Contratto metalmeccanici. È il tempo della riflessione.

Personalmente trovo un errore agevolare una deriva tradizionale nel rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. L’intervista di Rocco Palombella sembrerebbe andare in questa direzione. Infatti sostenere come ha fatto il dirigente sindacale che l’analisi proposta da Federmeccanica del contesto economico è sostanzialmente corretta ma questo non può avere conseguenze sul costo del rinnovo contrattuale mi sembra una forzatura. Comprendo benissimo l’esigenza di inviare messaggi chiari alla controparte e contemporaneamente di rassicurare i propri militanti sulla determinazione messa in campo ma questo non può comportare l’inevitabile effetto collaterale di spingere Federmeccanica sulla barricata opposta. Innanzitutto perché il Paese non credo abbia bisogno di barricate in questo momento. In secondo luogo perché il rinnovo dei vertici confindustriali spinge inevitabilmente alla radicalizzazione e quindi, chiunque abbia in testa una svolta più partecipativa dovrebbe perseguire con maggiore determinazione una strategia negoziale di valorizzazione continua degli elementi costruttivi evitando di evocare tra i militanti il ricordo del “bel tempo che fu” quando il conflitto poteva porsi l’obiettivo di modificare posizioni intransigenti o strumentali. Oggi non è più così. Ci sono comparti senza contratto da anni e questo non provoca nessuna reazione né solidaristica né da parte delle istituzioni. Oggi occorre avere delle solide buone ragioni per convincere e creare alleanze perché la posta in gioco è molto alta. Lo è per le persone, lo è per l’intera comunità nazionale, lo è ovviamente anche per i corpi intermedi. L’idea di sommare gli effetti economici dei due livelli di contrattazione non è perseguibile. Tra l’altro è il vero motivo sul quale la proposta unitaria confederale rischia di non fare nessun passo in avanti. Occorre al contrario trovare come renderli integrabili offrendo al primo un compito ma lasciando al secondo la possibilità di sperimentare concretamente forme di partecipazione all’andamento economico aziendale e investendo su reali incrementi di produttività. Non farlo adesso significa rimandare una vera riforma della contrattazione per almeno tutta la durata del contratto. È questo l’obiettivo? Io credo di no. Certo anche Federmeccanica deve fare dei passi avanti. Ha avuto la capacità di proporre innovazione vera sia nel merito che nel metodo. Ha messo sul tavolo una proposta stimolante, ha raccolto consensi in Confindustria e non solo. Ha, di fatto, proposto un orizzonte nuovo che contribuisce a ridisegnare un sistema vecchio e superato. Ma non può farlo da sola. Per non trasformare il tutto in una bandiera deve trovare interlocutori sindacali che “comprendono il nuovo e che guidano il cambiamento”. Non deve sprecare una occasione fidandosi solo della “legge del pendolo”. La forza oggi non serve se l’obiettivo è la condivisione. Occorre, al contrario,  favorire la  crescita di una cultura nuova. Tutti coloro che sono interessati a farlo devono fare un passo indietro avendo in testa questo obiettivo. E questa è una responsabilità di non poco conto.

Quale livello di Welfare aziendale nelle piccole e medie imprese?

Welfare Index PMI è un indice, promosso da Generali con la partecipazione di Confindustria e Confagricoltura, che valuta il livello di welfare aziendale nelle piccole e medie imprese italiane. Sviluppato dalla società specializzata Innovation Team, questo strumento vuole fotografare il livello del welfare aziendale nelle PMI e, nel contempo, offrire alle aziende la possibilità di valutare il livello di servizi offerti comparandoli con quelli delle altre imprese che hanno partecipato all’indagine. Il Welfare Index PMI esprime con un numero che va da 0 a 100 il livello del welfare aziendale presente nelle 2.140 aziende, appartenenti a tutti i settori produttivi, oggetto dell’indagine.

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ISTAT – rapporto sulla competitività dei settori produttivi

Il Rapporto sulla competitività dei settori produttivi è tradizionalmente finalizzato all’analisi degli aspetti strutturali e dinamici della competitività del sistema delle imprese. Quest’anno, nella sua quarta edizione, il Rapporto propone una lettura congiunta dei dati sulla domanda di lavoro, allo scopo di valutare adeguatamente le caratteristiche della ripresa occupazionale vista dal lato delle imprese.

