Grande distribuzione. È necessario riprendere il confronto tra Federdistribuzione e il sindacato di categoria.

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Com’era prevedibile non è stato e non sarà  certo il ricorso ad uno o più scioperi a sbloccare questa vertenza. L’adesione, sparate sulle partecipazioni  a parte,  è stata complessivamente contenuta, tra l’8 e il 9% dei lavoratori delle aziende associate secondo Federdistribuzione.  I disagi nei punti vendita sono stati limitati e a “macchia di leopardo” e non si sono registrate difficoltà per gli acquisti. Sono ovviamente dati di parte ma bastava fare un giro per Milano per rendersi conto che la realtà era sostanzialmente quella. I punti vendita alimentari erano zeppi di clienti per gli acquisti di Pasqua. Così come gli altri ventimila punti vendita associati e distribuiti sul territorio food e non food.

Ma non è solo una fotografia limitata alla  Grande Distribuzione. Saranno almeno tre tornate contrattuali (almeno quindici anni) in tutti i  settori economici i cui risultati non sono stati determinati dai rapporti di forza messi in campo ma grazie alla volontà di chiudere emersa dai rispettivi contendenti.  D’altra parte se il recente  rinnovo di Confcommercio, Confesercenti ma anche di Coop è avvenuto dopo ben 5 anni dalla scadenza e senza ricorso a scioperi o scontri particolari  è evidente che il clima, anche nel comparto, non è favorevole agli slogan d’antan, alle parole d’ordine fuori misura, ai flash mob. Le caricature eccessive delle posizioni della controparte lasciano il tempo che trovano.

L’auspicio di Federdistribuzione è che “le organizzazioni sindacali possano tornare quanto prima al tavolo negoziale, con l’obiettivo comune di giungere al rinnovo contrattuale, e riconoscano la specificità delle imprese del settore distributivo moderno”. La guerra delle partecipazioni  serve ad eccitare i militanti più stretti. Non a sbloccare lo stallo quando è determinato da reciproche convinzioni sui contenuti. La lunga stagione dei contratti nazionali ci consente, già oggi, alcuni elementi di riflessione. Al di là delle scadenze e dei ritardi, dall’ultima firma sono passati almeno otto anni. E, per molti argomenti normativi, comportamentali  e relativi all’inquadramento professionale, i testi a suo tempo concordati risalivano addirittura a parecchi anni prima. Luoghi, contesti concorrenziali,  e modelli  organizzativi molto diversi da oggi.

Allora sui banconi all’entrata dei PDV decine di CV lasciati nella speranza di trovare un lavoro, i grandi formati ancora con il vento in poppa, le possibilità di carriera veramente alla portata di tutti. I ruoli professionali chiari e scolpiti nella pietra. Nel 2015 il mazzo di carte, nella GDO, era ancora saldamente in mano a Confcommercio. Federdistribuzione “sognava” il suo CCNL che sarebbe arrivato solo il 19 dicembre 2018, come una sostanziale fotocopia di quello di Confcommercio. Un semplice  “sconto“ sul piano del costo economico che ha trascinato risentimenti associativi  non ancora sopiti.

L’ingenuità di  Confcommercio, oggi,  di pretendere dal sindacato, non un accordo  riservato tra persone serie, ma una dichiarazione formale e scritta nel recente testo siglato  (art. 258) che eviti future forme di dumping è lì a dimostrarlo. Un segno di debolezza che mostra la fragilità politica di chi l’ha pretesa. Un autogol che, pur non essendo nelle intenzioni,  potrebbe contribuire a tenere aperta sine die altri tavoli contrattuali avendo “regalato”, dimensione delle tranche e scadenze e lasciando mano libera sul resto (che rappresenta comunque un costo contrattuale).

Quanto concordato in quegli anni era caratterizzato da una precisa logica di scambio. Già allora nessun contratto di lavoro di nessun comparto economico era caratterizzato da uno  scontro antagonista sui contenuti.  La natura di quei testi era essenzialmente “restitutiva”. Segnalava cioè la volontà delle imprese, di “pretendere” un equilibrio complessivo sul versante dei costi o della produttività che accompagnava le concessioni salariali. Un “do ut des” molto chiaro.

