La grande distribuzione e il lavoro. La fatica di andare oltre il suo costo…

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

L’inflazione è una brutta bestia. Non colpisce solo il consumatore e la filiera nel suo complesso. Colpisce anche il lavoro dipendente di tutte le attività a monte e a valle. Scordarselo relegandolo ad un problema secondario è un errore. Rilancia inevitabilmente la questione salariale e del lavoro  anche nella Grande Distribuzione. Lo dico pur essendo convinto che questo elemento manca completamente nelle riflessioni dei CEO delle diverse insegne.

Il rinnovo dei CCNL è bloccato da oltre due anni. Né Confcommercio né Federdistribuzione sembrano in grado di fare proposte. Confesercenti e Coop girano anch’esse alla larga. Sul tema c’è una grave caduta di autorevolezza delle associazioni datoriali. È anche una questione di serietà. Non si firmano scadenze e impegni senza rispettarne i termini. Altrimenti sarà inevitabile arrivare al salario minimo di legge.

E così, anziché sfidare il sindacato di categoria sui temi decisivi che accompagneranno i prossimi anni di vigenza del CCNL, si trincerano tutti dietro ad un facile  “NO” al rinnovo pur mascherandolo con argomentazioni legittime quanto fuorvianti. Nessuna organizzazione fa il primo passo per paura di essere scavalcata (al ribasso) dall’altra. È il frutto avvelenato  dell’aver voluto fare del CCNL argomento di concorrenza associativa senza essere in grado di gestirne le conseguenze.

Sui temi del lavoro nella GDO le idee sono poche e confuse. Alle imprese spaventate dai costi non viene proposto nulla di innovativo. E quindi prevale la preoccupazione e l’incertezza sul futuro prossimo che chi riveste responsabilità politiche nelle rispettive associazioni si limita a cavalcare. È chiaro che esiste un problema di fondo che attraversa tutto il mondo del lavoro dipendente.

Un  dato grossolano per   riflettere:  fatta 100 la retribuzione netta del lavoratore in Italia la tassazione  complessiva è 207 di cui 61 a carico del datore di lavoro contro i 37 della media europea. A carico del lavoratore 46 contro i 44 della media dei colleghi europei. Certo è un po’ la media del pollo ma indica un grave problema e un divario certamente inaccettabile. Le direzioni HR, impegnate sui rispettivi fronti interni, si guardano bene dal condividere e suggerire una strategia collettiva innovativa nelle sedi decisionali. Chi può lo fa in casa sua.

È uno degli elementi di arretratezza del comparto che non ha saputo o voluto trasformare in opportunità di coinvolgimento e di responsabilizzazione i rappresentanti dei lavoratori nella fase della “crescita infinita” limitandosi a considerarli come un fastidio inevitabile da contrastare sempre e comunque. Eppure le dinamiche negoziali hanno accompagnato non poco la fase di crescita e della prima riorganizzazione del comparto. Alcune insegne anche tra le più importanti non si sono però attrezzate al cambiamento della funzione HR che è altra cosa rispetto alla ricerca delle competenze professionali minime necessarie all’azienda e a gestire la quotidianità nei punti vendita e nelle sedi.

Così i temi centrali dell’ingaggio sull’andamento del PDV e dell’impresa più in generale, della qualità della relazione con il cliente, della valorizzazione dell’impegno e del clima interno, delle opportunità di sviluppo individuale sono state tenute sullo sfondo senza diventare materie da valorizzare nei CCNL soprattutto in un comparto che non può contare su una contrattazione aziendale diffusa.

Nei giorni scorsi è uscita la certificazione  dei TOP Employer 2021. Premia le aziende che hanno politiche relative allo sviluppo delle risorse umane, alla formazione del personale, all’attenzione per le esigenze familiari e sociali dei dipendenti. Non  è una classifica. È però una certificazione importante assegnata dal Top Employers Institute, che valuta le condizioni di lavoro, benefit, piani di carriera, investimenti in formazione e sviluppo, politiche HR, attenzione alla crescita professionale dei dipendenti. Delle 112 aziende italiane presenti quattro sono della GDO. LIDL, Esselunga, Carrefour e Metro. C’è anche Amazon a dimostrazione che realtà e narrazione pregiudiziale viaggiano sempre su binari paralleli. Ovviamente molte non hanno neppure partecipato proprio perché estranee a questo approccio. Pochi HR quindi hanno coinvolto i rispettivi  CEO.

