Lettera di assunzione o lettera di “ingaggio”?

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Dopo tanti anni ho deciso di mettere mano al mio archivio personale. In fondo al cassetto della scrivania ho ritrovato una vecchia cartellina scolorita contenente la lettera di assunzione e i fogli paga del mio primo anno di lavoro. Non so bene perché sono finiti lì. Qualche appunto, uno scontrino di “Feltrinelli” e una vecchia agenda tascabile dell’epoca completavano i “reperti” ritrovati. Beh! Un po’ di nostalgia è immediatamente venuta in superficie non tanto perché sono passati molti anni ma perché ho cercato di ricordare quei giorni. Il colloquio , il primo giorno di lavoro, i colleghi e, appunto, la prima busta paga. Il “profumo” dei primi contanti nuovi di banca posseduti dopo un mese di lavoro. Nuovi, sudati e pronti da spendere. Ricordo la sensazione perché non avevo mai avuto, fino ad allora, tanti soldi in mano. In quell’azienda allora non si usavano ancora gli assegni o l’immediato versamento in un conto corrente. Era una busta robusta. Confesso che li ho contati; uno per uno sulla scrivania tra l’ilarità dei colleghi. Lo facevano anche loro, ovviamente, però senza farsi vedere. Non ho mai capito perché lo stipendio contrattuale e quindi il contenuto della busta paga non si deve mostrare. Non si fa e basta. Ricordo lucidamente come li ho spesi: ho comprato una borsa alla mia fidanzata, alcuni libri alla Feltrinelli e poco altro. All’atto pratico non erano granché. Ricordo solo che, quella sera, mia madre mi fece una lunga predica sul denaro, sulla sua fatica a guadagnarne a sufficienza per mantenerci decorosamente e sullo spreco. Capii immediatamente cosa avrei dovuto fare dal mese successivo. La lettera di assunzione era scritta in un linguaggio incomprensibile per un giovane. Rileggendola oggi, dopo tanti anni da Direttore Risorse Umane e quindi come estensore di lettere più o meno analoghe, la trovo ancora un pezzo di letteratura assolutamente incomprensibile. Devo ammettere che non si è fatta moltissima strada da allora. I diritti (solo minimo tabellare, mansione e livello di inquadramento) sovrastati dai doveri e dai riferimenti disciplinari. Molto più chiaro cosa non avrei dovuto fare rispetto a ciò che si aspettavano da me. La cosa che colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento a “come” avrei dovuto lavorare. C’era solo il “quanto”, il “quando” e il “cosa”. Il piccolo particolare è che il superamento del periodo di prova, il giudizio su di me da parte del mio responsabile, in altri termini, il mio futuro prossimo sarebbero dipesi da un elemento che nella lettera di assunzione non era minimamente menzionato. Il “come” era, quindi, solo un mio problema. Perché il “come” loro era altro: avrei dovuto ubbidire al capo, rispettare i miei colleghi, rispondere alle richieste e “timbrare il cartellino” in orario. E tutto sarebbe filato liscio. In altre parole ciò che era ed è molto importante fuori dall’azienda, soprattutto a quell’età, e cioè chi sei veramente e cosa potresti dare in più rispetto ad un altro, lì, non sarebbe interessato a nessuno. I miei interessi, la mia passione, la qualità del mio impegno sarebbero stati solo un problema mio. L’importante era fare ciò che “loro” si aspettavano da me. Fare le cose in modo giusto. Non necessariamente la cosa giusta. È stata la prima lezione di vita professionale. Fortunatamente le opportunità hanno disegnato altre traiettorie che mi hanno consentito di non perdere nulla delle mie capacità, della curiosità e della disponibilità a mettere in circolo passione e qualità dell’impegno. Sempre, però, a modo mio. Non è stato così per tutti. E pensare di pretendere oggi che ad intere generazioni professionali si possa esigere un comportamento opposto a quello preteso fino a pochi anni fa, pena dichiararne l’obsolescenza, è veramente una dimostrazione di superficialità umana e sociale. Ciascuno di noi, a suo modo, costruisce con l’impresa nella quale lavora in modo implicito un “contratto psicologico” che va oltre ciò che l’impianto giuslavoristico assicura. Ogni giorno diamo anche ciò che potremmo non dare. Ci restiamo male se non viene apprezzato e valorizzato dal capo o dai colleghi ma continuiamo a farlo perché fa parte del nostro DNA. Una commessa che al supermercato aiuta la persona anziana a trovare un prodotto anziché dirle: ” È là sullo scaffale in fondo!”, un impiegato pubblico che comprende le difficoltà di un lavoratore straniero e lo aiuta a compilare un modulo, un collega anziano che si accorge di un errore o di una mancanza di un collega più giovane e lo avvisa. Alcuni la chiamano la capacità di “unire i puntini”. Cioè saper mettere a disposizione dell’organizzazione il proprio contributo personale. Non è l’impegno, la presenza né la velocità a fare ciò che viene richiesto. È un altro tipo di sensibilità e di capacità che oggi fa la differenza. Sono mille i comportamenti che dimostrano che le aziende sono migliori e più performanti laddove le persone si sentono parte di un progetto, coinvolte, ingaggiate e non anonimi e insignificanti. Chi si occupa di sviluppo delle risorse umane oggi ha un compito importante. Finita la stagione dove “l’ossessione sui costi” esauriva tutto l’impegno delle direzioni del personale occorre veramente ritornare ad impegnarsi a costruire ambienti accoglienti, lavorare sul clima interno, dare opportunità di crescita e di sviluppo personale. Comprendere anche le esigenze personali. Oggi le aziende hanno sempre più bisogno di collaboratori maturi, capaci, ingaggiati e proattivi. Caratteristiche queste che non si comprano sul mercato ma che si possono costruire. Il contratto psicologico è l’elemento basico su cui innestare un rapporto di qualità e di reciprocità perché esprime la volontà di partnership vera di entrambi. Qualcuno, prima o poi, troverà anche le parole giuste e riuscirà a proporlo per iscritto mandando definitivamente in soffitta quelle lettere prestampate uguali per tutti ricchi di riferimenti normativi e contrattuali ma povere di maturità, coinvolgimento e passione.

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