aziende del futuro sono luoghi dove il valore si crea attraverso il riconoscimento e la collaborazione. Non solo con le norme e i vincoli. Quindi la discussione sui livelli contrattuali non può non tenere conto che il problema fondamentale non è mettere in alternativa un livello all’altro ma creare un sistema che lascia libere le parti di trovare le soluzioni più idonee all’interno di un quadro di riferimento che eviti abusi, dumping tra aziende, sfruttamento e forzature inutili. Le aziende hanno bisogno di muoversi con maggiore rapidità ed efficacia rispetto ad un mercato sempre più globale ma non hanno alcun interesse a penalizzare le loro risorse che sono sempre più fondamentali e in grado di fare la vera differenza competitiva. E, infine, occorre prendere atto che solo un nuovo modello di relazioni sindacali più collaborative, come emerge anche dalla recente ricerca di Federmeccanica, può essere alternativo al sistema attuale che ha esaurito la sua “spinta propulsiva” e che rischia di essere sempre più inviso alle aziende e sempre meno interessante per i lavoratori.

Lettera di assunzione o lettera di “ingaggio”?

Dopo tanti anni ho deciso di mettere mano al mio archivio personale. In fondo al cassetto della scrivania ho ritrovato una vecchia cartellina scolorita contenente la lettera di assunzione e i fogli paga del mio primo anno di lavoro. Non so bene perché sono finiti lì. Qualche appunto, uno scontrino di “Feltrinelli” e una vecchia agenda tascabile dell’epoca completavano i “reperti” ritrovati. Beh! Un po’ di nostalgia è immediatamente venuta in superficie non tanto perché sono passati molti anni ma perché ho cercato di ricordare quei giorni. Il colloquio , il primo giorno di lavoro, i colleghi e, appunto, la prima busta paga. Il “profumo” dei primi contanti nuovi di banca posseduti dopo un mese di lavoro. Nuovi, sudati e pronti da spendere. Ricordo la sensazione perché non avevo mai avuto, fino ad allora, tanti soldi in mano. In quell’azienda allora non si usavano ancora gli assegni o l’immediato versamento in un conto corrente. Era una busta robusta. Confesso che li ho contati; uno per uno sulla scrivania tra l’ilarità dei colleghi. Lo facevano anche loro, ovviamente, però senza farsi vedere. Non ho mai capito perché lo stipendio contrattuale e quindi il contenuto della busta paga non si deve mostrare. Non si fa e basta. Ricordo lucidamente come li ho spesi: ho comprato una borsa alla mia fidanzata, alcuni libri alla Feltrinelli e poco altro. All’atto pratico non erano granché. Ricordo solo che, quella sera, mia madre mi fece una lunga predica sul denaro, sulla sua fatica a guadagnarne a sufficienza per mantenerci decorosamente e sullo spreco. Capii immediatamente cosa avrei dovuto fare dal mese successivo. La lettera di assunzione era scritta in un linguaggio incomprensibile per un giovane. Rileggendola oggi, dopo tanti anni da Direttore Risorse Umane e quindi come estensore di lettere più o meno analoghe, la trovo ancora un pezzo di letteratura assolutamente incomprensibile. Devo ammettere che non si è fatta moltissima strada da allora. I diritti (solo minimo tabellare, mansione e livello di inquadramento) sovrastati dai doveri e dai riferimenti disciplinari. Molto più chiaro cosa non avrei dovuto fare rispetto a ciò che si aspettavano da me. La cosa che colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento a “come” avrei dovuto lavorare. C’era solo il “quanto”, il “quando” e il “cosa”. Il piccolo particolare è che il superamento del periodo di prova, il giudizio su di me da parte del mio responsabile, in altri termini, il mio futuro prossimo sarebbero dipesi da un elemento che nella lettera di assunzione non era minimamente menzionato. Il “come” era, quindi, solo un mio problema. Perché il “come” loro era altro: avrei dovuto ubbidire al capo, rispettare i miei colleghi, rispondere alle richieste e “timbrare il cartellino” in orario. E tutto sarebbe filato liscio. In altre parole ciò che era ed è molto importante fuori dall’azienda, soprattutto a quell’età, e cioè chi sei veramente e cosa potresti dare in più rispetto ad un altro, lì, non sarebbe interessato a nessuno. I miei interessi, la mia passione, la qualità del mio impegno sarebbero stati solo un problema mio. L’importante era fare ciò che “loro” si aspettavano da me. Fare le cose in modo giusto. Non necessariamente la cosa giusta. È stata la prima lezione di vita professionale. Fortunatamente le opportunità hanno disegnato altre traiettorie che mi hanno consentito di non perdere nulla delle mie capacità, della curiosità e della disponibilità a mettere in circolo passione e qualità dell’impegno. Sempre, però, a modo mio. Non è stato così per tutti. E pensare di pretendere oggi che ad intere generazioni professionali si possa esigere un comportamento opposto a quello preteso fino a pochi anni fa, pena dichiararne l’obsolescenza, è veramente una dimostrazione di superficialità umana e sociale. Ciascuno di noi, a suo modo, costruisce con l’impresa nella quale lavora in modo implicito un “contratto psicologico” che va oltre ciò che l’impianto giuslavoristico assicura. Ogni giorno diamo anche ciò che potremmo non dare. Ci restiamo male se non viene apprezzato e valorizzato dal capo o dai colleghi ma continuiamo a farlo perché fa parte del nostro DNA. Una commessa che al supermercato aiuta la persona anziana a trovare un prodotto anziché dirle: ” È là sullo scaffale in fondo!”, un impiegato pubblico che comprende le difficoltà di un lavoratore straniero e lo aiuta a compilare un modulo, un collega anziano che si accorge di un errore o di una mancanza di un collega più giovane e lo avvisa. Alcuni la chiamano la capacità di “unire i puntini”. Cioè saper mettere a disposizione dell’organizzazione il proprio contributo personale. Non è l’impegno, la presenza né la velocità a fare ciò che viene richiesto. È un altro tipo di sensibilità e di capacità che oggi fa la differenza. Sono mille i comportamenti che dimostrano che le aziende sono migliori e più performanti laddove le persone si sentono parte di un progetto, coinvolte, ingaggiate e non anonimi e insignificanti. Chi si occupa di sviluppo delle risorse umane oggi ha un compito importante. Finita la stagione dove “l’ossessione sui costi” esauriva tutto l’impegno delle direzioni del personale occorre veramente ritornare ad impegnarsi a costruire ambienti accoglienti, lavorare sul clima interno, dare opportunità di crescita e di sviluppo personale. Comprendere anche le esigenze personali. Oggi le aziende hanno sempre più bisogno di collaboratori maturi, capaci, ingaggiati e proattivi. Caratteristiche queste che non si comprano sul mercato ma che si possono costruire. Il contratto psicologico è l’elemento basico su cui innestare un rapporto di qualità e di reciprocità perché esprime la volontà di partnership vera di entrambi. Qualcuno, prima o poi, troverà anche le parole giuste e riuscirà a proporlo per iscritto mandando definitivamente in soffitta quelle lettere prestampate uguali per tutti ricchi di riferimenti normativi e contrattuali ma povere di maturità, coinvolgimento e passione.

