Piano scuola digitale: azioni di cura per la digitofobia di Giuseppe Corsaro insegnante e fondatore della community insegnanti 2.0

Fra le azioni cosiddette “di accompagnamento” c’è attenzione al tema della formazione digitale dei docenti, ad esempio con l’istituzione della figura dell’animatore digitale per ogni scuola. Un pool di “buone intenzioni”, strategicamente ben ideate che fanno capire quanto centrale venga considerata la questione all’interno del PNSD. Articolo tratto da da una pubblicazione di FPA s.r.l. che è il nuovo nome della società che da oltre 26 anni organizza FORUM PA l’appuntamento che ogni anno a maggio al Palazzo dei Congressi di Roma si propone come punto di incontro e collaborazione tra pubblica amministrazione, imprese, mondo della ricerca e società civile.

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Inquadramenti contrattuali: sarebbe ora di metterci mano.

L’art. 2095 del Codice Civile, definisce “categorie legali” le quattro tipologie di lavoratori subordinati (dirigenti, quadri, impiegati e operai) mentre i diversi contratti assegnano livelli, declaratorie, mansioni e qualifiche. Di conseguenza l’appartenenza di un lavoratore ad una categoria, livello o qualifica, stabiliti nella contrattazione collettiva, determina il suo status aziendale e il suo trattamento economico-normativo. I contratti nazionali, nel tempo, hanno cercato di aggiungere senso e contenuto alle quattro tipologie previste dalla legge definendo, intorno ad esse, mansionari, automatismi, scale parametrali e anche livelli intermedi. Nelle intenzioni sindacali questi sforzi hanno sempre puntato a creare le condizioni per una possibile crescita professionale dei lavoratori privilegiando, ovviamente, l’aspetto collettivo. Quindi la mansione in sé, non la qualità della prestazione. Per le imprese, che hanno sempre teso ad investire selettivamente sulle risorse umane, l’obiettivo è sempre stato quello di avere certezze sui costi e la corrispondenza tra declaratoria e lavoro effettivo. Ovviamente con l’intento di valorizzare la qualità della mansione, delle capacità e delle competenze personali richieste in rapporto agli obiettivi aziendali. Quindi privilegiando l’aspetto individuale. Gli esperti di organizzazione in azienda, nel tempo, hanno dovuto necessariamente declinare nuove terminologie, range retributivi, pesature di posizioni e ruoli specifici per cercare di gestire, contemporaneamente al necessario rispetto dei sacri testi negoziati, linguaggi nuovi e inquadramenti aziendali riconoscibili e confrontabili nelle diverse realtà e in differenti Paesi, adatti a gestire il potenziale, il talento, il merito e il mercato, che poco si conciliavano e si conciliano con la cultura tayloristica imperante nei dettati contrattuali o nell’aridità lessicale del codice civile. E, per questo, l’utilizzo, a volte a proposito, ma spesso anche a sproposito, della lingua inglese ha dato un contributo significativo. Ovviamente la tradizionale cultura contrattuale di stampo fordista ha lasciato irrisolti due problemi. Innanzitutto la rigidità del sistema. Indipendentemente dal contesto economico e temporale in cui il lavoratore opera, è stata sempre prevista solo la possibilità di crescere o, al massimo, di non decrescere economicamente e professionalmente. In altre parole il minimo tabellare, contrattualmente definito, salvaguarda il reddito raggiunto