Quale riforma della contrattazione? Una proposta del tutto personale…

Ormai è chiaro. Il confronto sui livelli contrattuali proposto da Cgil, Cisl e Uil non porterà a nulla di risolutivo. Almeno così sembra. La convinzione che bastasse sommare le reciproche posizioni in un rinnovato quadro di iniziativa unitaria si è dimostrata sostanzialmente inefficace. Nessuna controparte significativa pare intenzionata a coglierne lo spirito propositivo e ad entrare nel merito. Certo la tempistica scelta non sembra particolarmente centrata e, a parte i giudizi di merito, tre elementi ne condizionano il percorso. L’elezione del nuovo vertice di Confindustria e il rinnovo in corso del CCNL dei metalmeccanici nel settore industriale e i confronti ancora aperti nel settore del terziario che impediscono a Confcommercio di avviare un confronto utile e reciprocamente costruttivo. Detto questo, credo che alcuni elementi di merito dovranno caratterizzare qualsiasi ripresa di negoziato. Innanzitutto un principio credo, condivisibile da tutti: non si può distribuire ricchezza che non si è ancora creata. Quindi il nuovo modello dovrà necessariamente partire da qui. Non esistono né automatismi né scorciatoie praticabili. Soprattutto in fasi di inflazione bassa o assente. In secondo luogo il ruolo e il peso del welfare contrattuale anche in rapporto con quello aziendale; i suoi confini, le massa critiche necessarie e il conseguente consolidamento. In terzo luogo la formazione delle persone come strumento fondamentale di “ricostruzione continua” della professionalità dei singoli. Infine i luoghi deputati al negoziato, le materie specifiche da assegnare ai vari livelli e le eventuali deroghe. In questo contesto dovrà essere possibile anche prevedere la sospensione temporale di istituti in caso di crisi o in particolari situazioni territoriali. Così come dovrà essere possibile, la definizione di aree contrattuali in settori specifici dotate di relativa autonomia (ad esempio la GDO o la ristorazione nel terziario) che, pur rispettando il CCNL di riferimento per quanto riguarda alcuni istituti, possano derogare su materie specifiche e omogenee del loro comparto. Ottenendo così il risultato di ridurre notevolmente i contratti nazionali e di garantire la gestione delle peculiarità. Infine un tema che non appare mai ma che, personalmente, reputo fondamentale. La riforma del salario e dell’inquadramento. Pensare che si possa parlare di una efficace riforma della contrattazione senza affrontare questi due temi significa mettere in conto che la “montagna partorirà il topolino”. L’inquadramento risale agli anni ’70 del secolo scorso e non sarà certo una delle ennesime commissioni nei singoli contratti a garantirne modifiche significative. Bisogna innanzitutto chiedere al Governo, e quindi al Parlamento, di mettere mano, ad esempio, all’art. 2103 del codice civile e, di conseguenza, all’articolo 13 della legge 300 per affrontare, non tanto il tema del demansionamento, quanto quello della rispondenza effettiva del livello contrattuale (nuovo o vecchio) con la concreta mansione svolta. Senza trascinamenti derivati dall’anzianità aziendale, superando inquadramenti e mansionari obsoleti e limitandosi, ad esempio, a indicare range retributivi da mettere in relazione con nuovi e precisi riferimenti parametrali. La vera riforma passa da questo punto. E, partendo da qui, mettere mano alla struttura complessiva della retribuzione individuando ciò che dovrebbe costituire il minimo garantito nazionale (ad esempio parametrandolo alla CIG), ciò che è salario professionale da legare alle nuove scale parametrali e, infine, ciò che è salario da mettere in relazione all’andamento aziendale o ad obiettivi specifici. In questo modo si avrebbe una parte fissa e due variabili. La parte fissa e quella professionale di riferimento sarebbero trattate a livello nazionale, l’ultima a livello aziendale insieme all’allineamento di quella professionale alle esigenze specifiche dell’impresa. Le due parti variabili spingerebbero decisamente verso un modello dove la formazione e la crescita professionale diventerebbero un elemento decisamente più importante e condiviso così come un effettivo e non formale coinvolgimento su rischi e opportunità dell’impresa farebbe evolvere in senso collaborativo il contesto delle relazioni industriali. Certo non sono scelte facili. Soprattutto se si crede ancora possibile un ritorno al passato o un semplice aggiustamento della situazione attuale. Ma se riteniamo che l’azienda deve essere sempre più un luogo di creazione di ricchezza e, quindi, di collaborazione tra capitale e lavoro non abbiamo altra strada. Dobbiamo individuare gli strumenti per condividerne l’andamento, i problemi e le prospettive. Da entrambe le parti. Le nuove modalità organizzative da industry 4.0 in avanti e i nuovi modelli organizzativi e di business vanno in questa direzione. Le persone, il loro contributo e la loro qualità (impegno, condivisione, capacità e competenze) ritornano al centro dei valori e degli interessi dell’impresa. Meglio se con nuove relazioni industriali. La cosiddetta “disintermediazione” si impedisce solo se si abbandonano le rendite di posizione con proposte chiare. Per questo occorre che entrambe le parti si attrezzino dotandosi di una strategia e di una visione comune in grado di affrontare il futuro. Strategia che, oggi pare non esserci ancora.

