Grande distribuzione. Mancano gli addetti, il rinnovo del CCNL non c’è ancora e manca una visione comune del futuro.

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Un tempo bastava osservare la quantità di CV che i giovani clienti (o i loro genitori)  lasciavano sul banco della regia del supermercato. O il passaparola tra gli specialisti. Poi si è passati all’interinale. Ragazzi che lasciavano presto la scuola, donne interessate a guadagnare qualcosa con un part time, esuberi delle diverse  ristrutturazioni di altre insegne o dell’industria foraggiavano il turn over o le aperture delle diverse aziende. Trovare personale non è mai stato un problema nella GDO. Tant’è che è aumentato sia il part time involontario che i tempi determinato. Quell’epoca si è però chiusa.

Aggiungo che in  Italia c’è sempre stata una certa ritrosia nella GDO nazionale verso lavoratori provenienti da altri Paesi pur essendo la norma altrove. Più per ignoranza, superficialità e scarso interesse delle insegne che per razzismo, da noi, la presenza di lavoratori stranieri nel punto vendita  è sempre stata vista anche da molti clienti con una certa diffidenza. ALDI, al contrario, dichiara con orgoglio la presenza nel gruppo  di 47 nazionalità differenti.  Così vale per LIDL o Carrefour. La forte ripresa economica  post lockdown ha poi dirottato ulteriori risorse in altri comparti facendo emergere le peculiarità e i limiti di quei  settori, ristorazione e commercio innanzitutto, ma anche quello della GDO, che pur avendo retribuzioni in linea con altri comparti, presenta modelli organizzativi non più particolarmente attraenti per  giovani e meno giovani rispetto a qualche anno fa.

C’è chi cerca di gestire comunque il problema. Ad esempio Tosano nel triveneto aggiunge al CCNL vitto e alloggio per chi vive ad oltre 55 chilometri. 19 ipermercati, tutti in  gestione diretta, 4000 dipendenti. Una realtà di punta del Gruppo Vegè. Le difficoltà a trovare personale sono abbastanza diffuse sul territorio. Altri rimodulano l’orario o vengono incontro alle mutate esigenze delle persone. Qualcosa si muove. L’aspetto economico è solo uno dei problemi. Forse nemmeno il principale. C’è un problema di scarsa attrattività del modello di  prestazione richiesta,  un altro legato alla costruzione delle professionalità specifiche. Un altro ancora legato alla gestione delle risorse umane nei punti vendita. Tanto celebrate durante il lockdown per la loro abnegazione.  Su di loro, oggi, è però calato il silenzio.

Occorrerebbe guardare oltre al proprio naso e ragionare in termini di settore. Costruire con le regioni e i ministeri opportunità di lavoro rivolte anche  ad altri Paesi, strutturare, attraverso i fondi interprofessionali percorsi formativi specifici, garantire inserimenti dopo pur adeguati periodi di prova. In altre parole, passare dal lamento contro i giovani e il contesto cinico e baro ad una politica comune che contribuisca a neutralizzare il problema.

Il rinnovo del CCNL di categoria dovrebbe essere il luogo dove affrontare con lungimiranza il tema. Ipotizzare incentivi e favorire i flussi in modo da  governare il fenomeno. Purtroppo per la parte datoriale il rinnovo del CCNL è solo un problema di costo. Non di opportunità. Mentre per i sindacati è un semplice atto dovuto. Non una sfida da cogliere per reinventare uno strumento ormai obsoleto. In queste condizioni  gli incontri tra le numerose controparti e i sindacati di categoria continuano sostanzialmente improduttivi.

“Il 7 giugno  l’ISTAT ha pubblicato le stime IPCA (indice prezzi al consumo armonizzato) fondamentale come riferimento per la definizione degli aumenti  contrattuali destando non poca sorpresa tra le parti sociali. L’indice IPCA 2022 ha un valore più alto del previsto. “Dal 2009, sulla base di un accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, i contratti collettivi vengono rinnovati a partire da un indice previsionale costruito sulla base dell’IPCA, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (in gergo, Ipca-Nei). L’indice ha sostituito la famosa “inflazione programmata” che nel 1992 aveva rimpiazzato quel che restava della scala mobile e la sua elaborazione è demandata a un ente terzo (l’Isae prima e l’Istat poi), che dal 2009 pubblica, a giugno, una previsione per l’anno in corso più il triennio successivo e gli scostamenti tra realizzazione e previsione negli anni precedenti”. (da Andrea Garnero-La Voce https://bit.ly/3No7Fae).

Ovviamente il 6,6% di incremento per il 2022 e come base per i CCNL da rinnovare nel 2023 non è ciò che si aspettavano le imprese del comparto. Secondo Garnero “quello che molto probabilmente succederà in Italia è un ulteriore ritardo nel rinnovo dei contratti perché le parti datoriali rifiuteranno tout court di sedersi al tavolo se il punto di partenza per il 2023 è il 6,6 per cento. Secondo gli ultimi dati Istat, in aprile i lavoratori in attesa di rinnovo nei servizi privati erano già oltre il 75 per cento del totale, con una durata media di ritardo di 32 mesi”. I fatturati delle insegne non giustificherebbero però ulteriori ritardi su contratti scaduti nel 2019. Ma fermarsi ai fatturati del 2023 gonfiati dall’inflazione non sarebbe lungimirante nemmeno da parte dei sindacati visti gli anni di proiezione del nuovo CCNL.