dal singolo lavoratore al di là del contenuto della mansione effettivamente svolta in un dato momento e della relativa qualità della prestazione. Questa impostazione che ha indubbiamente garantito il lavoratore fino a pochi anni fa, oggi, in caso di crisi aziendale o anche semplicemente a seguito dell’allungamento della vita lavorativa, rischia di ritorcersi contro il lavoratore stesso. O almeno di renderlo più debole ed esposto alla concorrenza dei lavoratori più giovani in azienda sul piano dei costi ma anche per la difficile impiegabilità sul mercato del lavoro. Collegato a questo diventa sempre più centrale il tema della formazione continua e della necessità che questa sia funzionale al mantenimento e all’arricchimento della professionalità del singolo, in azienda, ma anche in rapporto al mercato del lavoro con cui il lavoratore si dovrà, prima o poi, misurare. Il secondo problema è dato dalla relazione tra inquadramento e costo del lavoro complessivo. L’azienda oltre a dover gestire un carico fiscale e contributivo eccessivo spesso sconta un disallineamento tra inquadramento contrattuale e mansione effettivamente svolta dal singolo lavoratore. Disallineamento non facile da risolvere. Le stesse recenti innovazioni del Jobs act sul tema del demansionamento non hanno risolto il tema e quindi, sul punto, non è cambiato sostanzialmente nulla. Le imprese in passato hanno mascherato questa esigenza di “svecchiamento” complessivo legato ai costi con procedure di mobilità ad hoc e interventi “spintanei” almeno fino a quando questo si è rilevato possibile, concordandole con i sindacati. La carenza di risorse pubbliche e la modifica dei requisiti pensionistici hanno riaperto il problema nella sua dimensione reale di cui, i cosiddetti “esodati”, costituiscono solo la punta dell’iceberg. Le proposte di intervento a sostegno del reddito degli over 50 e gli scivoli per i lavoratori a pochi anni dalla pensione segnalano la persistente urgenza del problema e la necessità di trovare risposte differenti. La possibilità di formarsi e di riposizionarsi professionalmente nella impresa e sul mercato è un passaggio ineludibile ma questo impone di affrontare con urgenza il tema delle politiche attive e della qualità della formazione a completamento del Jobs act. Esiste indubbiamente un problema di approccio culturale che coinvolge le imprese e che riguarda la necessità di ritornare a considerare importante e ineluttabile l’impiegabilità degli “over” ma esistono anche problemi legati ai costi, alla flessibilità e alla rigidità dell’inquadramento contrattuale che non possono essere scaricati esclusivamente sulla singola azienda e quindi, in negativo, sul singolo lavoratore. Rivisitare i vincoli di legge e l’inquadramento con l’obiettivo di separare ciò che è destinato a tutelare il reddito minimo da ciò che può modificarsi in campo professionale nel tempo e ciò che deve essere messo in rapporto ai risultati aziendali significa spingere in direzione di un maggior coinvolgimento dei lavoratori sull’andamento economico e far crescere una maggiore consapevolezza della necessità di continuare a formarsi. Senza però lasciare il problema solo sulle spalle della singola impresa. Per questo la rivisitazione dell’inquadramento professionale è necessaria. Lo è ancora di più se la consideriamo una leva determinante del cambiamento culturale dei lavoratori e delle imprese.

