Il dolce veleno del reddito di cittadinanza

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La firma dei più importanti contratti nazionali del settore privato e l’intenzione (annunciata) del Governo di intervenire già nel 2017 sul cuneo fiscale contribuiscono a rimettere su di un binario corretto il tema della tutela del reddito per chi un lavoro regolare ce l’ha.

Il dibattito che si è acceso improvvisamente sulla necessità di proporre una futura tassazione dei robot rischia di mettere in secondo piano ciò che è necessario fare oggi: una decisa lotta contro l’evasione e una conseguente riduzione del peso fiscale che grava sulle imprese e sul lavoro.

In questo contesto la proposta del Movimento 5 stelle di “reddito di cittadinanza” ha una carica dirompente. Sia politica che sociale. Fatte le debite proporzioni, direi che è molto simile, politicamente, a quella del “milione di posti di lavoro” lanciata a suo tempo da Silvio Berlusconi. La differenza è che, la proposta del leader di Forza Italia, pur criticata duramente dagli avversari, era assolutamente compatibile con il contesto culturale, sociale, economico e politico di quegli anni. Il reddito di cittadinanza non lo è per nulla. Anzi. Contribuirebbe a segnarne il definitivo declino. E non solo per il devastante impatto economico.

Dario Di Vico ha recentemente lanciato sul Corriere un allarme che non va sottovalutato: “Chiediamo solo che chiunque, a qualsiasi schieramento appartenga, abbia intenzione di formulare ipotesi di sostegno generalizzato ai redditi indichi anche il costo dell’operazione e chiarisca se è compatibile con i fragili equilibri della nostra finanza pubblica.”

A mio parere il tema del costo, pur determinante, non impedirà che anche su questo si giochino le prossime campagne elettorali. E non solo in Italia. La consistenza del reddito familiare, la paura del diverso e di una società inevitabilmente multirazziale, il declino del ceto medio unito alle inevitabili conseguenze indotte dall’innovazione tecnologica spinge una parte consistente dell’opinione pubblica a preferire risposte semplici a cui una parte della politica (per il momento ancora di vecchio conio) si è predisposta a somministrare.

E in questa opinione pubblica in fermento e alla ricerca di risposte non ci sono solo i perdenti della globalizzazione. Vi stanno prendendo posto economisti, studiosi, imprenditori, professionisti, pezzi rilevanti di classe dirigente che, in alcuni Paesi, hanno colto in queste proposte un potenziale distruttivo e alternativo alla politica (sociale) tradizionale.

Il reddito di cittadinanza potrebbe consentire al Sistema nel suo complesso un minore impegno contro la disoccupazione, produrre una maggiore indifferenza sociale nei confronti dei tagli dei posti di lavoro, spingere gli individui a subire con maggiore fatalismo le conseguenze dell’innovazione tecnologica e dei cambiamenti organizzativi delle imprese.

L’eventuale istituzione di un reddito di cittadinanza contribuirà inevitabilmente a dividere ulteriormente la società. Da una parte chi potrà mantenere le sue opportunità di studio e di lavoro dall’altra, tutti gli altri.

Infine un interessante riflessione proposta da Anke Hassel (Academic Director of the Hans Böckler Foundation’s Institute of Economic and Social Research) sul tema del reddito di cittadinanza in una visione di medio lungo periodo e, soprattutto, fuori dal mio (modesto) punto di osservazione: “Una garanzia incondizionata di reddito è in netto in contrasto con le esigenze di una società in rapida crescita anche con l’immigrazione. Un gran numero di lavoratori migranti e immigrati hanno bisogno di più meccanismi per integrarsi socialmente, non meno. È l’esperienza di tutti i giorni che conta: le persone si incontrano sul posto di lavoro, si arriva a conoscersi e ad apprezzarsi l’uno con l’altro e si impara la lingua. Considerando questo, sarebbe fatale dare alla gente un motivo per smettere di lavorare, di smettere di migliorare le loro qualifiche, e di rimanere semplicemente a casa.”

Il lavoro, come si crea, come si mantiene e come si cerca deve restare l’obiettivo prioritario di un Paese democratico al di là del pur importante problema del reddito. La sfida dell’innovazione si vince investendo, aiutando le imprese e il lavoro ad essere protagonisti insieme attraverso forme nuove di collaborazione, la formazione dei collaboratori, la loro crescita professionale, costruendo un sistema di politiche attive efficace e un welfare dignitoso. I sussidi, soprattutto in un Paese come il nostro, devono essere finalizzati al reimpiego delle persone e non alla loro ghettizzazione.

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