Negoziato, pregiudizi e percorso parlamentare

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Le reazioni al progetto di riforma del mercato del lavoro non può non fare riflettere soprattutto perché l’impegnativo confronto con il Governo ha portato in superficie una serie di pregiudizi e approcci negativi che se non superati concretamente ci manterranno ai margini del contesto europeo e impediranno la ripresa.
Al di là delle conseguenze sul terreno dei costi per le imprese in un momento economico estremamente difficile ci si è, purtroppo, dovuti confrontare all’interno di un clima sostanzialmente “anti impresa” che non promette nulla di buono per il futuro del nostro Paese.
Parlare come si è detto di “licenziamenti facili”, ad esempio, significa travisare i termini del problema.
Persiste, purtroppo, una cultura del lavoro che fatica ad uscire da vecchi schemi ideologici che continua a considerare l’impresa un luogo di antagonismo sociale.
Per questo io credo che quello che continua a rimanere fuori dai nostri ragionamenti è la vera cultura dell’impresa.
Non dell’impresa di ieri ma di quella di oggi e di domani.
Chi ha impostato e condotto la trattativa ha tentato, forse sottovalutando alcuni interlocutori, di riassegnare nuove equilibri di peso, di contribuzione economica e di potere tra le parti (lavoratore, impresa e tra imprese di dimensioni e settori diversi) individuando il problema della possibile crescita economica e occupazionale nella modifica di questi equilibri.
Da questo, ad esempio, discende la teoria della “flessibilità cattiva” e delle imprese che ne abuserebbero da contrapporre alla flessibilità buona.
Quasi come se fosse lo strumento e non l’utilizzo che se ne fa a qualificarne la qualità.
Questa impostazione culturale ha consentito l’equazione flessibilità=precarietà=disoccupazione che oltre a essere sbagliata ha illuso alcune parti sociali che fosse possibile e utile al Paese realizzare uno scambio tra minore flessibilità in entrata con una maggiore flessibilità in uscita.
Sottovalutando il peso che per alcuni settori e molte imprese che operano correttamente hanno particolari tipologie di flessibilità in entrata.
In questo modo, non solo si è avallata in parte dell’opinione pubblica una falsa equazione aziende=abusi certi ma, una volta intascati i maggiori vincoli alla flessibilità in entrata con la benedizione del Ministro, c’è chi sta già lavorando per annacquare gli interventi sulla flessibilità in uscita sostenendo lo stessa equazione: licenziamenti per ragioni economiche=libertà di licenziamento tout court.
L’idea che gli imprenditori nella loro generalità non stiano aspettando altro per procedere con licenziamenti ingiustificati mascherandoli dietro motivazioni economiche oltre ad essere offensiva è poco credibile.
Oggi le imprese hanno problemi di mercato, di competitività e di produttività.
Problemi che questo accordo non risolve né affronta.
Questo è il problema centrale!
Io credo che l’intenzione di affidare ai tribunali il compito di decidere la congruità della sostanza di un licenziamento non discriminatorio sia una follia.
Si abbia il coraggio di dire che non si vuole modificare la sostanza piuttosto che dipingere una classe imprenditoriale tutta tesa a mascherare licenziamenti e ad espellere lavoratori!
Il compito delle parti sociali in una situazione difficile è assumersi la responsabilità del cambiamento magari introducendo sistemi di controllo nuovi che affidano ruoli positivi e costruttivi alle parti stesse.
In questo senso come comparto del Terziario ci si era mossi, ad esempio, sul tema dell’arbitrato.
Occorre proseguire completando e non demolendo l’opera di Marco Biagi.
Questa è la strada maestra da percorrere e sarebbe sbagliato cedere alla cultura antagonista che rischia solo di tentare di riproporre la logica di un conflitto sociale di cui non se ne sente la necessità.
Utilizzare la crisi economica per tentare di demolire, prima culturalmente, poi concretamente, quanto di buono è stato fatto dal pacchetto Treu in avanti per innovare il mercato del lavoro e per rilanciare una cultura sindacale riformista e positiva, è inaccettabile.
Il percorso parlamentare sul pacchetto lavoro deve riaffermare l’importanza di questa cultura e deve far crescere nel Paese uno spirito nuovo che sappia emarginare nei fatti la cultura antagonista.
Vedere riemergere in questi giorni linguaggi violenti, azioni di prevaricazione o minacce di scioperi che, seppur legittimi, non aiutano il Paese ad uscire dalla difficile situazione economica non può non preoccupare le forze politiche e sociali e richiamare ad un senso di responsabilità e di impegno di coesione sociale tutti noi.
Avremmo preferito ben altri interventi e un atteggiamento meno punitivo e di sostegno alla piccola impresa e al terziario che restano due pilastri fondamentali sui quali ritornare a crescere e che invece rischiano di essere ulteriormente penalizzati.
Si è riusciti a far comprendere alcune esigenze e specificità importanti al Governo ma credo che, nel percorso parlamentare, si debbano recuperare situazioni che consentano alle aziende di operare, di crescere e di contribuire al rilancio del Paese.
Pensare che i settori ancora in grado di creare lavoro debbano essere ulteriormente appesantiti o penalizzati scaricando su di essi costi altrui è inaccettabile.
L’azienda deve ritornare ad essere un luogo dove si collabora per creare ricchezza per poi poterla distribuire.
Solo in questo modo si potrà creare lavoro.
Costruire il nuovo mercato del lavoro in un clima di antagonismo e di diffidenza non porta da nessuna parte.
Dobbiamo puntare decisi sugli strumenti che favoriscono la collaborazione tra lavoratori e imprese, la cultura della bilateralità e del rispetto reciproco.
Altro che licenziamenti facili!
Più responsabilità per le imprese e le parti sociali per creare opportunità di lavoro e incrementare la produttività e più responsabilizzazione per i singoli lavoratori.
Insieme dobbiamo individuare gli strumenti necessari per consentire alle imprese e ai lavoratori di crescere.
Alle aziende riducendo i costi e la burocrazia, facilitando l’accesso al credito e migliorando le infrastrutture.
Ai lavoratori garantendo una retribuzione corretta e non gravata da tasse e contributi eccessivi, formazione efficace e tutela nelle transizioni tra posto e posto di lavoro.
Il cambiamento vero del Paese passa da queste priorità.

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