Tutte le imprese coinvolte, pur con caratteristiche differenti tra di loro, hanno una direzione HR strutturata e un contratto aziendale che consente loro di individuare terreni di scambio e di confronto sulle problematiche interne. Carrefour, pur non rinnovando il suo CIA da tempo ne ha comunque deciso la proroga. E questo ha pesato positivamente nel recente accordo sulla ristrutturazione.

Avere un canale aperto di confronto e di dialogo con i propri lavoratori e le rispettive controparti non è ovviamente  la ragione per cui sono state premiate ma è un elemento che le accomuna. Altre (poche per la verità) pur non inseguendo certificazioni hanno comunque una gestione HR interna degna di nota. E qui torniamo al Contratto nazionale e alla sua importanza.

Tutte le imprese della GDO applicano un CCNL. La maggioranza delle insegne, quello firmato da Federdistribuzione. Coop il loro. Conad, sia quello di Confcommercio che quello di Confesercenti a seconda della cooperativa. Pur nella varietà il  tratto comune è che sono tutti scaduti da oltre due anni. Poi c’è il resto. Quello che non si vuole vedere. Una gestione delle problematiche salariali e di lavoro che non premia certo la definizione di “moderna”.

Solo nell’ultimo anno (2021 vs. 2020) nel comparto Commercio, Distribuzione e Servizi i CCNL firmati sono passati da 213 a 235 (studio della Fondazione Di Vittorio). Un dato su tutti. Se nel 2012 i contratti nazionali complessivi erano ancora 550, nella rilevazione del CNEL del novembre 2021 erano arrivati a 933. Settantasette  in più solo rispetto all’anno precedente. Molti di questi sono classificati troppo sbrigativamente come “contratti pirata”. La realtà è però più complessa. In alcuni casi è pura “pirateria” in altri costituisce un tentativo di adattamento ad un contesto economico complesso per molte imprese.

Di fronte a questa realtà, il rimedio proposto dalle organizzazioni più rappresentative  (Confcommercio e Federdistribuzione)  è, di fatto,  quello di non rinnovare il proprio sperando che non ci siano fughe tra le imprese associate. Quindi nessuna strategia né visione.

I CCNL, è bene sottolinearlo,  non si rinnovano da almeno vent’anni  in forza delle  mobilitazioni sindacali ma solo attraverso la capacità di entrambe le parti di trovare un terreno comune di confronto. Sottovalutarlo o banalizzarlo  spinge l’intero comparto, oggettivamente, verso un’area grigia di rancore individuale e collettivo reciproco e verso quello che è considerato, al di fuori del comparto,  “lavoro povero” e sottopagato contribuendo così a mettere in discussione l’immagine stessa dell’intero settore sulla materia.

Eppure la GDO avrebbe tante carte da giocare su quel tavolo. Sulla qualità del lavoro e del servizio al cliente si gioca sia la partita della produttività sia quella del coinvolgimento e dell’ingaggio delle persone e della loro crescita professionale. È quella la sede per definire il campo da gioco del futuro.  Il CCNL è lo snodo da cui passa anche un welfare che andrebbe rivisitato e  riconsiderato se non si vuole che rappresenti solo un costo puro per le imprese senza alcun vantaggio percepito dai lavoratori.

E poi c’è il tema, al di là delle rispettive bandierine, di come individuare finalmente  un percorso che porti ad un contratto condiviso da tutte le parti in campo salvaguardandone i costi e i rispettivi  ruoli. E che individui un percorso per arrivare a una necessaria e non più rinviabile certificazione della rappresentatività reale che consenta, finalmente, di rimettere ordine nel sistema contrattuale della categoria.

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *