Foodora: lo sciopero “non” sciopero nell’era del lavoro “non” lavoro…

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La notizia ha fatto un certo scalpore. I bikers di Foodora a Torino si sono fermati, non hanno consegnato più i pasti e hanno invitato i clienti a non comprare in segno di solidarietà nei loro confronti.

Le reazioni sono state interessanti. Da un lato i “modernisti” corsi immediatamente a spaccare il capello in quattro per separare l’evoluzione di un’offerta commerciale dagli inevitabili effetti collaterali. Dall’altro i “tradizionalisti” impegnati a inserire la vicenda Foodora in un normale caso di sfruttamento e quindi da stigmatizzare per quello che è. In mezzo l’azienda e i ragazzi coinvolti che si sono trovati improvvisamente in un “gioco” più grande di loro.

Un gioco di cui è facile prevederne la fine. L’azienda, oggi è rigida e indisponibile al confronto. Ha provveduto a comunicare ai singoli alcuni interventi correttivi ma, non avendo alcuna conoscenza del contesto italiano, si avviterà in decisioni opinabili che ne caratterizzeranno l’immagine per lungo tempo.

E questo anche se, più avanti, le verrà suggerito di abbozzare, almeno per un po’ e trovare una soluzione. I bikers coinvolti, troveranno un accordo transattivo. Il rischio vero è che tutto tenderà a riassorbirsi in un nulla di fatto fino alla prossima puntata. In questa o in un’altra realtà della gig economy.

Per il momento, l’opinione pubblica giovanile e il ministro del lavoro Poletti hanno espresso la loro solidarietà ai bikers e si sono messi in moto gli ispettori del lavoro. Come nel caso di airbnb e di altri casi non dovrebbe essere sufficiente un simpatico nome inglese che significa “l’economia dei lavoretti” per eludere regole chiare e semplici. Dietro a tutto questo, non ci sono novelli Steve Jobs nostrani o spezzoni di classe media in cerca di facili guadagni più o meno regolari..

Ci sono multinazionali vere e proprie che muovono miliardi. Questa non è affatto sharing economy ma shadow economy. È il sommerso legalizzato di cui in Italia siamo maestri da sempre. È lavoro nero o, per dirla in inglese, black market…

Mi ricordo che a Ragusa qualche anno fa stavo procedendo con le selezioni per l’apertura di un centro commerciale. I ragazzi, diciottenni o poco più, che si presentavano al colloquio di assunzione mi domandavano se la retribuzione proposta fosse con o senza assicurazione.

All’inizio non capivo cosa fosse questa benedetta assicurazione poi mi hanno spiegato che era assolutamente normale chiedere, in fase di assunzione, se questa fosse con o senza i contributi INPS. Quello che mi colpì fu la normalità della richiesta e la rassegnazione convinta dei richiedenti. Non tanto l’enormità della domanda. Soprattutto quando mi accorsi che ero l’unico, sul posto, a stupirmi.

Accorgermi oggi che non è cambiato nulla o quasi che anziché utilizzare il dialetto, si usa l’inglese perché fa più figo, è inaccettabile. Ma non serve indignarsi. Servono regole. “Stesso mercato, stesse regole” mi sembra uno slogan condivisibile.

Vale per le attività delle finte “Bettine” di arbnb che gestiscono migliaia di appartamenti, deve valere anche per il riconoscimento del lavoro e delle attività economiche di qualsiasi genere. Certo non è pensabile l’applicazione tour court di contratti costruiti per ben altre situazioni ma occorre costruire qualcosa di serio.

Forse nel caso dei bikers saltuari occorrerebbe promuovere formule nuove, anche mutuandole da modelli cooperativi. Non credo corretto attendersi solo dalle organizzazioni sindacali soluzioni perseguibili. I sindacati possono intervenire se i lavoratori coinvolti danno loro un mandato a negoziare.

Nel caso di Foodora non c’è nulla di tutto questo. Anzi, non si può neppure parlare di sciopero. Al massimo di non lavoro di alcuni mentre altri continuano a rispondere senza alcun problema alle chiamate.

C’è un rapporto individuale, saltuario gestito a volte tramite sms che può coinvolgere questi o altri bikers per una o più consegne. L’INPS, il Ministero del lavoro tramite i suoi ispettorati devono accertare la natura dell’attività e la qualità del rapporto.

Esperienze analoghe sono presenti in Francia e in Germania e quindi non dovrebbe essere difficile mutuare elementi e indicazioni per costruire punti di riferimento utili. L’unica cosa che non si può fare è lasciare che le cose si aggiustino da sole.

Né nel caso di airbnb né nel caso di Foodora. Né in nessun altro caso. Lasciar fare non è indice di modernità. Semmai di incapacità ad affrontare ciò che è nuovo o si presenta in modo diverso dal passato.

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