I lavoratori ex Almaviva tra passato e futuro.

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Che il caso Almaviva si concluda positivamente dovrebbe essere obiettivo e interesse di tutti. Resta sul tavolo un equivoco di fondo percepibile dalle interviste sul campo e da non alimentare assolutamente.

L’idea cioè che possa trovarsi, per tutti, un lavoro analogo al precedente in termini di sicurezza, durata e tipologia. Sicurezza, durata e tipologia peraltro già venuti meno a causa del licenziamento.

Ribadire, come fa qualcuno sul territorio, che il mercato del lavoro locale non sarà in grado di assorbire le persone con contratti stabili non solo è inutile ma rischia di essere controproducente. Non aiuta la soluzione ma, addirittura, la complica perché spinge i lavoratori a rifiutare qualsiasi proposta.

Lo status del lavoratore ex Almaviva è quello di un disoccupato che rischia di perdere la NASPI tra pochi mesi quindi la sua possibilità di scelta è tra un lavoro accettabile o disoccupazione certa.

E l’accettabilità di un lavoro deve essere definita non in astratto (come spesso fanno gli accordi sindacali) ma in relazione al mercato del lavoro su cui si intende operare uno scouting efficace. Se esistono oggettive difficoltà di inserimento o si amplia il territorio di ricerca o si percorrono le soluzioni possibili.

Non si risponde alle difficoltà facendo intendere, tra le righe, che la NASPI, in determinati contesti, dovrebbe durare oltre il lecito. Aggiungo che non c’è cosa peggiore che “marcare” questi lavoratori, agli occhi delle imprese del territorio scelto, come reticenti all’impiego perché questo li renderebbe veramente non collocabili. Chiunque abbia vissuto il caso UNIDAL o il caso Alfa Romeo a Milano può immaginare a cosa mi riferisco.

Parlare di “calvario dei colloqui” o di precarietà delle soluzioni proposte come ha fatto il titolista di “Repubblica” è un errore. Illude i protagonisti di essere comunque in credito ma raffredda e allontana chi potrebbe offrire soluzioni.

Chi ha necessità di assumere si muove con cautela. Soprattutto di fronte a candidati che sono, volenti o nolenti, sotto i riflettori. Le possibili soluzioni si individuano, una per una e  a “fari spenti”. Se l’obiettivo di tutti è il lavoro, le parti stipulanti l’accordo di gestione degli esuberi devono impegnarsi per evitare strumentalizzazioni ma anche interpretazioni troppo rigide che rischiano di favorire indecisioni, rinvii di scelte, confronti inutili con colleghi magari più spendibili in un colloquio di lavoro.

Tutti atteggiamenti legittimi ma inutili in un mercato difficile. L’esperienza maturata fino ad oggi, i colloqui effettuati, i possibili ritardi accumulati dovrebbero essere oggetto di un “tagliando” dell’accordo che ridefinisca i termini della questione sgomberando il campo da una serie di equivoci e rigidità che, se non rimossi, non aiuteranno a risolvere definitivamente il problema. L’incontro tra domanda e offerta deve essere trasparente, coerente con il mercato e concreto.

Considerare i lavoratori ex Almaviva una categoria a sé stante e non singoli lavoratori da reimpiegare, generalizzare alcune condizioni familiari difficili o forzare guidizi sulle tipologie di impieghi proposti fino ad oggi, fa un cattivo servizio, non solo a quei lavoratori ma all’insieme di un progetto che presuppone un cambiamento culturale.

Certo non si può chiedere ad un’impresa che deve assumere di derogare dalle proprie impostazioni però si potrebbero predisporre strumenti (incentivi, distacchi, reversibilità) a suo vantaggio.

Così come, sul versante dei singoli lavoratori, trovando il modo di valorizzarne le decisioni in termini di apprendimento di nuove attività e di consolidamento del CV. Nel caso di apertura a scelte “imprenditoriali” dei singoli supportando questa disponibilità nella fase di start up con esperti del business individuato. Credo che, su questo, le associazioni dei dirigenti di azienda con le loro reti professionali potrebbero dare una mano concreta.

Ad oggi, i lavoratori ex Almaviva, hanno dato una importante risposta positiva di disponibilità che segnala una volontà di rimettersi in gioco. Non è un segnale da poco.

Certo, i problemi cominciano ora. Ma questo era noto a tutti i firmatari dell’accordo. L’importante è che nessuno si sfili alle prime scontate difficoltà o cavalchi tensioni e preoccupazioni per ritornare, più o meno inconsapevolmente, al punto di partenza.

Se vogliamo che si affermi una cultura diversa non ce lo possiamo permettere.

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