Una “causa” giusta in un momento sbagliato?

La recente sentenza che impone la restituzione della mancata indicizzazione delle pensioni pone una serie di questioni serie che andrebbero affrontate sia da chi si è battuto contro la decisione del Governo Monti sia da chi, forse con troppa fretta, ne proclama la illegittimità. Due categorie si sono particolarmente distinte. Gli opportunisti e i moralizzatori. Tra i primi occorre annoverare i parlamentari che allora votarono a favore del provvedimento e oggi si ergono a paladini della restituzione totale e immediata del maltolto. Tra i secondi chi, con troppa facilità liquida il problema ritenendolo dannoso per le finanze pubbliche e prodotto dei privilegi del sistema retributivo. Personalmente non condivido entrambe le tesi. La prima perché urlare oggi quello che si è sommessamente accettato poco tempo fa è immorale. La seconda perché occorrerebbero argomenti ben più sostanziosi che attaccarsi alla “cassa vuota” o lamentare altrui privilegi. Io credo che il problema sia, al contrario, molto serio.
1) il patto tra cittadino e Stato. L’ammontare della pensione è il risultato di un contesto legislativo dato. Non da una rapina a mano armata. Se quel patto deve essere rimesso in discussione non può riguardare solo alcuni contraenti ma tutti. Il parametro non può essere il reddito. È un parametro semplice ma profondamente sbagliato.
2) la restituzione del maltolto. Non possono esserci dubbi. Ciò che è stàto sottratto deve essere restituito. Si può discutere sul come è sul quando. Non sul se. Non è serio.
3) non ci sono le risorse. È una logica aberrante. Siccome non ci sarebbero le risorse si toglie a chi si presenta alla cassa in quel momento.
4) il retributivo è un privilegio. Altra follia. Prima dell’euro uno stipendio di 5 milioni al mese era uno stipendio importante. Lo sono 2500 euro di oggi? E cosa saranno tra dieci anni? Il retributivo è solo servito a correggere questi rischi. Ma i giovani avranno solo il contributivo. Chi lo dice? Ma veramente qualcuno di buon senso può pensare che fra trent’anni esisteranno solo pensioni da fame? Nessuno in buona fede può raccontarci queste favole. Così come oggi si è affrontato il tema degli esodati così in futuro ritornerà d’attualità il sistema previdenziale e il suo equilibrio sociale oltreché economico.
E allora che fare?
Condivido l’approccio del sindacato dei dirigenti (Manageritalia e federmanager).
Primo. Un torto è un torto e va superato. Come? Negoziando contenuto e gradualità necessaria. Con chi? Con chi ha promosso la causa. Come si fa quando i problemi si vogliono risolvere.

Sindacato confederale tra declino e nuove prospettive

Il declino della concertazione, la mancanza di lavoro stabile e l’attivismo del Governo rischiano inevitabilmente di mettere in soffitta le aspirazioni di rilancio dell’iniziativa sindacale. È certo che un’epoca si è chiusa. Conflitto e contrapposizione, pur legittimi e fisiologici, tendono a caratterizzarsi sempre più come fenomeni locali o, al massimo, a “macchia di leopardo”. Le stesse forze politiche che tradizionalmente li sostengono non sembrano più in grado di incanalarli in un nuovo progetto politico. E, nonostante tutti i tentativi di presentare questo evidente malessere come inevitabilmente propedeutico a prossime rotture della coesione sociale, generazionale e territoriale tutto questo non sembra affatto essere all’ordine del giorno. Né prossimo a venire. Anzi. Ovviamente questo non deve essere sottovalutato ma, semmai, costituire motivo di stimolo per ricreare le condizioni di un riposizionamento del movimento sindacale di matrice riformista. Se poi a questo aggiungiamo che difficilmente esisteranno per lungo tempo margini redistributivi apprezzabili ci rendiamo conto che la necessità di riposizionamento strategico, organizzativo e culturale diventa fondamentale per evitare il declino. Da un lato l’azione del Governo dovrebbe spingere i corpi intermedi, tutti i corpi intermedi, a porsi nella prospettiva di essere concretamente dei veri e propri contrappesi sociali fondamentali nel contesto istituzionale e politico che si va affermando. Non è tempo di battaglie di retroguardia su supposti ruoli e rendite di posizione delle singole organizzazioni. La stessa riflessione sull’articolo 39 della Costituzione può aiutarci ad andare in questa direzione. Ma una nuova stagione di unità non può avvenire limitandosi a sommare le rispettive debolezze ma dovrebbe fare perno su una nuova strategia. E questa strategia non può che far leva su un modello innovativo che noi chiamiamo di “collaborazione intraprendente”. Un modello di relazione che consente di condividere rischi e opportunità tra impresa e lavoro. Ma anche con gli altri soggetti che interagiscono nella filiera che oggi, più che mai, è il luogo dove si crea valore. Dal produttore al consumatore finale. È da qui che bisogna partire. Tra lavoratori e impresa, tra sindacati e Governo, tra sindacati e istituzioni locali. Ma questo impone una strategia unitaria. E quindi la necessità di una nuova stagione di unità sindacale. Ai leader di oggi il dovere di crederci.

Le pensioni e monsieur de la Palice di Maurizio Benetti

Mettiamo insieme due titoli di giornali dei giorni scorsi. “Boeri, Ci sono pensioni molto alte non giustificate dai contributi” e “Fondo speciale ferrovieri, il 96% delle pensioni è superiore ai contributi” e poniamoci la domanda qual è la vera notizia giornalistica?

La vera notizia, almeno per chi conosce il sistema pensionistico, è che vi sia una parte delle pensioni calcolate con il retributivo che trova corrispondenza nei contributi versati. Ci si può, infatti, domandare come sia potuta accadere una simile anomalia in un sistema in cui il calcolo della pensione prescindeva dall’aliquota contributiva (vedi dipendenti e autonomi), si basava sugli ultimi anni di retribuzione (ultimo anno nel pubblico impiego) e non considerava l’età di pensionamento.

Trovare una corrispondenza tra ammontare della pensione e contributi versati in un sistema simile ha del miracoloso ed è certamente meritevole di analisi come tutti i fenomeni simili.

Veniamo all’aggettivo che usa Boeri, (non) giustificate. Se è usato in un’accezione tecnica è, come detto, lapalissiano, se è usato in termini “morali” non ha alcun senso. Chi è andato in pensione con il retributivo vi è andato con regole fissate dal Parlamento e che il Parlamento ha difeso per decenni a fronte di vari tentativi di riforma tutti falliti fino al 1992.

Le scelte di pensionamento (quando il pensionamento non è stato imposto) sono state fatte in base a quelle norme sia in relazione all’età sia in relazione all’ammontare della pensione; norme diverse avrebbero probabilmente portato a scelte diverse, qual è il senso, e l’equità, di metterle in discussione oggi? Riammettiamo al lavoro coloro che lo richiedono perché giudicano troppo bassa la pensione ricalcolata?

Vi sono stati certamente episodi di leggi che potremmo definire ad personam e che hanno determinato situazioni di privilegio abnorme e limitato ad alcune persone. La possibilità di passaggio per i dirigenti dell’Ente telefonico di stato dal Fondo per dirigenti (con tetto pensionistico) al Fondo telefonico (senza tetto) o la possibilità data per un certo periodo ai componenti delle Authority di unire gli anni di incarico presso le Authority stesse ai precedenti periodi lavorativi ad esempio. Sono fatti che gridano vendetta, ma che riguardano poche decine di persone (ma quando il Parlamento e/o i governi hanno approvato queste norme tutti gli altri dove erano?).

Il resto dei lavoratori privati, pubblici e autonomi è andato in pensione con le regole generali. Sbagliate? Certo possiamo dire che le differenze di calcolo tra dipendenti pubblici e privati non erano giustificate, ma quando nel 1978 il ministro Scotti presentò una proposta per eliminare le disparità e le situazioni di privilegio scaturenti dalla pluralità dei regimi pensionistici esistenti il Parlamento non l’approvò. Così come possiamo dire che fu sbagliata nel 1990 la riforma previdenziale dei lavoratori autonomi che equiparò di fatto la modalità di calcolo della pensione degli autonomi a quella dei lavoratori dipendenti anche se i versamenti dei primi erano fortemente inferiori a quelli dei secondi (ma la riforma fu approvata da tutti i partiti).