Quale futuro per i nostri diplomati? Il rapporto Almadiploma – da secondo welfare

Il Rapporto 2016 AlmaDiploma, che scaturisce dalla decima Indagine sugli Esiti a distanza dei Diplomati presentata lo scoso 25 febbraio a Roma, vuole essere funzionale sia alle politiche per l’orientamento sia al miglioramento del rapporto fra formazione/istruzione e mondo del lavoro. Tutto questo nell’ottica del contrasto alla dispersione scolastica e al fenomeno dei NEET (giovani di 15-29 anni né occupati né impegnati in percorsi formativi o educativi) che in Italia interessa il 26% dei giovani (il 10% in più rispetto alla media europea).

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Caro Inps, tieniti la tua busta arancione…. di Elisa Calessi

Caro Inps, caro Tito Boeri, non mandarmi la busta arancione. Ti faccio risparmiare la spesa di busta, lettera e francobollo. Sarà poco. Ma meglio che niente. No, non mandarmela. Apprezzo l’intenzione, capisco la filosofia che c’è dietro. Mi sforzo, per così dire, di capirla e immagino sia, suppergiù, questa: è bene che le persone, e in particolare i giovani, siano consapevoli del futuro previdenziale che li aspetta (o sarebbe più corretto dire: che non li aspetta). Capisco, ma proprio per questo insisto: non voglio la busta arancione.

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Innovazione e domanda di consapevolezza. Piero Dominici – nova sole 24

L’obiettivo principale di questo paper è quello di evidenziare i livelli di connessione esistenti tra la particolare contingenza/congiuntura storico-culturale e la sempre più attuale ed urgente domanda di filosofia e di un “diritto alla filosofia” inteso, non tanto come risposta ad una domanda di senso che è forte, radicata ed evidente, quanto come una sorta di diritto alla consapevolezza, ad essere capaci di riflettere, analizzare criticamente ed elaborare pensiero e, possibilmente, soluzioni alle problematiche della propria esistenza.

