Fragole e sangue…

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Fragole e sangue. È il titolo italiano di un vecchio e famoso film americano degli anni 70. L’originale (meno cruento ma significativo) era “The Strawberry Statement”, cioè “La dichiarazione delle fragole”, dove le fragole erano gli studenti in rivolta nelle università. Prendeva spunto da una affermazione di un rettore americano che, infastidito dalle domande dei giornalisti sulle rivendicazioni degli studenti rispose: “Non mi preoccupo degli studenti più di quanto mi preoccupo delle fragole”.

Mutatis mutandis sembra essere stato lo stesso sentimento che ha animato l’attività del titolare della StraBerry, una startup da 7, 5 milioni di euro, nei confronti dei propri collaboratori. Siamo alle porte di Milano e sul banco degli imputati questa volta non c’è finito il “solito” discount brutto e cattivo ma, loro malgrado, rischiano di finirci altre insegne note per la loro attenzione alla filiera a monte e per il rispetto dei lavoratori occupati. E senza alcuna responsabilità. 

La stessa Coldiretti nel 2014 aveva conferito l’«Oscar Green» al titolare, come «un esempio riuscito di agricoltura che valorizza il territorio nel segno dell’ecosostenibilità». Nel 2015  addirittura il riconoscimento di produttore di qualità ambientale del Parco Agricolo Sud Milano, per l’impegno a favore dell’ambiente, del territorio e del paesaggio. Nemmeno una parola sui lavoratori. Nessuno  se ne è interessato. Eppure vivevano già una preoccupante precarietà.

Secondo la Guardia di Finanza si tratta di un business che ha prosperato proprio sullo sfruttamento della manodopera. Il Sole 24 ore scrive:”Gli accertamenti svolti anche attraverso numerose testimonianze raccolte dai militari hanno permesso di rilevare «anomalie nelle procedure di assunzione e di retribuzione dei lavoratori dipendenti dell’azienda nonché evidenziato gravi violazioni delle norme che regolano l’impiego dei braccianti agricoli».

In particolare, i lavoratori non solo sarebbero stati obbligati a prestare estenuanti turni di oltre 9 ore giornaliere, ricevendo una paga oraria di 4,50 euro, nettamente inferiore a quella minima prevista dal contratto collettivo nazionale (che si aggira intorno ai 7,20 euro e gli otto euro). Alla ingiusta retribuzione si aggiungevano – sempre secondo gli inquirenti – degradanti condizioni d’impiego nei campi: i braccianti, infatti, «soggetti alla continua vigilanza dei responsabili, erano costretti a sforzi fisici oltremodo gravosi, tesi a velocizzare la raccolta dei frutti e in spregio alle norme anti Covid-19 sul distanziamento sociale».

Oltre due ettari vicino a Cassina de’ Pecchi, a pochi chilometri dal centro di Milano,  serre fotovoltaiche per coltivare circa 200 mila piantine di fragole, seimila lamponi, mirtilli e fragoline e di bosco. Un fatturato di oltre 1 milione e mezzo di euro negli ultimi anni. 80 dipendenti circa che potevano arrivare fino a 300 nei momenti di picco.

E, questa volta, nessuno può scaricare a valle responsabilità precise.

Un primo elemento di riflessione per chi cerca facili scorciatoie per soprassedere sulle proprie responsabilità. Lo sfruttamento del lavoro non è quindi una semplice conseguenza dell’ingordigia di chi sta a valle della filiera.

È un approccio, questo, tipico di chi considera il lavoro una merce che va retribuita il meno possibile. Un costo da comprimere sempre e comunque. La colpa generalmente data alla Grande Distribuzione, prendendo a pretesto le vituperate  aste al ribasso,  è spesso un tentativo maldestro per salvaguardare l’immagine di un’intera categoria senza accettare l’idea che le responsabilità, se accertate,  sono sempre e comunque individuali. Lo sfruttamento nel primario è un fenomeno che prescinde altrui responsabilità e andrebbe stigmatizzato per quello che è.

C’è poi un’area di illegalità da perseguire che è purtroppo penetrata nella cosiddetta gig economy che va altrettanto estirpata. Così come nelle finte cooperative e nella logistica. O attraverso i contratti pirata che creano una concorrenza sleale tra le imprese. Ma un conto è perseguire l’illegalità, un’altro è colpevolizzare strumentalmente una categoria intera.

Nel caso in oggetto lo sfruttamento è potuto accadere sotto gli occhi delle istituzioni, del sindacato di categoria e di quelli, pur vigili, di insegne importanti della GDO probabilmente ammaliate da un brand giovane, estroverso  e apparentemente moderno. E grazie al silenzio per lungo tempo dei lavoratori. Giovani istruiti, non solo stranieri sotto ricatto. Figuriamoci cosa può accadere dove i controlli sono ancora più laschi.

Il fenomeno dello sfruttamento del lavoro è talmente diffuso che richiama ad un’azione congiunta di collaborazione l’intera filiera, di denuncia da parte dei sindacati e di repressione del fenomeno che va ben al di là delle reprimende fuori luogo e dei luoghi comuni. Inutile chiamarsi fuori appellandosi a disciplinari, protocolli e rispetto formale delle disposizioni. Tutto purtroppo è aggirabile.

E il fatto che tutto ciò non sia avvenuto in luoghi lontani e nascosti ma alle porte di Milano e sotto gli occhi di tutti deve farci riflettere sul degrado in cui rischia di precipitare una parte del mondo del lavoro. Il rispetto dei contratti, della dignità delle persone e del loro lavoro rappresentano un punto di partenza ineludibile per chiunque.

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