L’esistenza di regole diverse, e in alcuni casi privilegiate, attribuisce semmai una colpa a chi ha fatto passare decenni prima di intervenire non a chi è andato in pensione in base alle normative “generali” vigenti.

Credo, quindi, che il ricalcolo proposto dal Presidente dell’Inps delle pensioni retributive sia sbagliato e non equo. Se sia poi possibile dal punto di vista giuridico sfugge alle mie conoscenze (immagino pareri opposti da illustri costituzionalisti), mentre dubito, per usare un eufemismo, che sia possibile dal punto di vista tecnico.

Essendomi occupato da molto tempo di pensioni ed avendo lavorato per sei anni in Inpdap ho sempre pensato che la proposta di Boeri, anticipata da S. Patriarca, sia tecnicamente molto difficile da attuare. L’operazione trasparenza fatta da Boeri con la pubblicazione delle analisi delle pensioni del fondo dei dirigenti e del fondo ferrovie conferma in pieno questa convinzione.

Un ricalcolo della pensione retributiva con il sistema contributivo richiede la conoscenza dell’intera vita retributiva dei soggetti interessati o, come si legge negli studi dell’Inps sui due fondi, “comporta la disponibilità delle informazioni relative a tutta la storia contributiva del lavoratore che nel caso di pensioni con decorrenza lontana nel tempo risulta assai difficoltosa”.

Come ha fatto, di fronte a questa difficoltà, l’Inps ad affermare che nel fondo ferrovie il 94% delle pensioni non corrisponde ai contributi versati? Leggiamo la nota metodologica contenuta nello studio. Intanto ha scelto fior da fiore prendendo in considerazione 50.000 pensioni che rappresentano 1/3 di tutte le pensioni erogate. Non sono state considerate le pensioni “di cui al momento è impossibile ricostruire la storia contributiva”. Per le pensioni considerate “sono stati colmati i vuoti delle informazioni retributive attribuendo a ciascun periodo da integrare, la retribuzione più vicina disponibile parametrata all’anzianità contributiva presente in ogni anno solare…”.

Tradotto si fa un’affermazione, “il 94% delle pensioni non corrisponde ai contributi versati”, riferita all’intera gestione sulla base di un campione non rappresentativo dell’universo e con una ricostruzione teorica e non reale della storia retributiva/contributiva dei soggetti interessati.

L’analisi sul fondo ferrovieri anticipa quello che avverrà certamente su tutti i fondi del pubblico impiego. L’analisi sarà limitata ad una parte ristretta delle pensioni di ogni gestione e le singole carriere retributive dovranno essere ricostruite con dati medi (del resto è quello che ha fatto Patriarca nel suo lavoro). La ragione della mancanza dei dati sulla storia contributiva dei pensionati, soprattutto nel settore pubblico, è indicata nella nota metodologica ricordata: “le posizioni assicurative dei contribuenti sono state acquisite tralasciando le informazioni retributive più lontane nel tempo non strettamente necessarie al calcolo della prestazione collegato alla media retributiva degli ultimi anni”.

Dal punto di vista di uno studio accademico la ricostruzione delle singole carriere con procedimenti statistici e con valori medi può avere un senso, ma se si vuole ricalcolare ogni singola pensione e applicare una ritenuta sulla differenza tra pensione retributiva e pensione contributiva il calcolo va fatto su dati reali e non su stime altrimenti si nega l’unico, discutibile, fondamento dell’operazione: commisurare la pensione ai contributi effettivamente versati.

E’ possibile ricostruire le carriere retributive di tutti i pensionati? Se penso ai faldoni cartacei dei professori presenti nel provveditorato agli studi di Roma non posso che fare gli auguri a chi vuol fare un’operazione del genere.

L’Inps pensa ad accordi con le diverse amministrazioni. Il punto è che molti dati sono su carta e che molti lavoratori sono passati da una amministrazione ad un’altra. Un programma, quindi, necessariamente lungo, complesso e dagli esiti incerti.

Se le difficoltà nel settore pubblico sono certe, qual è la situazione nelle altre gestioni Inps di dipendenti e autonomi? E’ così scontato che ci siano i dati necessari? A giudicare dall’ex-Inpdai si direbbe di no, anche in questo caso secondo la nota metodologica dello studio si è proceduto alla ricostruzione statistica di una parte della storia contributiva.

Si può fare una operazione di ricalcolo a fini di stabilire una contribuzione individuale sulla base di una ricostruzione teorica? Si può fare un’operazione di ricalcolo limitata solo alle pensioni di cui è possibile ricostruire la storia contributiva?

L’idea del ricalcolo nasce (vedi articoli di Patriarca e Boeri) come strumento per ottenere risorse per effettuare altri interventi. Si dice che calcolare un contributo sulla differenza tra pensione percepita e pensione calcolata con il contributivo abbia un elemento di equità. Si colpisce un di più non “giustificato” dai contributi. Come detto quell’aggettivo è usato impropriamente. Le pensioni in essere sono tutte giustificate rispetto alle norme di volta in volta esistenti.

Ma di quante risorse parliamo? Ovviamente dipende dalla percentuale del contributo e dal livello delle pensioni a cui il ricalcolo, se possibile, fosse applicato. Quando Boeri dichiara che ci sono pensioni molto alte non giustificate dai contributi fa una dichiarazione priva di alcun senso, e solo demagogica, ai fini del reperimento di risorse. Se si riferisse alle poche decine di persone che hanno goduto delle norme ad personam ricordate, anche un contributo espropriativo darebbe poche decine di milioni. Per passare alle centinaia di milioni bisognerebbe scendere sotto i 5.000 euro lordi, per arrivare ai miliardi di euro, bisogna scendere fino ai 2.000 euro di pensione lorda.

Patriarca e Boeri nel loro articolo sulla Voce hanno stimato un gettito di 4,2 miliardi di euro se il prelievo è esteso alle pensioni fino a 2.000 euro lordi. Gli autori si dimenticano che questo gettito sarebbe solo teorico in quanto ad esso va sottratta la perdita di entrate fiscali stimabili in più di 1,7 mld. Le risorse nette disponibili sarebbero quindi pari a 2,5 mld. Il 54% di queste risorse, secondo i loro calcoli, deriverebbe dal contributo richiesto alle pensioni tra i 2.000 e i 3.000 euro lordi, ossia a pensioni tra i 1.500 e i 2.200 euro netti. Dalle pensioni sopra i 5.000 euro arriverebbero meno di 500 milioni netti. Se si vogliono risorse dell’ammontare di miliardi bisogna lasciar stare la storiella della pensioni alte o d’oro, vanno coinvolte le pensioni medie e basse. Sarebbe corretto dirlo.

Vi è certamente il problema di flessibilizzare l’uscita dal mercato del lavoro così come è necessario affrontare il problema della copertura reddituale dei ultracinquantacinquenni che perdono il lavoro ma secondo quale logica le risorse, o parte di esse, dovrebbero arrivare da un contributo sulle pensioni in essere? O è un intervento di tipo assicurativo e allora va coperto con contributi o un intervento di tipo assistenziale e allora va coperto con la fiscalità generale.

Il Presidente dell’Inps ha iniziato l’operazione trasparenza con un documento sul FondoSpeciale per il Trasporto Aereo denunciando il fatto che l’attuale finanziamento al Fondo è oggi costituito per la quasi la totalità dai proventi dell’imposizione fiscale sui passeggeri degli aerei. Ora propone un’imposizione fiscale mascherata sulle pensioni per alimentare un fondo per chi perde il lavoro, potremmo allora proporre un contributo sulle retribuzioni dei docenti universitari per finanziare borse di studio. A quanto pare anche Boeri non sa proporre altro che un ennesimo balzello, ingiustificato e di dubbia attuazione.

Le pensioni quindi debbono uscire indenni dall’attuale situazione economica? Ricordiamo in primo luogo che le pensioni sono state tosate abbondantemente dal blocco della perequazione operato da Monti-Fornero e che l’attuale forma di indicizzazione produce una perdita continua di valore reale per tutte le pensioni superiori a tre volte il minimo, perdita crescente con l’aumentare dell’importo della pensione. Se vi è la necessità di una “partecipazione” delle pensioni “più elevate” alle manovre di bilancio la strada corretta è quella fiscale coinvolgendo tutti i redditi non solo quelli da pensione.