L’aspetto economico è certamente il primo problema. C’è un CCNL scaduto e c’è un impegno a rinnovarlo che va onorato. Inutile girarci intorno. Tutte le parole spese sulla gestione delle risorse umane, i vari best place to work “agitati” dalle differenti insegne e tutto ciò che viene messo in campo sul tema dalle singole imprese sconta questo peccato originale. Il mancato rinnovo del contratto nazionale pesa come un macigno sulla credibilità del comparto. Mentre la difficoltà a trovare una sintesi tra interessi diversi pesa, al contrario,  sui rispettivi negoziatori il cui peso specifico è assolutamente insufficiente.

Questi ultimi non dovrebbero essere  dei semplici notai seduti al tavolo per ribadire ciascuno le reciproche posizioni. Il CCNL in rinnovo deve guardare ai prossimi anni. Non al passato. Ci sarebbero da sistemare buona parte degli articoli ormai superati dalla realtà  cogliendo le esigenze di produttività e welfare che accompagneranno il quadriennio che aspetta il settore. C’è da predisporsi a gestire i flussi migratori necessari alle imprese, c’è da riallineare un inquadramento ormai obsoleto.  E tarare gli aumenti in modo che l’effetto inflativo sia gestibile nei prossimi mesi, non aggravi i conti delle imprese e sia reversibile a seconda dell’andamento del contesto economico.

Le diverse associazioni dovrebbero superare le modeste gelosie che le hanno alimentate ben oltre la reale necessità di reciproca rappresentanza. Mettere le risorse umane  al centro non significa solo rinnovare il CCNL. Significa predisporre nel rinnovo nei contenuti dello stesso gli elementi che consentano sviluppo personale, il diritto alla formazione e consolidi un welfare previdenziale, sanitario e aperto alla gestione delle transizioni professionali almeno per i quadri come il recente contratto nazionale dei dirigenti del terziario ha disegnato. In altri termini puntare ad un equilibrio costi benefici simmetrico.

È chiaro che buona parte delle  insegne non credono più nello strumento in sé. Lo “subiscono” come fosse un generico quanto inutile riferimento legislativo. Una “tassa” sul lavoro. Gli stessi addetti (salvo in pochissime realtà) non ne conoscono i contenuti e non  ne rivendicano il rispetto. Molte  aziende hanno scelto di gestire in proprio le loro risorse umane. Chi meglio (non serve fare nomi) e chi non rendendosi conto che il cosiddetto “cliente interno” rischia, se insoddisfatto, di smontare la solita retorica dell’insegna che dichiara ciò che non è.

Anche il sindacato ha però le sue responsabilità.

La contrattazione aziendale è presente in una modesta minoranza di insegne. E quando c’è le richieste ripropongono vecchi schemi. Se al centro della sua iniziativa non metterà il futuro del comparto (produttività, formazione addetti, compartecipazione all’andamento reale del punto vendita) il declino orami in corso sarà inarrestabile. E la contrattazione alternativa (o pirata se lo si preferisce) che già smonta pezzo dopo pezzo il CCNL pur scaduto, prenderà il sopravvento ovunque. Ma tutto questo però non lo si  supera se prevalgono le  polemiche e gli interessi di bottega. Da una parte e dall’altra. 

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Una risposta a “Grande distribuzione. Mancano gli addetti, il rinnovo del CCNL non c’è ancora e manca una visione comune del futuro.”

  1. No.non sono d’accordo.
    Il sindacato debole e isolato da quelli che sono gli attori principali: i lavoratori.
    Le imprese? Fatturano quando possibile,e quando non vengono soddisfatte le aspettative di incremento ( n.b. non i guadagni,gli incrementi di guadagni) allora si mette mano a strumenti vari,sempre a discapito di CCNL e dei lavoratori, e risparmiando (spesso a insaputa delle proprietà), sulla salute e la sicurezza.

    Quindi il punto è…,è voluto o casuale tutto questo?

    La GDO,dati alla mano, nei tre anni di pandemia ha incrementato il fatturato in modo esponenziale…ma ai lavoratori con il contratto fermo,neanche il rinnovo è stato offerto.

    Erano gli eroi di secondo piano, perché il personale sanitario e le forze dell’ordine giustamente erano in prima linea.

    Ma se la sera,un panino al prosciutto o il detersivo per lavare mutande e camice, se non era per i supermercati….

    Ma non è la guerra tra i lavoratori…il punto è che è peggiorata la situazione da quando negli ultimi 10 anni,si è pensato bene di delegare a subalterni,la gestione del personale della GDO.

    E ancora oggi,attenti più ai premi di produttività,tanti “manager”, spingono i lavoratori sempre più frastornati,in lotta con l’inflazione, e la vita di tutti i giorni, a scegliere altri lavori.
    Quindi meno lavoratori, risultati da raggiungere,orari assurdi,via domeniche festivi e CCNL interpretato a piacimento…morale…se ne vanno i lavoratori.

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