Bene ha fatto Di Vico a scrivere, oggi sul blog del Corriere, che nella proposta di Federmeccanica c’è una riflessione nuova e, di fatto, molto impegnativa. Innanzitutto per imprenditori e aziende. L’importanza delle persone per una nuova cultura delle imprese. Impostazione che va al di là delle tipiche resistenze sul salario o dei tentennamenti sull’inquadramento tipiche di ogni fase negoziale e che lancia una sfida completamente diversa al sindacato che, a parte la FIM CISL, che proprio ieri ha centrato il tema dello sviluppo dei lavoratori anche attraverso la formazione, sembra non accorgersene. Ma questa è una sfida anche per chi, nel dibattito sulla successione alla guida di Confindustria, si schiera sulla proposta di Federmeccanica senza cogliere in pieno il significato di questa svolta. Purtroppo la stagione che abbiamo alle spalle e che ha caratterizzato le relazioni industriali del nostro Paese non aiuta ad accettare l’idea che sia necessario un vero e proprio cambio di paradigma. Troppe visioni a corto termine, troppe incoerenze e troppe reticenze per nascondere modesti interessi di comparto. Nel secolo scorso, quando l’antagonismo e il conflitto dominavano la scena, le poche innovazioni in chiave partecipativa provenivano da minoranze (sindacali e datoriali) che sperimentavano, in provetta, forme di collaborazione costruttiva. Oggi è diverso. L’incertezza del contesto impone il dialogo. Che lo si auspichi o meno. Che lo si subisca o che, al contrario, lo si proponga. Si affacciano nuovi bisogni, i confini del lavoro si modificano, le imprese si misurano con nuovi modelli di business, i cambiamenti costringono ad accelerazioni imprevedibili e improponibili fino a pochi anni fa. Oggi ce la caviamo ancora continuando a fare cose vecchie in modo nuovo ma, chi si sta affacciando sulla scena, si troverà a fare, sempre più, cose nuove in modo nuovo e, d’altra parte, abbiamo sempre meno esperienza consolidata e utilizzabile per quello che dovremo andare a fare. Su un punto, credo, siamo tutti d’accordo: le persone, nelle imprese, sono e saranno sempre più importanti. E le persone, nell’azienda di oggi e di domani non vanno solo tutelate nel rapporto di lavoro, vanno ingaggiate, motivate, coinvolte, responsabilizzate. La sfida, è nella formazione, nello sviluppo, nella crescita professionale ma anche nella costruzione di nuove relazioni sindacali. O saranno in grado di accompagnare queste esigenze consentendo alle persone opportunità di crescita, di continua “ricostruzione” professionale per interagire con un mercato del lavoro molto più complesso, di mettere loro a disposizione welfare integrativo e innovativo, di creare opportunità di bilanciamento tra esigenze di lavoro e esigenze di relazione, oppure saranno sempre più marginalizzati e resi irrilevanti nelle aziende e nel Paese. L’impresa non è un luogo di scontro. Non lo è più da molto tempo. L’asimmetria nei rapporti di forza è evidente e condivisa. Pensare di riportare indietro le lancette del tempo per riequilibrarli è una fatica inutile. Però l’impresa del futuro necessità di persone consapevoli, convinte, coinvolte con le quali dovrà essere possibile costruire dei patti chiari, magari a tempo, ma chiari. Quindi rapporti più maturi. Per questo i contratti nazionali sono e restano importanti. Dovranno definire comunque, oltre ai i minimi retributivi di riferimento, la cornice, gli strumenti, le regole di ingaggio, i costi da pagare se, queste regole, non dovessero essere rispettate. Evitando così situazioni di dumping tra le aziende e di concorrenza tra lavoratori di diversa provenienza. Così come i contratti aziendali che si dovranno occupare di coinvolgere, ingaggiare e condividere rischi e opportunità tra l’impresa stessa e i suoi collaboratori. Il primo passo, importante, è stato quello di decidere che la stagione degli accordi separati si doveva chiudere. Le imprese e le loro rappresentanze hanno compreso che non portava da nessuna parte e i singoli sindacati confederali che non ne avrebbero conseguito alcun rilevante beneficio. Solo nel comparto metalmeccanico, per la persistenza di vecchia logiche, non solo ideologiche ma anche di potere, era e forse, è ancora necessario reggere con forza un distinguo sui contenuti. La deriva identitaria quando è sganciata da una progettualità alta e idee forti però produce solo subalternità. Quindi una nuova stagione di ripresa di iniziativa unitaria era auspicabile ed è importante che sia di nuovo possibile. È evidente che una unità esclusivamente difensiva e intesa come la sommatoria delle reciproche debolezze strategiche è solo destinata ad accelerare il processo di marginalizzazione. Per questo non basta comprendere il cambiamento. Bisogna esserne parte. Da soli non si basta più. L’azienda per reagire al contesto cerca nuovi equilibri, si trasforma da organizzazione in organismo e quindi diventa sempre più trasparente e vissuta da chi ci vive dentro. Per questo rimette al centro le persone. Sempre meno “dipendenti” è sempre più collaboratori con cui si condivide e si concorda. La vera sfida per il sindacato e per le nuove relazioni sindacali sta tutta qui. Certo ci si può sottrarre tornando indietro. Oppure mettersi in gioco. E non saranno le formule o l’esportabilità di un modello a fare la differenza. Quindi, nel sindacato confederale, diventerà sempre più importante che si riprenda a discutere di strategie, obiettivi e contenuti anche della contrattazione in chiave innovativa e non conservatrice. Credo però non sia sufficiente percorrere questa via da soli. Sindacati da un parte e imprese dall’altra. Occorre uno sforzo comune. Ricordandoci sempre che al centro ci sono le persone, la loro vita, il loro impegno e il loro futuro. E in gioco c’è il ruolo che i corpi sociali vogliono giocare nella nostra comunità. Una sfida non da poco.