C’è solo un caso in cui, a mio avviso, trova giustificazione un contributo specifico sulle pensioni. Non è in discussione la legittimità delle pensioni retributive, ma non vi è dubbio che il passaggio al contributivo segna una rottura intergenerazionale. La mia generazione ha pagato con i propri contributi la pensione ai suoi genitori percependo poi una pensione calcolata con le stesse regole. I nostri figli pagano la nostra pensione con i loro contributi ma andranno in pensione con regole diverse e sensibilmente peggiori. Allora l’unica destinazione di un eventuale contributo sulle pensioni non può essere usato per interventi a favore delle stesse generazioni dei pensionati o a generazioni vicine ma deve essere rivolto a favore delle pensioni contributive per aumentare il loro importo.

Un movimentismo che non convince di Raffaele Morese

Landini fa indubbiamente discutere. Forse fin troppo. E intanto lui mobilita su parole d’ordine che passano in seconda fila rispetto a ciò che fa intendere ma che non conferma. A parte le invettive nei confronti di Renzi e la lunga lista dei mali del Paese, che proponga un nuovo Statuto dei lavori, il rilancio della riduzione dell’orario di lavoro, la ricomposizione del mondo del lavoro, una diversa democrazia nel sindacato, all’opinione pubblica interessa poco. Interessa di più sapere se quella ”coalizione sociale” c’è e se si vuole trasformare in partito. A Landini questo interesse deviante non piace, lo grida ai quattro venti e non c’è motivo per dubitare della sua sincerità. E’ e vuole rimanere sindacalista.

Ma sono in tanti a non credergli. E la responsabilità non è di questi tanti, fra i quali ci sono anche molti lavoratori, ma sua. E’ lui che deve chiarire con dei fatti qual è la strategia che vuole portare avanti. Se no rischia di ingarbugliarsi. Certo, rivendica la “politicità” del fare sindacato. Non è tematica nuova; però deve fare i conti con le mutate condizioni del Paese e del lavoro. La massima politicità dell’azione sindacale moderna fu espressa tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 90. Tra la lunga cavalcata del sindacalismo rivendicativo e il suo approdo alla concertazione. Avvenne perché il sindacalismo confederale – liberatosi dalla logica della guerra fredda e della cinghia di trasmissione tra partito e sindacato – fece del contrattualismo (e non della legge) la sua bandiera, dell’autonomia la sua identità e dell’unità la sua forza.

In una situazione in cui il contrattualismo langue, l’autonomia ripiega nel corporativismo e l’unità è un ricordo del passato, la “politicità” del sindacato o è pura velleità o è preludio alla sua trasformazione partitica. D’altronde, le parole d’ordine che resero autorevole e di massa il sindacato dei Lama, Benvenuto e Carniti avevano un carisma in sé, frutto di una paziente e ricercata cucitura di culture diverse che si rispettavano tra loro e diventavano il valore aggiunto della tenuta unitaria dei lavoratori. I leaders servono a questo, a proporre quel passo in avanti che trascina l’insieme dei loro rappresentati. E nessuno può sostenere che i gruppi dirigenti della Cisl, della Cgil e della Uil di quegli anni avessero perso la loro identità originaria.

Eppure, Landini nel finale del suo discorso a Piazza del Popolo, ha detto di ispirarsi a Trentin. Questo ha irritato molto Marcelle Padovani, intellettuale e giornalista raffinata e moglie di Bruno (vedere Corriere della sera del 29 marzo 2015). E non le si può dare torto. Uno dei libri può meditati di Trentin aveva un titolo emblematico: Da sfruttati a produttori. La sua visione dell’evoluzione del peso e del ruolo dei lavoratori italiani non portava alla cogestione, ma alla partecipazione sì. Alla partecipazione consapevole, responsabile, schietta che era anche uno dei cavalli di battaglia della Cisl di Carniti, benché anche lui avesse alle spalle una stagione di dura radicalità. Landini, invece, sembra privilegiare un antagonismo conflittuale, un primato del movimentismo che non si rifà al pensiero di Trentin ma che non trova riscontro nella gran parte delle realtà del lavoro e negli accordi aziendali che firmano anche i delegati della Fiom. Né l’antagonismo conflittuale, ammesso che abbia una sua forza d’affermazione, può diventare l’asse portante di una “coalizione sociale” che pretenda di diventare egemonica nel Paese. Soltanto il sospetto che non riesca a creare le minime condizioni per coagulare il mondo del lavoro, fa perdere di efficacia all’obiettivo di mettere insieme i tanti mondi che vogliono più giustizia sociale e maggiore democrazia.

Infatti, in ogni campo della vita pubblica e associativa, la dialettica tra il “meglio” e il “possibile” non si risolve con una divisione dei ruoli. C’è chi tiene alto il vessillo dell’intransigenza e chi sventola la bandiera della mediazione. E’ un taylorismo della ragione che porta soltanto all’indebolimento della capacità persuasiva del sindacato e della sua improduttività negoziale. Finanche il giovane Presidente del Consiglio greco, che ha vinto le elezioni puntando al “meglio”, oggi sta spiegando ai suoi concittadini – che non vogliono abbandonare l’euro – che si può fare soltanto il “possibile”. Vale anche per il sindacalismo italiano che ha l’opportunità dell’inizio dell’uscita dalla crisi per ridisegnare la propria strategia rivendicativa e la propria area di rappresentanza.

Le due cose vanno insieme sia perché c’è bisogno di redistribuire ricchezza e occupazione pigiando sul pedale della fiscalità piuttosto che su quello dei salari, azionando meno la leva legislativa e di più quella contrattuale per dare lavoro, sia perché occorre allargare l’area dell’ascolto e della rappresentanza a quei settori del lavoro finora a basso tasso di visibilità, innovando le modalità di formazione dei gruppi dirigenti sindacali nei luoghi di lavoro. Fare emergere obiettivi condivisi e possibilmente unitari, in questi territori propri dell’azione del sindacato, potrà essere più efficace che continuare a procedere in ordine sparso. Vale anche per i sindacalisti, l’affermazione di un grande atleta come Pietro Mennea: “per raggiungere grandi sogni, bisogna fare grande fatica”.

L’Italia vista dal Censis di Ferruccio Pelos

Il 5 dicembre 2014 il Censis ha presentato il 48° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese. Scrivere queste note alcuni giorni dopo l’evento ci ha permesso anche la lettura dei capitoli iniziali e di quelli sulle tematiche più vicine all’attività di Nuovi Lavori, consentendoci l’estrapolazione di tutti i dati, per noi rilevanti, che in genere non vengono affrontati in una presentazione. Anche quest’anno, infatti, hanno prevalso in quella sede le immagini forti delle analisi, delle tendenze e dei processi in atto nella società italiana: “Il Paese delle sette giare”, “Una società satura dal capitale inagito”, “Rischio deflazione delle aspettative”, “L’attendismo cinico delle famiglie liquide” e così via. Andiamo con ordine, nella lettura della fotografia 2014 dell’Italia, tra gli innumerevoli percorsi e dati che il poderoso volume ci offre.

Partiamo dalle “Considerazioni generali” del Rapporto.

Siamo una società liquida in un sistema liquido. Senza cultura e ordine sistemico, i singoli soggetti si sentono abbandonati in una obbligata solitudine: vale per l’imprenditore come per la famiglia. E si fa strada un fatalismo cinico. Dice il Rapporto del Censis: ” La profonda crisi della cultura sistemica induce a una ulteriore propensione della nostra società a vivere in orizzontale. Interessi e comportamenti individuali e collettivi si aggregano in mondi non dialoganti. Non comunicando in verticale, restano mondi che vivono in se stessi e di se stessi. L’attuale realtà italiana si può definire come una «società delle sette giare», cioè contenitori caratterizzati da una ricca potenza interna, mondi in cui le dinamiche più significative avvengono all’interno del loro parallelo sobollire, ma senza processi esterni di scambio e di dialettica. Le sette giare sono: i poteri sovranazionali, la politica nazionale, le sedi istituzionali, le minoranze vitali, la gente del quotidiano, il sommerso, il mondo della comunicazione”.

Per il Rapporto le sette giare “vanno connesse tramite una crescita della politica come funzione di rispecchiamento e orientamento della società, come arte di guida e non coazione di comando, riprendendo la sua funzione di promotore dell’interesse collettivo, se si vuole evitare che la dinamica tutta interna alle sette giare porti a una perdita di energia collettiva, a una inerte accettazione dell’esistente, al consolidamento della deflazione che stiamo attraversando. Una deflazione economica, ma anche delle aspettative individuali e collettive, della mobilità verticale individuale e di gruppo, della rappresentanza degli interessi, della capacità di governo ordinario (malgrado la proliferazione decretizia di tipo verticistico)”.

