Grande Distribuzione e lavoro. Il contratto nazionale che non c’è.

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Come ho scritto a suo tempo (https://bit.ly/3HE2vV1) la firma del “protocollo straordinario di settore” di dicembre (https://bit.ly/3j0lD5r) è stato un fatto positivo. Rimettere intorno ad un tavolo comune (per i contenuti concordati) le diverse associazioni (Confcommercio, Federdistribuzione, Confesercenti e Coop) per confrontarsi con il sindacato di categoria sull’esigenza di arrivare nel 2023 alla firma dei rispettivi CCNL è stato un buon passo in avanti per una vicenda che rischiava di trascinarsi nel nulla cosmico per responsabilità dell’intera rappresentanza datoriale.

Certo le incertezze del  contesto e delle prospettive economiche non hanno incentivato il confronto ma qui c’è dell’altro. Innanzitutto la paura delle diverse associazioni del dumping salariale altrui utilizzato per difendere/incrementare la base associativa. Essere titolari di un contratto nazionale conferisce uno standing ambito. Definisce il perimetro rappresentato. Riuscire poi ad ottenere dalla stessa controparte sindacale uno “sconto” sul costo complessivo, definito da altri, convince i propri associati di essere meglio tutelati dalla propria associazione che da altre sigle. Salvo sottovalutare che, al rinnovo successivo (e oggi siamo qui) lo sconto ottenuto da alcuni toglie credibilità a chi lo ha concesso e insinua un clima di sfiducia complessiva sulla capacità  di sottoscrivere e mantenere i patti.

Un errore da matita blu che ne ha innescato un altro altrettanto pernicioso. Alcune imprese, visto la facilità con cui le associazioni principali si scavalcavano l’un l’altra con il beneplacito dei sindacati di categoria e sollecitate dai propri consulenti del lavoro, sono andate ben oltre azzerando i vecchi contratti in essere e modellandosene di nuovi a livello locale sulla propria struttura  organizzativa in modo assolutamente legittimo. Superare questa situazione non sarà facile. Il protocollo di dicembre ne ha rappresentato, però, un primo passo.

Recuperato per quanto possibile un clima di confronto costruttivo nei prossimi appuntamenti sarà necessario entrare nel merito. E qui casca l’asino. Da parte datoriale Confcommercio e Confesercenti, essendo confederazioni,  hanno una competenza tecnica in grado di affrontarne i contenuti per la dimensione politica che li alimenta e ne neutralizza in parte gli effetti concreti più indesiderati presenti in tutti i contratti. Federdistribuzione, no. La “base” delle due confederazioni  sono funzionari associativi esperti e allineati mentre Federdistribuzione ha, come interlocutori diretti, le imprese che notoriamente misurano i risultati rispetto al loro perimetro e alle loro specifiche esigenze. Una differenza non da poco…

La GDO ha ottimi direttori risorse umane in molte realtà ma non è in grado di costruire autonomamente uno strumento che sappia andare oltre le esigenze delle singole imprese anche perché non può pretendere una sostanziale “resa” formale del sindacato di categoria che rischierebbe di innescare di nuovo un problema di competitività con le altre organizzazioni datoriali e/o di livelli di accettazione differenti tra le stesse sigle sindacali. “Facile” è stato chiedere uno sconto su risultati altrui come è accaduto nell’ultimo rinnovo, difficile è destrutturare un CCNL scritto da altri, ridefinire contenuti e costi in grado di accontentare una platea di imprese uguali sulla carta ma così diverse nei loro modelli gestionali e organizzativi. Troppo forte la differenza tra realtà che subiscono ancora il peso di alcune parti di quel testo per certi versi obsoleto e altre che lo hanno bypassato da tempo nella gestione quotidiana.

Nel merito.  La partita salariale che si aprirà presenta due problematiche antagoniste quanto  ineludibili. Sul versante sindacale l’inflazione a dicembre 2022 su dicembre 2021 mostra che  per le famiglie meno abbienti (che costituiscono una parte importante della categoria per gli effetti, ad esempio,  di categorie medio basse o del part-time involontario)  l’effetto sul paniere considerato può arrivare a pesare fino al 17,5% contro una media dell’11,6% che è quella presa a riferimento dalle statistiche ufficiali. Seppure l’inflazione è prevista in diminuzione questo non potrà non essere un elemento importante di condizionamento del negoziato per le OOSS.

Anche sul fronte datoriale le preoccupazioni non mancano. Come ho già scritto il cuneo fiscale e retributivo pesa e si riverbera sugli eventuali aumenti concessi. Su ogni ora lavorata gravano i costi di alcuni “istituti” contrattuali, come la 13esima e 14esima mensilità, il TFR (in pratica, una mensilità), le ferie e festività (in media più di una mensilità), cui vanno aggiunti i costi per l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa, al fondo pensione, i permessi retribuiti e altre agevolazioni. Gli effetti di trascinamento spingono gli aumenti richiesti  ad un costo azienda che, in mancanza di correzioni negoziali tra le parti e/o interventi del Governo, rende difficile ipotizzare  erogazioni adeguate. È il classico cane che si morde la coda. E, purtroppo, hanno ragione entrambi.

E le eventuali compensazioni negoziabili  in termini di aumenti di produttività non sono facili da individuare se lo schema contrattuale resta quello costruito nel secolo scorso. Solo ribaltandone la logica si riuscirebbe a costruire un CCNL proiettato al futuro e quindi in grado di essere interessante  per entrambe le parti.

Questa strada imporrebbe però scelte chiare sul salario (sia provando a scomporre, oltre a ciò che incide direttamente e indirettamente sui costi,  il recupero inflativo dal salario professionale e destinandone  una parte ad obiettivi e/o legandoli agli andamenti aziendali), sull’inquadramento (snellendolo, aggiornando  le declaratorie e legando i percorsi professionali al merito e non all’anzianità o al modello unico di crescita continua previsto dall’altrettanto obsoleto codice civile) sul welfare (rendendo obbligatorio il contributo su formazione (accedendo all’idea che la formazione sia un diritto individuale), sanità e previdenza). E infine su una flessibilità organizzativa costruita sulle esigenze del cliente e non solo sul rapporto di lavoro in grado di andare oltre anche alle vecchie diatribe su lavoro festivo.

Per fare questo non servono 4 contratti in concorrenza tra di loro ma un CCNL ombrello (o condiviso) che crei la massa critica necessaria sul welfare e definisca un perimetro applicativo comune e poi nel merito salvi le specificità e il ruolo negoziale dei diversi soggetti coinvolti. Qui sta la differenza tra una soluzione transitoria (ovviamente possibile) che sposti il problema più in avanti in un infinito gioco di rammendo dell’esistente o la presa d’atto che la riorganizzazione e l’innovazione dei comparti coinvolti non si può fare con uno strumento che risale alla metà del novecento.

Respingere (a parole) i cosiddetti “contratti pirata”, il salario minimo che incombe e rifiutando  la certificazione della rispettiva rappresentatività senza “capire il nuovo e guidare il cambiamento” porta le parti sociali nel comparto in una situazione di stallo dagli esiti scontati in termini di credibilità, qualità della rappresentanza, visione del futuro e apre la strada ad un “fai da te contrattuale” destinato  ad aumentare la confusione e il dumping tra imprese (e sindacati).  

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