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Persone al centro

Bene ha fatto Di Vico a scrivere, oggi sul blog del Corriere, che nella proposta di Federmeccanica c’è una riflessione nuova e, di fatto, molto impegnativa. Innanzitutto per imprenditori e aziende. L’importanza delle persone per una nuova cultura delle imprese. Impostazione che va al di là delle tipiche resistenze sul salario o dei tentennamenti sull’inquadramento tipiche di ogni fase negoziale e che lancia una sfida completamente diversa al sindacato che, a parte la FIM CISL, che proprio ieri ha centrato il tema dello sviluppo dei lavoratori anche attraverso la formazione, sembra non accorgersene. Ma questa è una sfida anche per chi, nel dibattito sulla successione alla guida di Confindustria, si schiera sulla proposta di Federmeccanica senza cogliere in pieno il significato di questa svolta. Purtroppo la stagione che abbiamo alle spalle e che ha caratterizzato le relazioni industriali del nostro Paese non aiuta ad accettare l’idea che sia necessario un vero e proprio cambio di paradigma. Troppe visioni a corto termine, troppe incoerenze e troppe reticenze per nascondere modesti interessi di comparto. Nel secolo scorso, quando l’antagonismo e il conflitto dominavano la scena, le poche innovazioni in chiave partecipativa provenivano da minoranze (sindacali e datoriali) che sperimentavano, in provetta, forme di collaborazione costruttiva. Oggi è diverso. L’incertezza del contesto impone il dialogo. Che lo si auspichi o meno. Che lo si subisca o che, al contrario, lo si proponga. Si affacciano nuovi bisogni, i confini del lavoro si modificano, le imprese si misurano con nuovi modelli di business, i cambiamenti costringono ad accelerazioni imprevedibili e improponibili fino a pochi anni fa. Oggi ce la caviamo ancora continuando a fare cose vecchie in modo nuovo ma, chi si sta affacciando sulla scena, si troverà a fare, sempre più, cose nuove in modo nuovo e, d’altra parte, abbiamo sempre meno esperienza consolidata e utilizzabile per quello che dovremo andare a fare. Su un punto, credo, siamo tutti d’accordo: le persone, nelle imprese, sono e saranno sempre più importanti. E le persone, nell’azienda di oggi e di domani non vanno solo tutelate nel rapporto di lavoro, vanno ingaggiate, motivate, coinvolte, responsabilizzate. La sfida, è nella formazione, nello sviluppo, nella crescita professionale ma anche nella costruzione di nuove relazioni sindacali. O saranno in grado di accompagnare queste esigenze consentendo alle persone opportunità di crescita, di continua “ricostruzione” professionale per interagire con un mercato del lavoro molto più complesso, di mettere loro a disposizione welfare integrativo e innovativo, di creare opportunità di bilanciamento tra esigenze di lavoro e esigenze di relazione, oppure saranno sempre più marginalizzati e resi irrilevanti nelle aziende e nel Paese. L’impresa non è un luogo di scontro. Non lo è più da molto tempo. L’asimmetria nei rapporti di forza è evidente e condivisa. Pensare di riportare indietro le lancette del tempo per riequilibrarli è una fatica inutile. Però l’impresa del futuro necessità di persone consapevoli, convinte, coinvolte con le quali dovrà essere possibile costruire dei patti chiari, magari a tempo, ma chiari. Quindi rapporti più maturi. Per questo i contratti nazionali sono e restano importanti. Dovranno definire comunque, oltre ai i minimi retributivi di riferimento, la cornice, gli strumenti, le regole di ingaggio, i costi da pagare se, queste regole, non dovessero essere rispettate. Evitando così situazioni di dumping tra le aziende e di concorrenza tra lavoratori di diversa provenienza. Così come i contratti aziendali che si dovranno occupare di coinvolgere, ingaggiare e condividere rischi e opportunità tra l’impresa stessa e i suoi collaboratori. Il primo passo, importante, è stato quello di decidere che la stagione degli accordi separati si doveva chiudere. Le imprese e le loro rappresentanze hanno compreso che non portava da nessuna parte e i singoli sindacati confederali che non ne avrebbero conseguito alcun rilevante beneficio. Solo nel comparto metalmeccanico, per la persistenza di vecchia logiche, non solo ideologiche ma anche di potere, era e forse, è ancora necessario reggere con forza un distinguo sui contenuti. La deriva identitaria quando è sganciata da una progettualità alta e idee forti però produce solo subalternità. Quindi una nuova stagione di ripresa di iniziativa unitaria era auspicabile ed è importante che sia di nuovo possibile. È evidente che una unità esclusivamente difensiva e intesa come la sommatoria delle reciproche debolezze strategiche è solo destinata ad accelerare il processo di marginalizzazione. Per questo non basta comprendere il cambiamento. Bisogna esserne parte. Da soli non si basta più. L’azienda per reagire al contesto cerca nuovi equilibri, si trasforma da organizzazione in organismo e quindi diventa sempre più trasparente e vissuta da chi ci vive dentro. Per questo rimette al centro le persone. Sempre meno “dipendenti” è sempre più collaboratori con cui si condivide e si concorda. La vera sfida per il sindacato e per le nuove relazioni sindacali sta tutta qui. Certo ci si può sottrarre tornando indietro. Oppure mettersi in gioco. E non saranno le formule o l’esportabilità di un modello a fare la differenza. Quindi, nel sindacato confederale, diventerà sempre più importante che si riprenda a discutere di strategie, obiettivi e contenuti anche della contrattazione in chiave innovativa e non conservatrice. Credo però non sia sufficiente percorrere questa via da soli. Sindacati da un parte e imprese dall’altra. Occorre uno sforzo comune. Ricordandoci sempre che al centro ci sono le persone, la loro vita, il loro impegno e il loro futuro. E in gioco c’è il ruolo che i corpi sociali vogliono giocare nella nostra comunità. Una sfida non da poco.