Il capitolo «La società italiana al 2014» è intitolato: “Una società satura dal capitale inagito, rischio deflazione delle aspettative” e ha come sottotitoli: “Desideri sospesi per famiglie e imprese. Contante, soldi fermi sui conti correnti e ri-sommersione nel nero come strategie adattative di fronte all’incertezza. Investimenti ai minimi dal dopoguerra, ma crescono patrimonio e liquidità delle imprese che ce l’hanno fatta. È l’Italia del «bado solo a me stesso».

Dopo la paura della crisi, e convinti che il grosso della crisi sia alle spalle, tra gli italiani prevale l’incertezza. Quindi le famiglie incrementano i contanti e i depositi bancari. A giugno 2014 questa liquidità è cresciuta fino a 1.219 miliardi di euro. Si risparmia perché si ha paura di imprevisti, tipo la perdita del lavoro o una malattia, o perché c’è voglia di sentirsi le spalle coperte. Si vogliono tenere i soldi vicini per ogni evenienza. La gestione del contante è una risposta all’incertezza; ma il contante vuol dire anche informale, nero, sommerso, reddito non tassato. In Italia si continua a pensare che per riuscire nella vita servano le conoscenze giuste o il provenire da una famiglia benestante; solo il 7% pensa all’intelligenza come fattore per l’ascesa sociale ed è il valore più basso in tutta l’U. E..

Dal 2008 si è registrata una flessione degli investimenti di circa un quarto. Si sono ridotti gli investimenti in hardware, costruzioni, mezzi di trasporto, macchinari e attrezzature. Dal 2007 al 2013 la mancata spesa per investimenti è stata superiore a 333 miliardi di euro. L’incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil si è ridotta al 17,8%: il minimo dal dopoguerra (16,4% nel 1947, 17,3% nel 1948, poi 19,1% nel 1949). Ma questa flessione delle spese produttive, dovuta alla recessione e alle aspettative negative, non ha voluto dire un analogo peggioramento dei conti delle imprese che hanno tenuto. Dal 2008 a oggi il margine operativo lordo delle imprese è rimasto elevato, il patrimonio netto delle imprese è aumentato, come le risorse liquide disponibili, passate dai 238 miliardi di euro del 2008 ai 279 miliardi del 2013 (+17,3%). Il grande capitalismo familiare italiano appare declinante, mentre cresce il microcapitalismo di territorio. Nel primo semestre del 2014 le esportazioni degli oltre 100 distretti industriali sono cresciute quasi 4 volte in più di quelle dell’export manifatturiero.

Si dissipa il capitale umano, che non riesce a diventare energia lavorativa; siamo cioè un paese dal capitale inagito che non utilizza i propri talenti. Ai 3 milioni di disoccupati vanno aggiunti 1,8 milioni di inattivi scoraggiati e 3 milioni di persone disponibili a lavorare, anche se non cercano attivamente un impiego. Sono quasi 8 milioni di persone: un enorme capitale umano non utilizzato. I giovani tra 15 e 34 anni sono il 50,9% dei disoccupati totali, e i NEET (15-29 anni) crescono da 1.832.000 nel 2007 a 2.415.000 nel 2013. Va poi aggiunto il capitale umano sottoutilizzato rappresentato dai 2.500.000 occupati part time involontari ( dato del 2013, raddoppiati rispetto al 2007) e dagli occupati in CIG (1,2 milioni di ore, equivalenti a 240.000 lavoratori sottoutilizzati. Il capitale umano sottoinquadrato, detto anche fenomeno dell’overeducation (lavoratori con posizioni per le quali sarebbe sufficiente un titolo di studio inferiore a quello posseduto), riguarda più di 4 milioni, il 19,5% dei lavoratori occupati. Tra di essi anche i laureati in scienze economiche e statistiche e anche un ingegnere su tre.

Il capitale inagito riguarda anche il patrimonio culturale del paese che viene messo a valore per una parte molto esigua. Paesi con minore patrimonio del nostro (Regno Unito, Francia, Germania, ecc.) hanno quasi tutti, mediamente il doppio degli occupati e del valore aggiunto e conoscono anche, a differenza nostra, un forte sviluppo del settore.

La estraneità dei soggetti alle dinamiche di sistema risalta nel rapporto con i media digitali personali. A fronte del 63,5% di italiani che utilizzano internet, gli utenti dei social network sono il 49% della popolazione e arrivano all’80% tra i più giovani di 14-29 anni. Delle 4,7 ore al giorno trascorse mediamente dagli italiani sul web, 2 ore sono dedicate ai social network. E il numero di chi accede a internet tramite telefono cellulare in un giorno medio (7,4 milioni di persone) è ormai più alto di quanti accedono solo da pc (5,3 milioni) o da entrambi (7,2 milioni). “La pratica diffusa del selfie è l’evidenza fenomenologica della concezione dei media come specchi introflessi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé”. “Non è contraddittorio quindi il dato che emerge da una rilevazione del Censis secondo cui la solitudine è oggi una componente strutturale della vita delle persone: il 47% degli italiani dichiara di rimanere solo durante il giorno per una media quotidiana di solitudine pari a 5 ore e 10 minuti. È come se ogni italiano vivesse in media 78 giorni di isolamento in un anno, senza la presenza fisica di alcuna altra persona”.

Di fronte a 86 decreti approvati dal Consiglio dei ministri dal 2011 ad oggi, il Censis parla della “trappola della promessa che non si traduce in processi reali (amministrativi, economici, sociali), il ricorso alla decretazione, l’aggiramento da parte della politica dei corpi intermedi e il parlare direttamente ai cittadini non hanno però portato al decollo dello sviluppo e dell’occupazione”.

Negli anni della crisi si sono ampliate le disuguaglianze sociali, il ceto medio si è indebolito, le opportunità di integrazione sono diminuite. Ed è grave lo slittamento verso il basso delle grandi città del Sud.

Gli immigrati imprenditori continuano a mostrare segnali di vitalità, soprattutto nel commercio e nell’artigianato. Nei sette anni della crisi, le imprese con titolare extracomunitario sono aumentate del 31,4%, mentre quelle gestite da italiani sono diminuite del 10%.

Prima della crisi gli investimenti diretti esteri si erano attestati su un livello superiore ai 30 miliardi di euro all’anno. Nel 2013 sono stati pari a 12,4 miliardi. È diminuita la nostra capacità di attrarre capitali stranieri per quegli investimenti che potrebbero rilanciare la crescita e favorire l’occupazione. Pesa lo svantaggio competitivo rappresentato dalle lungaggini delle procedure autorizzative per ottenere permessi e concessioni, e da quelle della giustizia civile quando si tratta di far valere un contratto commerciale.

Gli italiani si fidano poco dei poteri europei. Il nostro Paese pesa per il 12% in termini di popolazione sul totale dell’Unione a 28 Stati, ma nella mappa delle principali istituzioni europee gli italiani che oggi occupano posizioni di vertice sono 178 su 2.242 (l’8% del totale). Su 700 lobby attive in ambito finanziario a Bruxelles, più di 140 sono riconducibili al Regno Unito, mentre solo 30 organizzazioni sono italiane, a dimostrazione della nostra scarsa capacità di incidere nelle sedi strategiche di decisione.

L’interesse suscitato all’estero dall’Italia, sebbene non adeguatamente sfruttato, non conosce crisi. Siamo la quinta destinazione turistica al mondo, con 186,1 milioni di presenze turistiche straniere nel 2013 e 20,7 miliardi di euro spesi (+6,8% rispetto al 2012). L’export delle 4 A del made in Italy (alimentari, abbigliamento, arredo-casa e automazione) è aumentato del 30,1% tra il 2009 e il 2013.

Il successo di cibo e vini italiani nel mondo è uno degli indicatori più significativi del fortissimo appeal del nostro stile di vita. L’Italian food, inteso come “rapporto con il territorio, autenticità, qualità, sostenibilità, è uno straordinario ambasciatore del nostro Paese nel mondo globalizzato”. Il made in Italy agroalimentare è una delle componenti più dinamiche dell’export: 27,4 miliardi di euro nel 2013, con un aumento del 26,9% rispetto al 2007.

Nel Capitolo “Lavoro, professionalità, rappresentanze” del Rapporto si esamina il tema dell’occupazione e di come esso rivesta un dato di debolezza e di emergenza ormai permanente.