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Contratto metalmeccanici: insidie e opportunità di un negoziato non tradizionale

Le recenti dichiarazioni di Rocco Palombella della UILM sulla possibilità di ricorrere allo stato di agitazione per superare lo stallo del negoziato indurrebbero a pensare che la trattativa dei metalmeccanici sta scivolando verso una deriva di segno antico. Le stesse preoccupazioni, pur senza tirare affrettate conclusioni, le ha espresse Marco Bentivogli a nome della FIM. Del resto, l’anomalia di una vicenda che vede sul tavolo tre piattaforme diverse alle quali si è sovrapposta in corso d’opera una proposta sindacale unitaria di riforma della contrattazione che individua percorsi difficilmente praticabili, è evidente. Visto da fuori il nodo sembrerebbe sostanzialmente rappresentato dalla proposta economica di Federmeccanica che, a giudizio unanime, coprirebbe solo una fetta modesta dell’intera categoria. E questo non è accettabile per nessuno dei tre sindacati. Quindi lo stallo e le reazioni conseguenti sembrerebbero inevitabili. Se così fosse qualsiasi tentativo di innovazione condivisa di metodo e di contenuto tramonterebbe cedendo il passo alla tentazione di ritornare su terreni noti innescando reazioni e contrasti con il corollario di accuse e contro accuse. Ma questa situazione potrebbe offrire anche interessanti opportunità di cambiamento vero se le parti dimostrassero di essere veramente animate dalla volontà di gettare le basi di una svolta profonda. Innanzitutto è impensabile che, in una categoria che vede, secondo dati sindacali, il 70% dei lavoratori coperti dalla contrattazione aziendale si ipotizzi un aumento nazionale certo solo per il 5% dei lavoratori. Questo significa che per circa il 25% del totale non ci sarebbe nulla per tutta la durata contrattuale. Diverso sarebbe un meccanismo che anziché fotografare il passato prenda in considerazione l’arco di tempo relativo alla durata futura del CCNL ipotizzando eventualmente tranche di copertura laddove non si sviluppi la contrattazione aziendale. Questo meccanismo di spostamento al secondo livello otterrebbe, tra l’altro, l’obiettivo di iniziare a variabilizzare parte del salario legandolo a necessari recuperi di produttività e al coinvolgimento dei lavoratori su obiettivi aziendali certi e misurabili. Quindi renderebbe coerente il salario contrattato sia a livello nazionale che aziendale ad un percorso collaborativo già realizzato, come sembrerebbe, in altre punti del negoziato in corso. D’altra parte l’eventualità di “marciare divisi per colpire uniti” avendo sul tavolo due piattaforme sindacali mi sembra di difficile praticabilità. Così come quella di trovare nelle proposte confederali il bandolo della matassa perché questo troverebbe assolutamente indisponibile la controparte datoriale che non sembra aver alcuna intenzione di sommare i costi dei due livelli. D’altra parte, se i metalmeccanici vogliono realizzare un vero giro di boa del sistema contrattuale del nostro Paese, devono segnalare chiaramente la volontà di rilanciare un contesto collaborativo e costruttivo che sappia integrare (e non sommare) i livelli della contrattazione e i suoi contenuti lasciando alla contrattazione aziendale il compito di consolidare una svolta che farebbe da apripista a quelle categorie dove esiste praticamente solo il CCNL e che non sono ancora attrezzate per un sistema misto. Nella stesso tempo Federmeccanica deve dimostrare che la svolta collaborativa non è strumentale ma è veramente finalizzata a cambiare il sistema delle relazioni sindacali. Su questo credo si giochi molto della credibilità delle parti in causa e della volontà di andare avanti. Per queste ragioni preferisco puntare su di un esito diverso e costruttivo di questa fase di evidente stallo e non mi unisco al coro di chi dà già per persa la partita.

L’indispensabile vitalità dei corpi intermedi.

È difficile replicare a Roger Abravanel. La sua convinzione sulla sostanziale inutilità dei corpi intermedi è granitica. Così come la certezza che la contrattazione nelle singole aziende di qualsivoglia dimensione rappresenterebbe la soluzione ottimale per imprese e lavoratori. Nella sua intervista televisiva auspica, addirittura, una fine parallela per le organizzazioni datoriali e sindacali. Anzi. Utilizza le critiche di Bombassei e Marchionne per generalizzare un opinione di sostanziale inutilità dell’organizzazione datoriale che, a suo giudizio, sarebbe condiviso da molti imprenditori. È una opinione diffusa. E non da oggi. Innanzitutto essere iscritti ad un’organizzazione sindacale non è obbligatorio così come è ovvio che chi ha ritenuto opportuno non rinnovarne l’iscrizione ha tutto il diritto di criticarne i comportamenti. La volontarietà e quindi la libertà di aderire o meno, di per sé, dovrebbero far riflettere chi crede nel tramonto imminente dei corpi intermedi. Personalmente credo che questa prospettiva non sia né prevedibile né auspicabile. I corpi intermedi, pur attraversando, nel tempo, cicli di crescita e di calo del tutto fisiologici, hanno una vitalità propria difficile da contestare. La loro legittimità è data dalle migliaia di imprese e lavoratori che nei territori, nelle associazioni o nelle federazioni conferiscono loro un mandato. Basterebbe entrare in una qualsiasi sede associativa periferica per rendersene conto. Far da soli non è sempre possibile. Chi è in grado di farlo sottovaluta spesso l’esigenza di rappresentanza che ha chi non è in grado di tutelarsi da solo. Per fare solo un piccolo esempio recente basta citare il caso dei proprietari di appartamento di Firenze sostenitori della disintermediazione, che, ai primi problemi di rapporto con la loro controparte, hanno ritenuto indispensabile associarsi per trattare al meglio con Airbnb. Ma è così ovunque e su ogni tema che abbia un interesse minimamente collettivo. Quindi ipotizzarne un declino irreversibile e definitivo è, di per sé, un errore di valutazione. Non va sottovalutata, inoltre, la capacità di rigenerazione dei corpi intermedi. Sicuramente più marcata in periferia, meno evidente al centro, dove resta però fondamentale la presenza di una leadership riconosciuta e autorevole in grado di determinare un impatto mediatico specifico. In periferia, è evidente registrare una presenza a macchia di leopardo a seconda del differente insediamento territoriale e della capacità di interazione con il contesto economico, sociale e politico. Detto questo nessuno nega la necessità di profondi cambiamenti sia per le organizzazioni datoriali che sindacali. Ma questo non c’entra nulla con la disintermediazione auspicata da alcuni esponenti del mondo politico e da alcuni opinionisti poco informati sulle dinamiche organizzative e sociali proprie del nostro Paese. La presenza di più candidati alla carica di Presidente di Confindustria è un segno di grande vitalità. Ciascuno di loro porta con sé un modo specifico di intendere la rappresentanza. Chiunque vincerà proporrà scelte differenti che influenzeranno non poco il contesto politico. Confcommercio ha, da parte sua, da tempo avviato profondi programmi di rinnovamento investendo su progetti organizzativi importanti sia a livello locale che centrale. Anche nei sindacati dei lavoratori si registrano chiari segnali di cambiamento, ad esempio, nelle categorie industriali della CISL ma anche in scelte precise di rinnovamento dei gruppi dirigenti locali e centrali in molte categorie della Cgil. Tutto questo è sufficiente? Ovviamente no. La velocità di cambiamento del contesto economico nazionale e internazionale impone una accelerazione continua per fornire alle imprese e ai lavoratori punti di riferimento costanti su temi quali modelli contrattuali praticabili, nuove tutele, servizi innovativi, welfare integrativo, reti e capacità di sviluppare integrazione nelle filiere. Quindi tutto ciò che è fuori dalla portata dei singoli. Ipotizzare un contesto futuro che non preveda contrappesi sociali significa inevitabilmente rassegnarsi ad un modello di società darwiniana dove solo ai più forti è consentito dettare le regole del gioco. Esattamente l’opposto di ciò che serve ad una comunità nazionale complessa come la nostra che deve trovare nella convergenza di interessi e nella collaborazione tra generazioni e territori la sua rinnovata ragion d’essere.

Salario minimo legale: uno studio proposto da Eurofound e sviluppato da Karel Fric.

Si parla tanto di salario minimo in Italia. C’è chi lo fa in buona fede e chi meno. Se l’obiettivo fosse la lotta al lavoro nero o l’individuazione di una copertura per chi non è tutelato da un contratto nazionale, è certamente una riflessione da fare. Se, al contrario, l’obiettivo fosse solo quello di scardinare la funzione equilibratrice del CCNL e di conseguenza aprire ad una stagione di dumping tra imprese questa tendenza va decisamente contrastata. Questo studio affronta il tema proponendo le diverse soluzioni adottate nei Paesi UE. Per questo è sicuramente un contributo interessante.

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Cassa integrazione 2016 a cura del dipartimento settori produttivi – Osservatorio CGIL

Una media annua di cinquantamilioni di ore di cassa integrazione, purtroppo in aumento. Non ci sono segnali di inversione di marcia. Il dipartimento settori produttivi della CGIL pubblica i dati e le comparazioni anno su anno, settori, regioni e province. Un quadro chiaro delle difficoltà che attraversa ancora l’economia italiana impegnata a cogliere i segnali di una difficile ripresa. Un rapporto che mostra, purtroppo, quanto è profonda la distanza tra la realtà percepita dalle famiglie e la sua rappresentazione mediatica.

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Piano scuola digitale: azioni di cura per la digitofobia di Giuseppe Corsaro insegnante e fondatore della community insegnanti 2.0

Fra le azioni cosiddette “di accompagnamento” c’è attenzione al tema della formazione digitale dei docenti, ad esempio con l’istituzione della figura dell’animatore digitale per ogni scuola. Un pool di “buone intenzioni”, strategicamente ben ideate che fanno capire quanto centrale venga considerata la questione all’interno del PNSD. Articolo tratto da da una pubblicazione di FPA s.r.l. che è il nuovo nome della società che da oltre 26 anni organizza FORUM PA l’appuntamento che ogni anno a maggio al Palazzo dei Congressi di Roma si propone come punto di incontro e collaborazione tra pubblica amministrazione, imprese, mondo della ricerca e società civile.

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Inquadramenti contrattuali: sarebbe ora di metterci mano.