Il rinnovo dei contratti nazionali tra strategie, contenuti e liturgie

Il rinnovo del contratto nazionale di qualsiasi categoria, rischia, negli anni, di assomigliarsi sempre nelle liturgie che lo accompagnano, Nessuna evoluzione particolare all’orizzonte. Il punto è che, se si vuole cambiare, passando da un sistema sostanzialmente rivendicativo/conflittuale ad un’altro, maggiormente collaborativo, le modalità, la comunicazione, le forme di composizione e di dissenso vanno riviste profondamente. Ad esempio come si può pensare di “chiamare alla lotta” per costringere la controparte a forme maggiori di partecipazione? Oppure a costruire e condividere pezzi importanti di gestione del welfare contrattuale? Oppure ad avere uno sbilanciamento dei costi sul livello nazionale e chiedere contemporaneamente un maggiore decentramento della contrattazione? E potrei proseguire con altri esempi. Questa impostazione che lo si voglia o no, è tipica di una cultura che vede nel conflitto uno strumento ancora in grado di modificare sostanzialmente la posizione della controparte (e non è più così da tempo) accompagnata da una comunicazione altrettanto tradizionale che cerca di banalizzare le posizioni di una controparte con cui si vorrebbe costruire una strategia diversa. Tutti sanno che il costo complessivo di un contratto è calcolato minuziosamente dalle imprese. Solo le contropartite, la dimensione delle tranche, le modalità e la durata sono evidentemente mobili e, solo in questo modo, si potrà individuare un bilanciamento con le richieste; per questo condividere la direzione di marcia è più importante delle distanze sui singoli punti. Ed è per questa ragione che, l’unico modo di “mettere in difficoltà” una controparte, resta nella capacità di presentare controproposte credibili e praticabili che rispettino una strategia complessiva. Quando si trovano queste soluzioni parziali, di solito, il negoziato fa degli utili passi in avanti. Credo sia evidente a tutti che i rapporti di forza sono cambiati. Così come è evidente che la piattaforma prevalente, sulla quale il confronto avviene, è sempre più spesso quella datoriale. Quindi è solo la capacità propositiva e non la minaccia del conflitto in sé che può modificare i comportamenti. Soprattutto quando questi scontano anche elementi esterni al tavolo negoziale. A volte prendere tempo non è perdere tempo. Soprattutto quando continuano ad esistere profonde differenze strategiche nello stesso sindacato. Una strategia unitaria esclusivamente difensiva è destinata a non percorrere nuove strade ma di portare tutti su di un binario morto. Occorre indicare con chiarezza dove si vuole andare, con chi e con quali obiettivi. E questo non lo si ottiene sommando le rispettive debolezze o illudendosi di poter riprendere uno spazio sociale messo definitivamente in crisi dalla globalizzazione e dal contesto sociale e politico. Occorre ben altro. La contrattazione, è evidente, resta comunque la ragion d’essere di un sindacato. I suoi contenuti e le modalità con cui vengono sviluppati e realizzati caratterizzano la qualità dei dirigenti e la loro capacità di interpretare e accompagnare il cambiamento preparando il futuro. In entrambi i campi quindi non solo tra i sindacati dei lavoratori. E, di questa qualità, lungimiranza e convergenza il nostro Paese, oggi, ne ha un gran bisogno.