Una costante consolidata nei vari paesi europei è che più è alto il tasso di occupazione, più è alta la quota dei contratti part time e dei contratti a tempo determinato. Da noi, nel 2013, il tasso di occupazione ha toccato il 59,8%, con il part time a quota 17,9% e i contratti a termine al 13,2% del totale.

In questi anni di crisi molte aziende hanno avviato processi di ristrutturazione, cambiando l’organizzazione aziendale, assumendo nuove professionalità e riqualificando il personale. Si sono rivisti i processi di lavoro, gli orari, il sistema di valutazione e i meccanismi premiali, con l’obiettivo di rimettere il lavoro in movimento, ripartendo dal valore delle competenze.

Anche tra i giovani cresce l’intenzione di crearsi il lavoro, in particolare partendo dalle maggiori opportunità favorite dalle nuove tecnologie: il 22% ha avviato una start up o intende seriamente farlo nei prossimi anni.

L’ultima riforma delle pensioni ha prodotto dal 2011 ad oggi questo risultato: + 19,1% di occupati over 50 e – 11,5% di occupati di chi ha un’età inferiore ai 50 anni. Tra gli inattivi over 50 (17 milioni) ben 14 milioni si dichiarano indisponibili al lavoro Circa 700.000 over 50 (di cui più della metà donne) non cercano lavoro, ma sarebbero disponibili a lavorare a certe condizioni, per potere integrare il reddito o affrontare spese impreviste.

Mentre ieri le identità lavorative erano nette, con profili tipo operaio, impiegato, professionista, ecc., oggi sono sempre più ibride con identità e aree di lavoro che interessano ormai circa 3,4 milioni di occupati (15,1%) fatti di temporanei, intermittenti, collaboratori, finte partite Iva e pestatori d’opera occasionale. Tra gli occupati di 15-24 anni la quota di ibridi supera la maggioranza con il 50,7%. Aumentano anche i tempi di non lavoro, con entrate e uscite dall’attività lavorativa. Il lavoro diventa una somma di esperienze, spesso intermittenti che non danno più percorsi di identità professionale. Conseguentemente anche i soggetti di rappresentanza vanno in crisi di identità, perché svuotati di ruolo e perché incapaci di portare a unico modello di riferimento realtà sociali sempre più complesse e poliedriche.

Nel Capitolo “I soggetti economici dello sviluppo” è il manifatturiero italiano ad essere messo sotto esame. Tra il 2008 e la fine del 2014 sono chiuse più di 47.000 aziende manifatturiere (l’8% del totale). Questa tendenza non è finita: anche nel 2014 infatti la chiusure sono state 5.700 (-1,1%). Nonostante questa situazione l’export ha risultati molto positivi. In particolare i distretti produttivi hanno avuto incrementi importanti (+ 4,2% nel 1° semestre 2014) e nella prima parte del 2014 i valori dell’export distrettuale sono stati superiori a 42 miliardi di €, i più elevati di sempre.

Tra il 2009 e la prima metà del 2014 la nostra quota sul commercio mondiale è scesa dal 3,6% al 2,8%, ma stiamo risalendo sul versante export. Siamo l’undicesimo paese esportatore a livello mondiale e al quarto tra i paesi UE; a molti prodotti made in Italy viene associata la caratteristica di qualità e questa diventa la nuova strada per la competizione.

Il Censis esegue una radiografia territoriale delle imprese che evidenzia le strade che esse hanno intrapreso per uscire dalla crisi e per svilupparsi:

– investire in conoscenza e innovazione;

– creare reti manifatturiere più capillari e la diffusione di nuove competenze utili contro la crisi;

– attuare una commistione tra industria e servizi avanzati.

Il Rapporto individua nella “white economy” – l’insieme di servizi, prodotti e professionalità dedicate alla salute e al benessere delle persone – una nuova opportunità per il sistema paese. Già oggi questo sistema (servizi di cura, diagnostica, farmaci, ricerca in campo medico e farmacologico, tecnologie biomedicali, assistenza a malati, disabili e anziani) che fattura 186 miliardi di € all’anno, con 2,7 milioni di lavoratori occupati, fa prevedere una forte crescita.

Nel 2013 le spese complessive degli italiani sono su livelli inferiori a quelli dei primi anni 2000. Anche per il 2014 i consumi hanno registrato una variazione negativa, sia nel primo che nel secondo trimestre (-3,6% e – 2,9%). Dal 2010 tutte le voci sono in negativo, tranne quelle per la telefonia e le comunicazioni. Le famiglie cercano di ridurre gli sprechi, spendere meglio e risparmiare: infatti se per ipotesi esse disponessero di risorse più elevate, nel 77% dei casi le metterebbero da parte, vanificando in tal modo ogni effetto sulla propensione al consumo.

Dal braccio di ferro ad un patto di solidarietà di Raffaele Morese

Il braccio di ferro tra Governo e sindacalismo confederale è in pieno svolgimento. All’apparenza, hanno tutti buone ragioni per fare quello che fanno. Il Governo – ossessionato dalla persistenza di un cavallo che non vuole bere – tenta, blandisce le aspettative più recondite degli imprenditori e dei consumatori sia con il Jobs Act che con la legge di stabilità, tra l’altro considerati da Bruxelles ancora troppo poco sotto il profilo riformistico (e sappiamo cosa vuol dire questo termine in salsa filotedesca). I sindacati confederali, sia che facciano lo sciopero generale che non lo facciano, puntano i piedi. CGIL e UIL non fanno mistero della loro tenace opposizione alle scelte del Governo e quindi mettono sullo sfondo il lungo elenco delle richieste che pur avanzano. La CISL è decisamente orientata a dare selettività agli obiettivi e a ricercare i margini di una trattativa. E tutte e tre le confederazioni traggono motivi di conforto dai dati delle adesioni alle lotte e alle iniziative proclamate.

Ma non basta avere delle buone ragioni, se poi la realtà va in un’altra direzione. Anzi, nella stessa in cui è andata finora e cioè deprimentemente recessiva, come i misuratori congiunturali lasciano intravvedere. Così, quando fra qualche mese, diciamo in primavera, gli effetti psicologici e concreti delle scelte di questo finale d’anno non saranno in linea con le attese del Governo, non basterà puntare il dito contro i “gufi” per convincere un’opinione pubblica già ora sconcertata e per contenere le lotte sociali che la situazione alimenterà e amplierà. Quello sarà un momento complicato per il Governo che non appare provvisto di un piano B e che vedrà all’orizzonte la sagoma della Troika punitrice. Anche per questo, probabilmente, i toni della polemica governativa sullo sciopero e quelli di Renzi stesso si sono attenuati negli ultimi giorni.

Ma neanche per le organizzazioni sindacali i tempi si fanno più semplici. Le loro buone ragioni conclamate si infrangono sulla scogliera della inefficacia, sia che proclamino scioperi, sia che non li proclamino. Il tempo degli accordi separati non c’è più. C’è di meno anche quello della pura testimonianza ovvero del primato dell’identità. Sono prospettive logore nella testa della gente ma anche di molti militanti. La loro pretesa, sempre più pressante, è che si realizzino risultati concreti, legati alle esigenze immediate e prospettiche delle persone. Ma per questi risultati, bisognerebbe almeno rispolverare il vecchio slogan “marciare divisi e colpire uniti”. Lo perseguirono Buozzi, Di Vittorio e Pastore ed erano tempi di guerra fredda. Anche per loro valeva la regola che è difficile essere protagonisti efficaci e vincenti se ci si presenta divisi e disuniti. E forse, questa consapevolezza si sta facendo strada. Nei cortei e nei comizi dello sciopero generale del 12 dicembre, non si sono sentite invettive nei confronti della CISL (come in altri momenti), né da questa sono partite caricature dell’iniziativa mobilitativa o proclami di belligeranza.

Un primo banco di prova di un cambiamento di clima tra Governo e sindacati è l’attuazione dei decreti delegati previsti dal Jobs Act. Indipendentemente dalla forma che prenderà il confronto, molta della sostanza di quella legge è tutta da scrivere ed occorrerà una buona dose di volontà mediatoria da ambo le parti per raggiungere risultati soddisfacenti. Anzi, paradossalmente, i sindacati partono avvantaggiati perché alla prova della scrittura dei decreti delegati sono innanzitutto le reiterate dichiarazioni del Presidente del Consiglio che ha qualificato questo atto parlamentare come una pietra miliare nel superamento del dualismo nel mercato del lavoro italiano. Basterebbe sanzionare questo salto di qualità nel disboscamento delle varie forme di precariato, nella valorizzazione delle politiche attive come condizionatrici vere delle politiche passive e della ripartizione degli orari come argine alla prospettiva della disoccupazione per mettere tutti i veri riformisti nella condizione di riconoscersi in quel provvedimento legislativo.