Lontano è vicino…

Essere genitori oggi è un po’ più difficile del solito. È domenica e siamo seduti a tavola. I telegiornali trasmettono in continuazione notizie e immagini da Bruxelles. Ci sembra tutto esagerato. Non sappiamo nulla. Solo che nostra figlia è là. Ad ogni squillo di cellulare o ad ogni sms qualcuno scatta in piedi. Subito dopo. Con una scusa qualsiasi parte una telefonata per rassicurarci e rassicurare. Vedere in una camera ardente una ragazza che ha l’età di tua figlia fa riflettere. Sentire i discorsi che accompagnano questa tragedia mette ansia. Mi colpisce anche il giornalista che cammina per le strade deserte della città che ha più o meno la stessa età. Oggi sembra che lavorino solo loro. I precari, i giovani sherpa, i militari. Forse anche i giovani terroristi. Ascolto distrattamente e con fastidio gli interventi di statisti e politici che mostrano i muscoli tra di loro o che minacciano probabili sfracelli. Mia figlia mi rassicura. Resterà chiusa in casa. E domani? Domani Bruxelles smette i panni sonnolenti e rallentati del week end e riprecipiterà nella sua quotidianità di capitale europea. Zeppa di tutto. Razze, popoli colori. Chi può fermarla? Oggi parlano di cinture esplosive che girano indisturbate, gas pronti ad essere usati, antidoti che vengono immagazzinati per rischi prossimi venturi. Ieri sera, ad una certa ora, il comitato di crisi di Bruxelles su Twitter si è fermato per fine turno. Basta notizie. Ci sentiamo domani mattina, era il messaggio. Anche la burocrazia quando non è opprimente rischia a volte il ridicolo. Ragazzoni armati che girano mascherati con tanto di armi cariche e pronte all’uso e Twitter che rimanda al giorno dopo ogni informazione con la rete. È anche questo il segnale di come non sappiamo affrontare  la situazione. Troppi esperti, professori del cinismo e della strategia antiterroristica che ci spiegano, sempre dopo, cosa non è stato fatto prima. Teorici della chiacchiera che riempiono gli studi televisivi. Gaber nel suo bellissimo pezzo “c’è un’aria” descrive questa incapacità di rappresentare il dolore e la speranza. Ma noi siamo qui. Tra un inno nazionale e la retorica del “non vinceranno mai”. Riflettere, bisogna riflettere. È questo il mondo che vogliamo? E stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per costruire un mondo diverso? Io credo di no. I nostri ragazzi che decidono di vivere altrove per realizzare i loro desideri meriterebbero di più. Meriterebbero un Paese che pensi a loro non solo quando, purtroppo, cadono vittime di una tragedia. Mia figlia non vuole tornare. Vuole poter restare là per imparare, crescere come donna e come cittadina di una nuova Europa. Non odia nessuno e i suoi amici vivono in ogni parte del mondo. Chiede solo a noi adulti di abbandonare la retorica del giorno dopo e di credere di più in un futuro possibile. Se così fosse forse oggi sarebbe una delle tante domeniche serene riempite da un collegamento Skype e dall’orgoglio di genitori convinti della scelta della propria figlia. Senza ansie, timori e paure che un ragazzo della sua età o poco più possa incontrarla e, senza nemmeno conoscerla, distruggerne i sogni.