L’art. 2095 del Codice Civile, definisce “categorie legali” le quattro tipologie di lavoratori subordinati (dirigenti, quadri, impiegati e operai) mentre i diversi contratti assegnano livelli, declaratorie, mansioni e qualifiche. Di conseguenza l’appartenenza di un lavoratore ad una categoria, livello o qualifica, stabiliti nella contrattazione collettiva, determina il suo status aziendale e il suo trattamento economico-normativo. I contratti nazionali, nel tempo, hanno cercato di aggiungere senso e contenuto alle quattro tipologie previste dalla legge definendo, intorno ad esse, mansionari, automatismi, scale parametrali e anche livelli intermedi. Nelle intenzioni sindacali questi sforzi hanno sempre puntato a creare le condizioni per una possibile crescita professionale dei lavoratori privilegiando, ovviamente, l’aspetto collettivo. Quindi la mansione in sé, non la qualità della prestazione. Per le imprese, che hanno sempre teso ad investire selettivamente sulle risorse umane, l’obiettivo è sempre stato quello di avere certezze sui costi e la corrispondenza tra declaratoria e lavoro effettivo. Ovviamente con l’intento di valorizzare la qualità della mansione, delle capacità e delle competenze personali richieste in rapporto agli obiettivi aziendali. Quindi privilegiando l’aspetto individuale. Gli esperti di organizzazione in azienda, nel tempo, hanno dovuto necessariamente declinare nuove terminologie, range retributivi, pesature di posizioni e ruoli specifici per cercare di gestire, contemporaneamente al necessario rispetto dei sacri testi negoziati, linguaggi nuovi e inquadramenti aziendali riconoscibili e confrontabili nelle diverse realtà e in differenti Paesi, adatti a gestire il potenziale, il talento, il merito e il mercato, che poco si conciliavano e si conciliano con la cultura tayloristica imperante nei dettati contrattuali o nell’aridità lessicale del codice civile. E, per questo, l’utilizzo, a volte a proposito, ma spesso anche a sproposito, della lingua inglese ha dato un contributo significativo. Ovviamente la tradizionale cultura contrattuale di stampo fordista ha lasciato irrisolti due problemi. Innanzitutto la rigidità del sistema. Indipendentemente dal contesto economico e temporale in cui il lavoratore opera, è stata sempre prevista solo la possibilità di crescere o, al massimo, di non decrescere economicamente e professionalmente. In altre parole il minimo tabellare, contrattualmente definito, salvaguarda il reddito raggiunto dal singolo lavoratore al di là del contenuto della mansione effettivamente svolta in un dato momento e della relativa qualità della prestazione. Questa impostazione che ha indubbiamente garantito il lavoratore fino a pochi anni fa, oggi, in caso di crisi aziendale o anche semplicemente a seguito dell’allungamento della vita lavorativa, rischia di ritorcersi contro il lavoratore stesso. O almeno di renderlo più debole ed esposto alla concorrenza dei lavoratori più giovani in azienda sul piano dei costi ma anche per la difficile impiegabilità sul mercato del lavoro. Collegato a questo diventa sempre più centrale il tema della formazione continua e della necessità che questa sia funzionale al mantenimento e all’arricchimento della professionalità del singolo, in azienda, ma anche in rapporto al mercato del lavoro con cui il lavoratore si dovrà, prima o poi, misurare. Il secondo problema è dato dalla relazione tra inquadramento e costo del lavoro complessivo. L’azienda oltre a dover gestire un carico fiscale e contributivo eccessivo spesso sconta un disallineamento tra inquadramento contrattuale e mansione effettivamente svolta dal singolo lavoratore. Disallineamento non facile da risolvere. Le stesse recenti innovazioni del Jobs act sul tema del demansionamento non hanno risolto il tema e quindi, sul punto, non è cambiato sostanzialmente nulla. Le imprese in passato hanno mascherato questa esigenza di “svecchiamento” complessivo legato ai costi con procedure di mobilità ad hoc e interventi “spintanei” almeno fino a quando questo si è rilevato possibile, concordandole con i sindacati. La carenza di risorse pubbliche e la modifica dei requisiti pensionistici hanno riaperto il problema nella sua dimensione reale di cui, i cosiddetti “esodati”, costituiscono solo la punta dell’iceberg. Le proposte di intervento a sostegno del reddito degli over 50 e gli scivoli per i lavoratori a pochi anni dalla pensione segnalano la persistente urgenza del problema e la necessità di trovare risposte differenti. La possibilità di formarsi e di riposizionarsi professionalmente nella impresa e sul mercato è un passaggio ineludibile ma questo impone di affrontare con urgenza il tema delle politiche attive e della qualità della formazione a completamento del Jobs act. Esiste indubbiamente un problema di approccio culturale che coinvolge le imprese e che riguarda la necessità di ritornare a considerare importante e ineluttabile l’impiegabilità degli “over” ma esistono anche problemi legati ai costi, alla flessibilità e alla rigidità dell’inquadramento contrattuale che non possono essere scaricati esclusivamente sulla singola azienda e quindi, in negativo, sul singolo lavoratore. Rivisitare i vincoli di legge e l’inquadramento con l’obiettivo di separare ciò che è destinato a tutelare il reddito minimo da ciò che può modificarsi in campo professionale nel tempo e ciò che deve essere messo in rapporto ai risultati aziendali significa spingere in direzione di un maggior coinvolgimento dei lavoratori sull’andamento economico e far crescere una maggiore consapevolezza della necessità di continuare a formarsi. Senza però lasciare il problema solo sulle spalle della singola impresa. Per questo la rivisitazione dell’inquadramento professionale è necessaria. Lo è ancora di più se la consideriamo una leva determinante del cambiamento culturale dei lavoratori e delle imprese.

Qualité du dialogue social: Les surprises du panorama européen

Jean-Claude Junker, presidente della commissione europea ha dichiarato di puntare ad essere “il Presidente del dialogo sociale”. Di questi tempi una affermazione in apparente controtendenza. Nell’Europa della “finanza” e delle banche cresce una volontà diversa? Sarebbe un segnale importante. Vediamo allora quali differenze ci sono tra i diversi Paesi membri?

Da Metis: un articolo di Martin Richer