La partita, però, non si chiude qui. Nella prospettiva di medio periodo – ma che si imposta a breve – c’è da far quadrare i conti tra un debito pubblico crescente e un tasso di occupazione decrescente. Le misure finora adottate, per il loro carattere strutturale, potranno avere efficacia nel tempo, difficilmente invertiranno la rotta di quei due macigni nel 2015. E quei macigni o si spostano con il contributo di tutti o resteranno una minaccia sulla stabilità della coesione sociale. Non un contributo qualsiasi ma un vero e proprio patto di solidarietà che riguardi i soggetti politico-istituzionali e le parti sociali e che sia tanto consistente come messaggio di fiducia da sconfiggere l’antipolitica evocata come cancro dal Presidente della Repubblica e alimentata dai fenomeni corruttivi come quelli cresciuti attorno al Campidoglio.

Di questo patto di solidarietà devono essere chiari gli obiettivi: ridurre il debito pubblico, occupare subito i giovani e devono essere esplicite le linee di azione. L’Europa deve fare la sua parte in fatto di investimenti, ma l’Italia deve trovare risorse aggiuntive per creare occupazione subito, nel corso del 2015. Quest’azione deve fare perno su una ridistribuzione della ricchezza nazionale che, chiedendo ai più ricchi un sacrificio temporaneo e straordinario, finanzi unicamente l’occupazione dei giovani in tutte le forme possibili ma soprattutto nei luoghi dove già ora si produce. Una ridistribuzione della ricchezza nazionale che serva a ridistribuire il tempo di lavoro, contrattualmente definito, non è una insensatezza ma la più realistica scelta per convincere tutti di tirare la carretta e soprattutto nella direzione giusta.

Un progetto da calibrare meglio e inserire in riforme strutturali di Raffaele Morese

Enrico Letta, sul finire del 2013, rientrò da Bruxelles con in tasca 500 milioni di euro da spendere subito per avviare al lavoro, sia pure nella forma del primo accostamento, i giovani NEET ed era proprio contento. Prefigurava già un’adesione di massa al progetto “Garanzia Giovani”, una entusiastica collaborazione delle Regioni, una massiccia mobilitazione di tutte le strutture pubbliche e private dedicate all’incontro tra domanda ed offerta del lavoro, tanto da azzardare un pronostico. Il progetto (nel frattempo ingrossato a 1,5 miliardi) avrebbe fatto varcare le porte delle aziende, degli enti, degli studi professionali, dell’associazionismo ad almeno 100.000 giovani entro un anno.

Nulla di tutto questo si è ancora concretizzato. L’adesione sta risultando stentata (su un bacino di oltre 2200000 di giovani, si sono iscritti poco più di 300000), la collaborazione si sviluppa come al solito a macchia di leopardo (si va dal 40% di adesioni di Marche e Friuli, al 10% della Liguria) , la mobilitazione non ha superato la soglia della routine (ci sono Regioni che non hanno ancora attivato gli avvisi per l’accompagnamento al lavoro). La scintilla non è scattata. La novità non ha alimentato energie nuove. Almeno finora. Ma, pur avendo presente che il percorso è soltanto all’inizio (il progetto scade nel 2015), ci sono buoni motivi per ritenere che lo scenario non cambierà in meglio, con il rischio concreto di non utilizzare tutte le risorse messe a disposizione. Questo sarebbe uno smacco cocente per il Governo italiano di fronte agli altri Paesi della UE, ma soprattutto rimarrebbe inevasa un’esigenza primaria di coinvolgimento dei giovani.

Ovviamente, se nei prossimi mesi, i fatti dovessero smentire questa opinione, ammetterei volentieri di essermi sbagliato. Ma piuttosto di rimanere in passiva attesa di vedere come finirà il film, sarebbe meglio ragionare sulle cause del grigio avvio e sugli interventi per aggiustare la rotta, per renderla più percorribile e per attivare interessamenti che finora sono stati piuttosto freddi. Per chiarezza va detto che “Garanzia Giovani” non va pensato come un progetto rigido, immodificabile; certo, bisogna sempre stare dentro i paletti posti da Bruxelles, ma l’adattabilità può essere praticata. Nello stesso tempo, va tenuto presente che è un progetto fortemente sperimentale e che troverà forma strutturale nei futuri PON del Fondo sociale europeo.

Non deve interessare unicamente l’individuazione di eventuali colpevoli. Le ragioni dell’insoddisfazione stanno in questioni strutturali che, se non rimosse, saranno sempre d’impaccio per un fluido circuito che unisca domanda ed offerta di lavoro. Ne cito due. La prima è culturale. I giovani, le loro famiglie non hanno confidenza con strumenti come questi nella loro ricerca di lavoro. Già hanno fatto le scelte di studio sulla scorta di opinioni e sentimenti raccolti in giro e che nulla hanno a che vedere con una ragionevole e meditata selezione delle varie tipologie di studi da intraprendere per collocarsi in posizione sincronica con le tendenze di mercato. Figurarsi se ritengono ovvio presentarsi ai centri per l’impiego, fare un colloquio d’orientamento e sulla base di questo confronto, optare per uno dei vari percorsi che sono a disposizione almeno per “annusare” il lavoro. Forse, la maggior parte degli interessati neanche sa cos’è “Garanzia Giovani” (il circuito dell’informazione non è stato capillare come la novità imponeva) e senza forse, comunque non è facilitato a prenderlo sul serio.

La seconda ragione è che la struttura di prima accoglienza, cioè il Centro per l’impiego, non sempre è attrezzato per far fronte ad un progetto di questo genere. Guai fare generalizzazioni, perché la mappa di questi punti istituzionali è veramente variegata. Ma, fatte le debite eccezioni, l’inadeguatezza sia in termini di qualità delle prestazioni che vengono richieste, sia di quantità delle risorse umane e strumentali disponibili è nota, viene da lontano e non si risolve con i pannicelli caldi.

Queste due questioni richiamano interventi che travalicano “Garanzia Giovani”. La prima sollecita la fermentazione di modalità e strumenti diffusi e resi familiari per orientare le opzioni di studio da parte dei giovani e delle loro famiglie, sin dalla scuola media inferiore. Non esiste ancora un sito che sia effettivamente conosciuto a livello capillare nelle scuole e che abitui i singoli studenti a “navigare” tra le varie opportunità scolastiche da scegliere in rapporto alle proprie vocazioni e alle prospettive di mercato. Chi ne fa le spese è la formazione professionale, schiacciata tra l’abbandono scolastico (ben il 24% degli iscritti a “Garanzia Giovani” si fermano al diploma di scuola media inferiore) e l’iscrizione ai licei. Con la conseguenza che tra i mestieri e le professioni che più soffrono di carenza di offerta vi sono quelli provenienti dalla formazione professionale.

La seconda questione porta dritto dritto alla delega iscritta nel Jobs Act per la realizzazione dell’Agenzia nazionale per l’occupazione. Il decreto delegato che la farà nascere rappresenterà un fatto innovativo ed utile alla condizione di non indulgere in improbabili rilanci pubblicistici della funzione di incontro tra domanda ed offerta di lavoro, ma di far nascere un nuovo Centro per l’Impiego, una sorta di “eta beta” locale, dotato di professionalità e strumenti per mettere sistematicamente in correlazione tutti i soggetti, pubblici e privati, interessati ad un buon funzionamento del mercato del lavoro. Soltanto in questa chiave si può apprezzare la nascita di una Agenzia nazionale come coordinatrice delle politiche attive e passive.

Nello stesso tempo, “Garanzia Giovani” potrebbe essere aggiornata sulla base dell’esperienza maturata in questi primi sei mesi. Per non correre l’alea di utilizzare soltanto in parte le risorse disponibili, sarebbe ragionevole una maggiore flessibilità nella distribuzione delle somme disponibili per tipologia di misure (accoglienza, formazione, apprendistato, tirocini, servizio civile nazionale, sostegno all’autoimpiego e all’autoimprenditorialità, mobilità transnazionale e territoriale). Solo a titolo di esempio, ma che ha una grande valenza sociale ed educativa, va ricordato che le domande per il servizio civile sono doppie rispetto a quelle che possono essere soddisfatte con le risorse proprie del Dipartimento della Gioventù. Tenendo conto che la rete di soggetti che attivano questo servizio è molto diffusa e collaudata, è meglio rafforzarne l’attrattività di esperienze piuttosto che far stagnare risorse in misure meno appetibili o meno utilizzate.