Tacchini e scoiattoli

Maurizio Bernava, segretario confederale della Cisl, in un recente confronto sulla vicenda della Reggia di Caserta proponeva di affrontare i problemi della PA attraverso una maggiore partecipazione dei lavoratori, una valutazione del merito, della professionalità in un contesto di innovazione. Una ricetta per certi versi interessante ma, come cercherò di spiegare, di difficile realizzazione nel contesto attuale. “È possibile insegnare a un tacchino a salire in cima a un albero, però per quel lavoro sarebbe meglio assumere uno scoiattolo” ci ricorda spesso Giampaolo Montali. In ogni azienda, privata o pubblica, un manager deve sapersi misurare con le risorse umane che gli vengono affidate, anche perché i tacchini sono statisticamente più numerosi degli scoiattoli. Per non restare a Caserta, se prendiamo come esempio la nascente ANPAL (Agenzia per le politiche attive del lavoro) secondo il Senatore Ichino, oltre a evidenti problemi di costruzione e di finalizzazione delle sue attribuzioni e attività rischia di ritrovarsi con molti tacchini e pochi scoiattoli. Se così fosse, è evidente che non sarebbe certo un buon inizio. Secondo la sua valutazione mancherebbero le competenze necessarie a ricoprire quei ruoli nei potenziali candidati. Però il segreto del successo di ogni azienda sta proprio nel saper costruire una squadra in cui i “tacchini” possano essere motivati, allenati, sostenuti, per andare oltre i propri limiti e raggiungere risultati che nemmeno loro, in partenza, pensavano di essere in grado di ottenere. La riorganizzazione della PA è un passaggio obbligato sulla strada del cambiamento del Paese. Pensare di effettuarla senza considerare la quantità e la qualità delle risorse umane disponibili, la riqualificazione necessaria a ricoprire i nuovi incarichi e, infine, la disponibilità dei singoli a rimettersi in gioco a prescindere dall’età e dai problemi personali determinerà o meno il successo dell’operazione. Nei processi di riorganizzazione aziendale del settore privato è sempre stato evidente che non basta spostare le persone e adibirle, forzatamente o meno, a nuove attività. Occorre prepararle professionalmente ma anche lavorare sull’engagement e sulla motivazione. La maggior parte dei processi di merger and acquisition nel mondo hanno comportato enormi sprechi di risorse economiche proprio perché si sono sottovalutate le conseguenze della non gestione delle risorse umane. Nella PA italiana questo elemento si presenta ancora più complesso. E questo per una serie di motivi. Innanzitutto perché non c’è una pratica consolidata di gestione delle risorse umane né in termini di sviluppo individuale e di mobilità professionale tra settori né di valorizzazione dell’impegno e della professionalità. In secondo luogo perché le gerarchie presenti, indipendentemente dalla buona volontà dei singoli, non sembrano essere dotate di metodologie particolarmente innovative e coinvolgenti. Non esistono forme di leadership riconosciute ed esercitabili concretamente in grado di condividere, supportare e coadiuvare scelte e decisioni politiche e organizzative. L’adesione volontaria alla mobilità ritenuta dal sen. Ichino un elemento quasi censurabile, perché mette al centro il dipendente rispetto alle esigenze del cittadino, se in astratto è condivisibile, in concreto rischia di rappresentare uno dei pochi elementi da valutare positivamente. Lavorare sulla motivazione di una persona che ha scelto volontariamente un percorso è indubbiamente più produttivo che coinvolgere chi accetta o subisce una soluzione più o meno “spintaneamente”. Però il difetto principale della soluzione proposta della CISL di decentramento tout court della contrattazione nella PA è che, temo, non sia immediatamente praticabile nel contesto attuale. Come tutti i progetti di riorganizzazione l’operazione di riassegnazione delle risorse umane deve necessariamente comportare formazione e coinvolgimento del personale ma anche evidenti risparmi, efficienza ed efficacia delle nuove strutture create. Oggi nella PA c’è ancora una cultura nella dirigenza e del ruolo dei sindacati locali poco propensa alla responsabilità, alla decisione e alla individuazione del nuovo soggetto di riferimento che è il cittadino utente e non solo il dipendente pubblico. Questa cultura spingerebbe inevitabilmente a compromessi organizzativi locali difficilmente accettabili. Termini come efficienza, merito, trasparenza, rapidità si scontrano con abitudini, modalità applicative, presenza di un pluralismo di sigle sindacali, ricorsi e via discorrendo che determina l’assoluta necessità della definizione di regole chiare e condivise, tipiche di una situazione straordinaria, che incidano profondamente su situazioni personali e di gruppo all’interno di un percorso chiaro. I fatti di Caserta sono lì a dimostrarlo. Due sindacalisti locali non soddisfatti del comportamento del direttore decidono di scavalcarlo con una lettera chiedendo un intervento ad una istanza superiore. È un chiaro atto teso a delegittimare l’interlocutore tradizionale imbrigliandone i comportamenti. In quel caso, fortunatamente, non ha funzionato ma l’episodio certifica la difficoltà di decentrare alcunché senza trovarsi a dover fare i conti in un ginepraio di leggi, procedure e compromessi che continuerebbero a mettere al centro “solo” le esigenze del singolo dipendente pubblico e del rispetto di norme consolidate contro l’assoluta necessità di efficienza e di efficacia. Quindi occorre muoversi in altro modo individuando a monte lo spazio negoziale che può essere assegnato al livello locale. Altrimenti non accadrà nulla di buono. Incidere sulle rispettive “aree di confort” non è semplice. Pensare che lo possano fare dei sindacalisti locali della PA abituati spesso a tutt’altri comportamenti è velleitario. Machiavelli ci ricorda che “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al popolo”. Una riorganizzazione comporta necessariamente disagi personali, incomprensioni e ingiustizie. Il sindacato deve esercitare il suo ruolo di tutela cercando di attutire al massimo queste conseguenze con proposte e alternative praticabili ma alla politica  spetta la responsabilità di decidere e alla dirigenza di realizzare concretamente quelle decisioni. Questo è il punto vero. A Caserta o altrove. Altrimenti non si combinerà nulla di buono per il Paese.