Qualité du dialogue social: Les surprises du panorama européen

Jean-Claude Junker, presidente della commissione europea ha dichiarato di puntare ad essere “il Presidente del dialogo sociale”. Di questi tempi una affermazione in apparente controtendenza. Nell’Europa della “finanza” e delle banche cresce una volontà diversa? Sarebbe un segnale importante. Vediamo allora quali differenze ci sono tra i diversi Paesi membri?

Da Metis: un articolo di Martin Richer

Una rinnovata vitalità dei contratti nazionali?

Le indicazioni che stanno emergendo in questa stagione di rinnovi dei CCNL nei diversi settori sono sostanzialmente due. Nessuno, né tra i sindacati né tra le organizzazioni datoriali, auspica la messa in soffitta del contratto nazionale e, le parti, sono assolutamente in grado di deciderne autonomamente i contenuti, i tempi, le modalità e gli argomenti da assegnare ai diversi livelli. Questa è certamente una buona notizia ma soprattutto un sintomo di vitalità in controtendenza con le campane a morto sullo strumento in sé che, troppo frettolosamente, qualcuno voleva suonare. Ovviamente nessuna delle parti in causa auspica lo status quo ma tra questo e “gettare il bambino con l’acqua sporca”, ce ne corre. Il differente approccio utilizzato nei diversi settori è la dimostrazione del “pragmatismo bilaterale” che si sta affermando nelle nostre relazioni industriali. Fuori dai riflettori dei media e a tutti i livelli, nel privato, si siglano accordi di reciproca soddisfazione. La crisi e poi il contesto nazionale e internazionale hanno determinato un clima di sano realismo che ha spinto le parti a convergere su richieste o concessioni assolutamente compatibili. Per quanto riguarda la parte sindacale restano fuori pochi casi centrali e locali (seppure socialmente rilevanti) causati da residui di ideologismi o vecchi rancori identitari e organizzativi. Sul fronte datoriale, restano aperte le situazioni dove le rappresentanze hanno preferito illudere i rispettivi rappresentati della possibilità di ottenere risultati mirabolanti costringendo i sindacati a “ingoiare” proposte irricevibili. Su questo, l’imperizia, un inutile strumentalità fuori luogo e la sottovalutazione degli interlocutori hanno infilato interi comparti in situazioni da cui non sarà facile uscirne. Ma non stiamo parlando di tendenza, stiamo parlando di code. Terziario, chimici, alimentaristi hanno tracciato a loro modo una strada preparando scenari futuri. Un discorso a parte meritano i metalmeccanici perché, secondo me, sono impegnati in un vero contratto di svolta. L’importanza di questo confronto è data dai temi posti sul tavolo da Federmeccanica e dalla consapevolezza dell’importanza degli stessi. È un approccio di segno profondamente nuovo sia nelle reazioni sindacali, sempre ragionate e motivate sia nella mancanza di strumentalità della controparte datoriale. Sono i temi, la qualità e la quantità dei contenuti e il modello di relazioni che si vuole affermare da qui in poi al centro del negoziato. Staremo a vedere ma credo che questo possa spingere tutti gli altri comparti economici e le loro rappresentanze a cercare altre strade o a ripercorrere in modo nuovo alcune intuizioni del passato a cominciare dal sistema bilaterale e del welfare contrattuale.

Secondo rapporto sull’innovazione sociale in Italia a cura di Matteo G. Caroli

500 progetti, 56 casi approfonditi, un rapporto pubblicato da Italia Camp, Luiss e Ceriis per valutare come si stanno sviluppando i nuovi modelli di innovazione sociale nel nostro Paese e chi li promuove. Un tema di grande interesse alla luce delle opportunità offerte dalla nuova legge di stabilità, dalle opportunità offerte dal welfare contrattuale e dalle evoluzioni in atto in qualche regione.

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L’industria del futuro da “la fabrique de l’industrie”

Depuis le lancement en septembre 2013 du 34ème plan « Usine du futur » par le ministre du Redressement productif Arnaud Montebourg – aujourd’hui réorganisé en « Industrie du futur » -, cette notion s’est largement diffusée auprès des acteurs publics et industriels, jusqu’à être perçue aujourd’hui comme une source majeure de gains de compétitivité et d’attractivité pour l’industrie.

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Finanza etica: parliamone. Da Bene comune.it

E’ un’espressione che unisce due concetti diversi. L’etica, che si occupa del rapporto tra realtà e persona, nella sua dimensione sia individuale che sociale, e la finanza che si occupa di valori. Questi però non si concretizzano in norme morali ma in azioni orientate al reperimento di capitali e al loro investimento. Questi due concetti, se tenuti distanti, generano o un certo snobismo verso il denaro o un uso disinvolto delle risorse. Oggi invece i due termini sono accostati da autorevoli economisti e l’espressione è ormai adottata dalle maggiori istituzioni internazionali.

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Ponti e non muri. La parola a Leonardo Boff

Dove stiamo andando? Nella civilissima Svezia e in tutto il nord Europa i migranti vengono presi a bastonate. Intorno a noi si sentono inequivocabili segnali di guerra e, dentro i nostri Paesi, cresce la paura e l’insicurezza. Leonardo Boff ci suggerisce, con una parabola, un’altra strada. È la stessa che ci propone Papa  Francesco: costruire ponti. Tra di noi, tra le diverse nazioni, tra i popoli. Non lasciamo che siano gli altri a decidere per noi è per il nostro futuro. Il contributo di Leonardo Boff