In definitiva, chi spara alzo zero su “Garanzia Giovani” fa soltanto un gran polverone. Ma anche chi suggerisce di procedere come se tutto andasse bene, fa la parte del medico pietoso. Le prime indicazioni dicono che si deve fare di più e meglio, sia nell’immediato che in prospettiva. Sia per la standardizzazione dei comportamenti delle Regioni, che per l’azione riformistica del Governo. Sia per la riqualificazione del ruolo pubblico, che per l’impegno degli operatori privati. Sia per attrarre ed orientare i giovani, che per spendere bene le risorse disponibili. E in attesa di un prossimo tagliando, mettere alla prova un po’ tutti.

Le dieci priorità di Juncker. Il programma della nuova commissione europea

Prima priorità: il rilancio dell’occupazione, della crescita e degli investimenti
Adottare un ambizioso pacchetto per l’occupazione, la crescita e gli investimenti da presentare entro tre mesi dall’inizio del nuovo mandato, nel contesto della revisione della Strategia 2020. L’obiettivo generale è quello di mobilitare 300 miliardi di euro da destinare agli investimenti per l’economia reale nei prossimi tre anni, attraverso un miglior utilizzo del bilancio Ue e il coinvolgimento della Banca europea degli investimenti (BEI). Gli investimenti addizionali devono essere dedicati ai grandi progetti (trasporto, energia, banda larga, ambiente, ecc.) ma anche al Sistema della Garanzia per i Giovani. Il riesame a metà percorso del Quadro finanziario pluriannuale Ue dovrebbe essere l’occasione di un nuovo orientamento del bilancio. Juncker chiede di rispettare il Patto di Crescita e di Stabilità traendo vantaggio dalla flessibilità offerta dai trattati esistenti. Un programma dettagliato a favore dell’Occupazione, della Crescita e dell’Investimento sarà presentato. Esso dovrebbe riposare essenzialmente su un quadro regolamentare adeguato e un clima favorevole alla creazione di imprese e di occupazione. Juncker ha dichiarato: “le PMI costituiscono la spina dorsale della nostra economia” e “creano oltre l’85% dei nuovi posti di lavoro in Europa”. Uno studio sarà affidato al primo vice-presidente della Commissione europea per identificare le normative, a livello nazionale ed europeo, che potrebbero essere ritirate a breve scadenza.

Seconda priorità: un mercato unico digitale connesso
Juncker ha presentato un programma digitale ambizioso per i primi sei mesi del suo mandato. L’approccio al digitale prevede una strategia politica orizzontale, che copra tutti i settori dell’economia e del settore pubblico. Per sfruttare al meglio le opportunità e le potenzialità delle tecnologie digitali, il nuovo Presidente propone di lavorare a un quadro normativo armonizzato “rimovendo le barriere nazionali per quanto riguarda le telecomunicazioni, il diritto d’autore e la protezione dei dati, nonché in tema di gestione delle onde radio e di applicazione del diritto della concorrenza”. La normativa che sarà proposta dovrà favorire la diffusione di una cultura digitale e l’emergenza di imprese specializzate per un guadagno complessivo di 250 miliardi di euro.

Terza priorità: un’Unione dell’energia resiliente con politiche lungimiranti in materia di cambiamenti climatici
La priorità di Juncker si concentra principalmente sulla sicurezza energetica e propone, da un lato, la riduzione della dipendenza dalle importazioni russe e, dall’altro, il rafforzamento delle politiche ambientali europee (sviluppo fonti rinnovabili, efficienza energetica) con l’obiettivo di un’Unione europea prima produttrice di fonti rinnovabili sul mercato globale. In previsione della Conferenza sul Clima (Parigi 2015), Juncker mira fondamentalmente al superamento degli obiettivi 2020 in tema di efficienza energetica.

Quarta priorità: un mercato interno più profondo e più equo con una base industriale più solida
La prima proposta di Juncker, nell’ambito del completamento del mercato interno dei beni e dei servizi, è di rinnovare la base industriale europea e di riportare il peso dell’industria sul PIL Ue dall’attuale 16% al 20% entro il 2020 orientando i maggiori investimenti nelle nuove tecnologie, migliorando il clima imprenditoriale, agevolando l’accesso ai mercati e ai finanziamenti, per le PMI in particolare, nonché garantendo un’adeguata formazione alle necessità delle imprese. Juncker prevede pertanto di favorire, da un lato, gli investimenti privati e, dall’altro, affrontare i problemi del settore bancario, con lo sviluppo di strumenti di controllo più severi. Nel lungo periodo, mira a completare le nuove norme europee sulle banche con l’Unione dei mercati dei capitali. Per sostenere l’accesso al credito propone di sviluppare ed integrare ulteriormente i mercati dei capitali, in modo da diminuire il costo della raccolta di fondi, in particolare per le PMI, contribuendo nel contempo a ridurre la fortissima dipendenza dal finanziamento bancario.
In tema di libera circolazione dei lavoratori, la mobilità della manodopera dovrà essere incoraggiata. A tal fine, la Direttiva sul distacco dei lavoratori dovrà essere attuata correttamente e sottoposta ad una revisione specifica per scongiurare il dumping sociale in Europa.
Infine, un’attenzione particolare sarà dedicata alla fiscalità in tema di lotta contro l’evasione e la frode fiscali attraverso l’adozione di una tassa sulle transazioni finanziarie (FTT), una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società mentre le regole europee contro il riciclaggio di denaro dovranno essere adottate al più presto.

Quinta priorità: un’Unione economica e monetaria più profonda e più equa
L’obiettivo è di migliorare il funzionamento dell’UEM e la convergenza delle politiche economiche, di bilancio e del mercato del lavoro tra gli Stati membri della zona euro continuando a lavorare sui quattro assi già delineati nel 2012: maggior integrazione finanziaria, maggior integrazione di bilancio, maggior integrazione economica e maggior integrazione politica. A tale fine, Juncker presenterà iniziative legislative per approfondire l’UEM, tra cui il riesame, nell’ottica della stabilità, delle norme del “six-pack” e del “two-pack”, proposte atte a incoraggiare il varo di altre riforme strutturali, se necessario mediante ulteriori incentivi finanziari e una capacità mirata di bilancio a livello di zona euro, e una proposta su una rappresentanza esterna più efficace dell’UEM.
Juncker ha inoltre proposto che, in futuro, qualsiasi programma di sostegno e di riforma implichi non solo una valutazione della sostenibilità di bilancio, ma anche una valutazione dell’impatto sociale. Si è dichiarato favorevole ad un’economia sociale di mercato.

Sesta priorità: un accordo realistico ed equilibrato di libero scambio con gli Stati Uniti
La priorità sarà la rimozione dei principali ostacoli al commercio con gli USA attraverso l’eliminazione dei dazi doganali e il riconoscimento reciproco delle norme, senza però sacrificare le norme europee relative alla sicurezza alimentare, la salute, la protezione dei dati personali e la diversità culturale europea. Juncker, inoltre, non accetterà che la giurisdizione dei tribunali degli Stati membri Ue sia limitata da regimi speciali applicabili tra investitori e Stati. Infine ribadisce l’importanza di una maggior trasparenza nel condurre i negoziati sia nei confronti dei cittadini che del Parlamento europeo.

Settima priorità: uno spazio di giustizia e di diritti fondamentali basato sulla reciproca fiducia
Per il rispetto dei diritti e dei valori previsti dal Trattato sul funzionamento dell’UE e dalla Carta dei diritti fondamentali, un Commissario avrà la delega alla Carta e sullo Stato di diritto (Rule of Law) e dovrà concludere l’adesione dell’Ue alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. I lavori sulle discriminazioni e la protezione dei dati saranno rafforzati, anche nelle relazioni con gli USA. La lotta contro la criminalità transfrontaliera e il terrorismo, nonché la cooperazione giudiziaria, saranno considerate delle priorità. Sarà quindi realizzata gradualmente la collaborazione giudiziaria tra Stati membri, sarà rafforzato Eurojust e verranno accelerate le procedure per rendere operativo il “Pubblico ministero europeo”.