In questi anni di latenza di iniziativa sindacale molte cose sono cambiate. L’entusiasmo per quella tipologia di lavoro si è sopito, i formati si sono sgonfiati e si sono affermati modelli organizzativi molto più ridotti e flessibili. Le aziende, in grande parte, hanno messo di fatto da parte il libretto del contratto nazionale e hanno impostato le loro politiche di gestione del personale. Alcune in pejus, vedi i franchisee più sgarrupati e alcune piccole insegne locali, soprattutto al sud. Vedi nei sub appalti. vedi la gestione “garibaldina” di molti piccoli e medi imprenditori locali dediti al “voglio posso e comando” tipici di certi contesti lavorativi. L’inquadramento professionale è stato stravolto così come la gestione del lavoro straordinario che è pressoché scomparso dalle buste paga ma non dalle ore effettivamente prestate, il part time involontario oltre ad essere una scelta organizzativa precisa è diventato un elemento di giudizio e selezione del personale, le gerarchie di filiale, schiacciate verso il basso, hanno  indotto una ridefinizione di ruoli e competenze.

Contemporaneamente si  sono consolidati percorsi di riconoscimento e di carriera interna in molte realtà, la formazione aziendale è decollata, la gestione dei collaboratori pur prendendo strade diverse dal disposto contrattuale si sono affermate un po’ ovunque. Il clima è cambiato in positivo in molte realtà. Il vecchio modello legato rigidamente al rispetto letterale del CCNL è rimasto praticamente solo in Coop e poco più. Il contenzioso giudiziale che segnala il livello di risoluzione delle controversie fuori dalla negoziazione è crollato ai minimi termini formalizzando la distanza dalle norme prescrittive del testo contrattuale diventate lettera morta. Addirittura  poco conosciute dagli stessi lavoratori. I rinnovi avrebbero dovuto partire da qui in modo laico per poter costruire le nuove regole, insieme. Soprattutto guardando al futuro e non alla volontà di stravolgere i diritti acquisiti. Operazione formalmente complessa come ha dimostrato la recente vicenda UNES. E questo, fino ad ora,  non è stato possibile.

Confcommercio come titolare di un CCNL confederale si è limitata a definire, insieme a Confesercenti,  il pur importante punto di caduta economico che ad altri sarebbe stato precluso.  Oltre non è andata. Ha rinunciato alla leadership politica sull’innovazione dei contenuti fin da subito limitandosi a difendere il perimetro del welfare eroso anch’esso dall’inflazione. L’effetto “firma” dopo cinque anni di attesa è stato praticamente ignorato dai media. Al di là dell’importante aspetto economico il resto delle sessanta pagine non verrà certo ricordato per la sua carica innovativa. La cooperazione che partiva da un contesto di riconoscimento reciproco con i sindacati di categoria ha fatto, al contrario,  diversi e importanti passi avanti sulla normativa. E, dove non c’è riuscita, si è “inventata” con lungimiranza una futura commissione ad hoc. Resta per ora al palo Federdistribuzione.

La “rottura” segnala la volontà di quest’ultima di non accettare una semplice fotocopia di altri negoziati. I sindacati sostengono di averci provato ad ascoltare le ragioni della controparte ma di averle ritenute “irricevibili”. Quasi provocatorie dopo tutto questo tempo. La “distintività” pretesa da Federdistribuzione avrebbe, secondo loro, conseguenze devastanti sull’inquadramento e confermerebbe un’idea di precarietà del lavoro che, al contrario, andrebbe ridimensionata. Posizioni quindi che sembrerebbero difficili da conciliare. C’è però un elemento che io non sottovaluterei. La partita economica è comunque chiusa anche per Federdistribuzione. Le tranche sono quelle decise altrove. La stessa Federdistribuzione non ne contesta la congruità. Anzi.

La concessione di un anticipo di pari importo (70 euro) del CCNL firmato da Confcommercio in anticipo sui futuri aumenti fa presagire una traiettoria evidente e difficile da contestare. E senza la leva economica le armi del sindacato sono decisamente   spuntate. La scelta di quest’ultimo di chiudere gli altri contratti  aperti lasciando, di fatto, sul tavolo solo la parte normativa e prescrittiva con Federdistribuzione potrebbe quindi trasformarsi in un boomerang che rischia di tenere aperta una vertenza, che sembrava chiusa, ancora per molto tempo. O trascinarsi addirittura fino alla prossima scadenza battendo così altri record di durata. Certo segnalerebbe pure l’incapacità cronica, per Federdistribuzione di chiudere il suo primo vero contratto da protagonista. Ma lo stallo, se si trasforma in risultato, non è  un’opzione negoziale. È una rinuncia al proprio ruolo. Io, più che perdere tempo nel stabilire le percentuali di responsabilità da assegnare ai litiganti, riaprirei un confronto di merito il più rapidamente possibile.  

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