Una responsabilità da condividere.

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Al polo logistico di Piacenza è morto un operaio egiziano investito da un camionista. Una notizia ormai già lontana che non ha prodotto alcuna riflessione vera. Eppure ci sarebbe molto da dire e da fare. Personalmente ho vissuto  la nascita di alcuni dei cosiddetti “poli logistici” in funzione della terziarizzazione delle attività di un’azienda della GDO nella quale ho lavorato con le conseguenze del caso. La problematica dei costi e della qualità del servizio, la sottovalutazione del problema della gestione delle risorse umane soprattutto conseguente all’esplosione dell’immigrazione e la degenerazione delle relazioni sindacali del comparto. Se oggi, in quel settore, siamo ripiombati sostanzialmente negli anni ’70 è perché siamo di fronte ad una responsabilità collettiva delle imprese committenti, delle imprese fornitrici di quel servizio e dei sindacati confederali delle categorie interessate.
Innanzitutto perché si sarebbe dovuto capire subito che un magazzino logistico di nuova generazione non era semplicemente un’evoluzione del magazzino di un’azienda di trasporti o dell’impresa stessa che si stava apprestando alla terziarizzazione. Eppure il nord Europa (soprattutto gli esperti belgi e olandesi) già mostrava chiaramente e prima dell’esplosione dei giganti della rete, che software impiegato, organizzazione della movimentazione delle merci, qualità del servizio e gestione delle risorse erano ben altra cosa rispetto ai modelli precedenti.
Le aziende committenti hanno invece preferito fermarsi alle clausole contrattuali, alle penali relative e ai KPI con i quali misurare le performance del fornitore del servizio disinteressandosi sostanzialmente di tutto ciò che avveniva all’interno di strutture sempre più sofisticate e di grandi dimensioni. Le aziende fornitrici, multinazionali o meno, intenzionate a gestire il business si sono trovate improvvisamente circondate dalla pressione delle aziende committenti e da regole sempre più stringenti, dalla fragilità del loro sistema di gestione delle risorse umane e, infine, dall’esplosione del fenomeno delle cosiddette “cooperative” che si affacciavano in questo mercato, in modo sempre più spregiudicato. Alcune serie, controllate dal mondo tradizionale della cooperazione, altre provenienti dallo stesso sindacato di categoria, altre ancora nate solo con lo scopo di accaparrarsi spregiudicatamente commesse e attività. E tutto questo mentre esplodeva il fenomeno dell’immigrazione regolare e clandestina che ha, a sua volta, cambiato profondamente l’offerta di lavoro sempre più rigidamente inquadrata in etnie spesso guidate da caporioni spregiudicati. Nelle contraddizioni prodotte da questo sistema si sono infilati COBAS e centri sociali che hanno cavalcato spregiudicatamente i bisogni e le tensioni che inevitabilmente hanno coinvolto quei lavoratori. Basti citare la mancanza di comunicazione e gestione diretta dei lavoratori da parte delle aziende, l’organizzazione stessa del lavoro e del contesto, i furti e i sistemi di prevenzione e repressione, la mancanza di servizi minimi sul piano sociale, ecc. Oggi siamo qui. Ogni tanto la rabbia esplode davanti a questo o quel magazzino, i camionisti si infuriano perché vengono bloccati spesso con merce deperibile a bordo, le forze dell’ordine faticano ad intervenire perché non sono preparate a gestire il nuovo confine tra una legittima lotta sindacale di alcuni e un conflitto di interessi tra etnie, lavoratori, e imprese differenti nello stesso luogo di lavoro. Imprese committenti e fornitrici si gestiscono le conseguenze spesso molto pesanti cercando compromessi pasticciati e i sindacati confederali mostrano tutta la loro impotenza davanti a questa situazione. Per i lavoratori non cambia nulla perché ciò che è stato concesso forzatamente con una mano verrà presto tolto con l’altra. Solo i COBAS esultano e si apprestano a proporre in altri magazzini le stesse rivendicazioni con le stesse modalità. Ogni tanto, però, ci scappa il morto o gravi episodi di violenza. Ma cosa si può fare per cambiare verso? Innanzitutto le aziende fornitrici dovrebbero investire nella gestione del personale molto di più di quello che fanno oggi. Anche dotandosi di mediatori culturali. Occorre recuperare un rapporto con le persone che, però, vanno considerate tali indipendentemente dalla loro nazionalità o etnia. In secondo luogo occorre che sindacati e aziende negozino un contratto nazionale di riferimento che tenga conto dell’evoluzione del comparto. Aggiungo che occorrerebbe anche arginare decisamente il fenomeno delle cooperative fasulle. Sento già la critica: e i costi chi li paga? È evidente a tutti che il costo di queste scelte finirà inevitabilmente sulle tariffe. Personalmente sono convinto che se si sviluppasse una vera partnership tra impresa committente, impresa fornitrice e sindacati di categoria il costo potrebbe essere ammortizzato da una migliore gestione delle risorse, dei comportamenti pretesi e una maggiore qualità del servizio. Tutti argomenti che potrebbero essere compresi in un nuova visione di un contratto di lavoro più coraggioso che guarda al futuro e non al passato. Altrimenti si può continuare così. Dispiacendosi per le conseguenze e continuando a girare la testa dall’altra parte. Occorre però sapere che la brace che cova sotto quel comparto è una delle risposte che un sistema lasciato degenerare porta con sé. E che prima o poi rischia di coinvolgere tutti.

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