Ottava priorità: verso una nuova politica della migrazione
Attuazione effettiva della politica comune in tema di asilo. Promozione di una nuova politica europea in tema d’immigrazione legale per porre rimedio ad un deficit di qualifiche e di demografia, la legislazione sulla “blue card” sarà rivista. La cooperazione in materia di riammissione relativa alla migrazione clandestina sarà una priorità, nonché la garanzia di confini sicuri attraverso un rafforzamento delle capacità di Frontex in uno spirito di solidarietà. Infine, la lotta al traffico di esseri umani sarà rafforzata.

Nona priorità: un ruolo più incisivo a livello mondiale
Affinché l’Europa sia più forte e più presente sulla scena internazionale, l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza Ue dovrà lavorare di concerto con i Commissari europei responsabili per il Commercio, lo Sviluppo e gli Aiuti umanitari e la Politica di vicinato, svolgendo un ruolo più incisivo nel Collegio dei Commissari. Per questo sarà affidato agli altri Commissari responsabili delle relazioni esterne il compito di sostituire l’Alto rappresentante sia nel Collegio che a livello internazionale.
Un’attenzione particolare sarà dedicata al tema della politica della difesa attraverso un rafforzamento della cooperazione tra Stati membri, mirando anche a rafforzare le sinergie nelle politiche di bilancio per quanto riguarda il materiale destinato all’armamento al fine di ridurre la duplicazione dei programmi esistenti.
Per quanto riguarda l’allargamento, Juncker esclude per i prossimi 5 anni ulteriori ingressi nell’Ue pur confermando che proseguiranno i negoziati in corso. Sarà approfondita la cooperazione con la Moldavia e l’Ucraina.

Decima priorità: un’Unione di cambiamento democratico
L’impegno è di instaurare un vero e proprio dialogo politico con il Parlamento europeo e non tecnocratico e intende inviare sistematicamente rappresentanti politici nei negoziati del “trilogo” (Commissione, Parlamento, Consiglio). Prevede di rafforzare il regime di trasparenza delle lobby e di migliorare il dialogo con i parlamenti nazionali, in modo tale da avvicinare l’Ue ai cittadini. Juncker intende procedere al riesame della legislazione applicabile all’autorizzazione degli OGM. In base alle norme attuali, la Commissione è giuridicamente obbligata ad autorizzare l’importazione e la trasformazione di nuovi organismi anche se una netta maggioranza di Stati membri si oppone. La Commissione dovrebbe poter dare al parere della maggioranza dei governi democraticamente eletti almeno lo stesso peso dei pareri scientifici.

Occupazione e situazione sociale nella UE

La ripresa economica iniziata nella primavera del 2013 resta fragile e gli sviluppi economici futuri sono tuttora incerti, come riportato nell’ultimo numero della Employment and Social Situation Quarterly Review (Rivista trimestrale sull’occupazione e la situazione sociale) della Commissione europea. La crescita della produzione, in particolare, è stata rallentata dalla debole performance delle tre principali economie: Germania, Francia e Italia.
Tra i grandi Stati membri, il reddito delle famiglie ha continuato a crescere in Germania e nel Regno Unito, mentre è diminuito in Italia, Polonia e Spagna.
La Rivista esamina anche le differenze relative alle disuguaglianze di reddito tra gli Stati membri e pone in risalto l’importanza dell’investire durante tutta la vita nell’acquisizione di competenze, al fine di migliorare l’occupabilità dei lavoratori.
L’occupazione ha continuato a crescere nella maggior parte dei settori dalla metà del 2013. Il numero di ore lavorate è aumentato e, per la prima volta dal 2011, si è avuto un piccolo aumento dei contratti a tempo pieno, oltre a miglioramenti per quanto riguarda la situazione dei giovani. Molti dei nuovi posti di lavoro creati sono però a tempo parziale o a tempo determinato.
L’Italia è anche il paese con il più basso tasso di attività, seguita da Romania e Malta (tutti e tre questi paesi sono al di sotto del 65%, quando il tasso medio di attività è del 72%). La Rivista fa notare anche che nei paesi con i più bassi tassi di attività si registrano anche i più bassi tassi di occupazione femminile.
La disoccupazione resta ancora a un livello prossimo al suo massimo storico, e i disoccupati di lungo periodo costituiscono una quota importante e crescente della disoccupazione totale: quasi 13 milioni di persone sono senza lavoro da più di un anno. Inoltre tra le persone disoccupate una su tre ha perso il lavoro da più di due anni.
La disoccupazione giovanile è leggermente diminuita in quasi tutti gli Stati membri, rimane tuttavia molto elevata in Grecia e in Spagna e addirittura continua a crescere in Italia. Tra coloro che lavorano, quasi la metà ha incarichi a tempo determinato e quasi un quarto ha un impiego a tempo parziale.
Come segnalato anche dall’OCSE, la rivista indica nell’istruzione formale, nella formazione e nelle competenze acquisite nel corso della vita la via per migliorare le probabilità di trovare un lavoro e di accedere a incarichi con migliori retribuzioni.

Programma di lavoro di MarianneThissen commissario europeo all’occupazione, affari sociali, competenze e mobilità dei lavoratori

Mercoledì 1 ottobre dalle 09:00 alle 12:00 Marianne THYSSEN (Belgio), Commissario designato all’Occupazione, Affari Sociali, Competenze e Mobilità dei lavoratori ha presentato il suo programma di lavoro davanti ai parlamentari europei delle commissioni occupazione e affari sociali (EMPL), diritti della donna e uguaglianza di genere (FEMM), cultura e istruzione (CULT).
Marianne Thyssen, ha illustrato le 4 priorità del suo programma: creare posti di lavoro; promuovere un accesso all’occupazione stabile e una migliore mobilità dei lavoratori; lavorare sulle qualifiche professionali; migliorare l’efficacia dei sistemi nazionali di protezione sociale e lottare contro l’esclusione sociale e la povertà.
Riguardo alla prima delle quattro priorità, il Commissario designato ha detto di voler mobilitare investimenti per la creazione di nuovi posti di lavoro (300 miliardi di euro) e accelerare l’Iniziativa per l’occupazione giovanile che stenta a partire. Thyssen ha inoltre affermato che la governance economica deve cambiare marcia e che durante il suo mandato si impegnerà a rilanciare il dialogo sociale tanto a livello europeo quanto a livello nazionale perché non si può prescindere dal dialogo con i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro per il rilancio dell’occupazione e dell’economia in Europa. Marianne Thyssen ha inoltre promesso di lavorare per dare più peso agli indicatori sociali nelle raccomandazioni economiche.
La candidata è stata interrogata sui dossier più sensibili e ha dovuto rispondere più volte sul distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, sul falso lavoro autonomo, sul reddito minimo a livello europeo, sulla conciliazione tra vita familiare e professionale e il lavoro domenicale, sulla direttiva congedo maternità e sulle ristrutturazioni aziendali.
Relativamente al distacco dei lavoratori, Marianne Thyssen ha insistito, smentendo le intenzioni di Juncker di modificare della direttiva di base, sulla necessità di garantire l’applicazione delle regole esistenti e a proposito di questo si è rivolta agli Stati membri chiedendo un maggiore impegno nei controlli e nella cooperazione transfrontaliera (scambio di informazioni).
Sul tema del falso lavoro autonomo, il Commissario designato ha ricordato l’iniziativa della Commissione europea di istituire una Piattaforma contro il lavoro sommerso.
Riguardo al reddito minimo Marianne Thyssen ha ricordato che la questione va al di là delle competenze della Commissione ma ha comunque sottolineato l’importanza di trovare un giusto equilibro tra sostegno al reddito per lottare contro la povertà e l’esclusione sociale e incentivi a portare e mantenere le persone sul mercato del lavoro.
Sul congedo maternità e la riconciliazione ha affermato di propendere per una soluzione di compromesso realizzabile lasciando intendere che il Parlamento europeo ha finora tentato di andare troppo oltre quello che era stato proposto dalla Commissione europea incontrando in questo modo l’ostruzione di molti Stati membri.
In tema di ristrutturazioni aziendali non è prevista alcuna proposta di direttiva come invece auspicato dal sindacato europeo (ETUC) e da alcuni europarlamentari. Secondo quanto dichiarato da Marianne Thyssen la Commissione continuerà a lavorare sull’anticipazione dei cambiamenti e l’adeguamento delle competenze professionali.