Taxi e Alitalia. Siamo sicuri che c’è tempo da perdere?

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Taxi e Alitalia, in fondo, rappresentano bene il modo di operare di un Paese che preferisce non prendere atto della realtà e sposta sempre in avanti il momento delle scelte e delle decisioni.

Cosa è successo? In fondo nulla. Appunto. Un grande caos di sei giorni culminato con una manifestazione a tratti violenta, un incontro con il Ministro dei trasporti che ha partorito un mese di riflessione nel quale si troverà un accordo per rinviare più in là la resa dei conti con un futuro che incombe e che indica, sempre meno sommessamente, una strada opposta.

Hanno vinto tutti. Quindi chi ha perso non era in quelle stanze…

Nessuno che spieghi ai tassisti la differenza tra vincere una battaglia per abbandono dell’avversario e il rischio di perdere la guerra se la categoria non cercherà di evolvere, di cambiare atteggiamento, di lavorare per il proprio futuro e non di rivendicare esclusivamente un diritto inesigibile: quello di impedire qualsiasi cambiamento.

Sembra che, in questo Paese, nessuno se la senta di affrontare i problemi. Mi ha stupito il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che, dopo l’annuncio del ritiro della disdetta del contratto aziendale Alitalia si è dichiarato soddisfatto. Da lui non me lo sarei aspettato. Lo credevo di un’altra categoria.

Ma veramente qualcuno può pensare che un rinvio del problema ad un prossimo confronto su un nuovo contratto aziendale tra un’azienda “alla frutta” e una categoria sindacale che non sa cosa fare, vista la dimensione del problema, possa portare ad un risultato utile? Separare il tema degli esuberi, quindi del piano industriale, da quello del contratto aziendale è un errore. Anche in vista di possibili nuovi partner.

È comprensibile che lo commettano i sindacati che devono gestire le conseguenze sui loro iscritti, non lo è affatto per il Governo che si troverà, inevitabilmente,  a dover pagare il conto. Anche dei ritardi. Così come è stato nel negoziato che ha portato alla definizione delle nuove regole interne all’avvio del progetto precedente. E qui si ritorna al tema. La paura delle reazioni, quindi, ancora una volta, si concorda che è meglio “allungare il brodo”.

Queste due vicende sono paradigmatiche di un Paese che non riesce a prendere atto che i problemi non si risolveranno da soli e che lo sforzo da mettere in campo per affrontarli non può essere lasciato solo sulle spalle del Governo o di un’azienda.

Il “ce lo chiede l’Europa” non funziona più. Occorre prendere atto che che occorre uno sforzo e una assunzione di responsabilità comune. E qualcuno che parli chiaro al Paese. Altrimenti, di rinvio in rinvio, finiremo male, molto male. Tutti insieme.

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