I primi cinquant’anni dell’inquadramento unico: alcuni dubbi e qualche risposta…….. di Simone Caroli

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Pubblico volentieri un contributo di Simone Caroli uno dei “giovani” più interessanti nel mondo HR che ha approfondito i temi dell’innovazione contrattuale e delle relazioni industriali   

L’inquadramento unico tra operai ed impiegati compirà nel 2022 i suoi primi cinquanta anni. Dopo mezzo secolo, è tempo di vedere se sta reggendo bene i segni del tempo. Con la sua introduzione nel CCNL Metalmeccanici, l’inquadramento unico ha avuto il merito di superare la discriminazione retributiva sofferta dagli operai che, nell’impostazione previgente, avevano minimi sindacali sistematicamente inferiori a quelli degli impiegati.

Da questo punto di vista, l’inquadramento unico è ancora in salute: nel mercato del lavoro attuale, innegabilmente, esistono profili operai di contenuto professionale e di valore aggiunto senz’altro maggiore rispetto ad alcuni profili impiegatizi. Quello che, forse, nel 1972 non era chiaro quanto oggi non riguarda però le retribuzioni: è la distanza che si è venuta a creare tra la modalità di lavoro degli impiegati, remotizzabile, rispetto al lavoro degli operai.

Il ricorso al lavoro agile nel primo lockdown 2020, per quanto imperfetto, ne è una prova molto efficace. Da un lato le professioni e le mansioni che non richiedono più lo svolgimento in presenza, dall’altro quelle che, necessariamente, hanno bisogno di uno schema tradizionale per essere rese: tempi, luoghi, e modi predefiniti di lavoro.

In questo ultimo insieme non rientrano solo mestieri operativi di fabbrica, cioè l’archetipo del lavoro del novecento. Il facchinaggio, così come la ristorazione, la cura della persona, o la raccolta di rifiuti (solo per citarne alcuni) vi rientrano a pieno titolo.

Per un addetto a queste attività, il lavoro non può che coincidere con la presenza, così come l’orario coincide con la possibilità che il suo lavoro possa essere utilmente impiegato. Se in una linea di assemblaggio sono previste cinque postazioni di lavoro, ad esempio, cinque operatori devono essere presenti su quella stessa linea negli stessi orari, e non c’è alternativa: l’assenza anche momentanea di uno si ripercuote sul lavoro di tutta l’organizzazione, che deve trovare un sostituto per evitare di bloccare la linea.

Da qui l’esigenza di un controllo serrato sui tempi di lavoro e, di conseguenza, sulle prestazioni: il datore, tramite la catena gerarchica dell’azienda, deve controllare che il tempo retribuito sia tempo utilmente impiegato. Al contrario, le assenze devono essere rigidamente giustificate. A questo scopo, la normativa dei CCNL e del legislatore ha introdotto una serie sempre più variegata di permessi, congedi, e aspettative, a volte non retribuite ma spesso compensata dall’impresa o dai contribuenti (il che giustifica un certo controllo anche da parte dell’INPS e lascia presagire che – piccola digressione – molti permessi potrebbero non avere ragione di esistere se strutture pubbliche come case di riposo o asili nido fossero più accessibili ai lavoratori).

All’opposto, straordinari forfettizzati, accordi di banca ore, flessibilità, o elasticità dell’orario, consentivano al personale degli uffici, già prima della pandemia, di svincolare la prestazione dalla rigidità degli orari di lavoro. Il lavoro agile ha fatto il resto.

Ma c’è altro.

Automazione e dematerializzazione hanno  reso sempre meno necessario il lavoro “di sportello” o “d’ordine”: pensiamo a cosa è successo con l’home banking. Risultato: le figure di impiegati vincolati ad un tempo e ad un luogo di lavoro stanno scomparendo.

Seguendo il ragionamento fatto sopra, sempre più impiegati possono modulare più o meno liberamente il proprio orario di lavoro e, quindi, sono sempre meno soggetti sia alla disciplina delle assenze che ad un rigido controllo datoriale sulla prestazione. Beninteso, il controllo esiste, ma si è spostato sui risultati. Non stupisce allora la diffusione di premi di risultato ritagliati su team ristretti o addirittura individuali. Anche per impiegati inquadrati a livelli relativamente bassi, conta sempre più il risultato, ossia la capacità di creare valore aggiunto, in rapporto di fiducia e cooperazione tra lavoratori e dirigenza.

Il numero di lavoratori nei due insiemi – “remotizzabili” e “non remotizzabili” – sta crescendo, a scapito di chi si trovava nel mezzo. I lavoratori nell’intersezione, infatti, sono attratti da uno o dall’altro raggruppamento. Le aziende cercano sempre più personale disposto a lavorare a risultato e, dall’altra parte, sempre più personale per mansioni base, non delocalizzabili, non automatizzabili, e necessariamente legate ad un tempo e ad un luogo – il food delivery, l’assistenza socio-sanitaria, l’igienizzazione (solo a titolo di esempio) sono settori in espansione.

È difficile ipotizzare un’inversione di tendenza. I rider hanno chiesto con forza, e ottenuto con merito, il superamento della retribuzione per risultati in favore di una retribuzione meramente oraria. Impiegati direttivi e di concetto – per non parlare dei quadri – sono interessati al management by objective (MBO), più che ad una retribuzione oraria.

A mio parere, la situazione è nota, ma non recepita. La contrattazione collettiva sembra aver perso il coraggio lucido che aveva portato sindacati e datori di lavoro alla svolta epocale del 1972. Eppure ci sarebbe spazio per una contrattazione che dia cittadinanza ad una flessibilità già positivamente accettata e praticata da un numero crescente di impiegate e di impiegati, che scriva regole innovative, e che liberi risorse economiche utili a remunerare il risultato più che la presenza.

Anzi, prima dei contenuti, è il merito che andrebbe rinnovato: partire dall’esistente per proporne l’innovazione; non dall’ideologia per portare allo scontro. Si dice che nulla sia più iniquo che trattare in modo uguale situazioni diverse; spero che i tavoli sindacali del post-pandemia sappiano accorgersi della specificità di situazioni che hanno condizioni sempre più diverse e che, tra loro, hanno in comune solo un pugno di norme.

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