La metafora della Reggia di Caserta…

Quello che è accaduto alla Reggia di Caserta deve farci riflettere. Per certi versi è una metafora del nostro Paese. Un luogo bellissimo che tutti ci invidiano, sottovalutato, da rilanciare, dove un direttore cerca di impegnarsi, in perfetta solitudine, completamente circondato da una fortissima resistenza al cambiamento. Il fatto che, questa resistenza, si sia manifestata con una lettera sottolinea ancora di più l’arroganza di chi pensava che, nascondersi dietro una o più sigle sindacali, fosse sufficiente a “spaventare” l’intruso costringendolo a recedere e a comportarsi di conseguenza. I “mariuoli” non pensavano certo di assurgere agli onori della cronaca nazionale. Pensavano che, a seguito della loro iniziativa, qualche solerte funzionario sarebbe stato inviato dal Ministero per mediare, magari convincendo il direttore che, certe richieste di maggiore impegno e disponibilità, pur assolutamente condivisibili, avrebbero dovuto essere gestite con maggiore tatto e sensibilità nei confronti dei sindacati locali. Così facendo il direttore avrebbe perso completamente la sua autorità (ma anche la sua motivazione) e si sarebbe trovato ostaggio, non dei lavoratori, ma di qualche “cacicco” locale che, in questo modo, avrebbe potuto rimarcare il suo potere personale di interdizione. Fortunatamente non è andata così. I vertici confederali non hanno avuto dubbi a schierarsi dalla parte della ragione creando quell’isolamento necessario che sarà fondamentale nei prossimi mesi e che consentirà al direttore a continuare il suo lavoro con ancora maggiore determinazione. E sicuramente presto, tutti noi, ne godremo i benefici. Nessuno ha avuto dubbi su quali fossero i veri interessi in gioco. Né il Governo, né le parti sociali, né i media, né l’opinione pubblica. Quello che mi chiedo è perché tutto questo “buon senso” non possa essere trasportato a livello “Paese”. Ne avremmo veramente bisogno. Se tutti insieme convergessimo su quattro o cinque macro obiettivi fondamentali e non ci perdessimo in scontri verbali di retroguardia trasformeremmo questo nostro Paese in una Reggia. Non bisogna essere dei fini politici per capire che il Paese che dobbiamo cambiare è quello che si nasconde dietro quei comportamenti, che a Caserta si sono manifestati alla luce del sole, ma che sono presenti e radicati ovunque. Nella politica, nei diversi ceti sociali, nei corpi intermedi, nei media, nelle istituzioni. E che solo con uno scatto di orgoglio e di determinazione collettiva riusciremo a sconfiggere. Il nostro è un Paese che ha bisogno di una nuova Costituente più che di una nuova Costituzione. I corpi intermedi potrebbero dare il proprio contributo convergendo unitariamente su alcune proposte sulle quali sono disposti a mettersi in gioco. Così come a Caserta si è scelto il Direttore senza se e senza ma, in questo caso si sceglierebbe il Paese, l’interesse generale e la necessità di riscriverne le regole del gioco. E così passare finalmente da una logica difensiva ma perdente dove domina il “già dato” e “cosa mi aspetto dal mio Paese” a quello di “cosa posso fare”. Prima che sia troppo tardi.

Se i sindacati si rassegnano alla irrilevanza

I segnali, purtroppo, ci sono tutti. Dalla lettera autogol dei sindacati della Reggia di Caserta, al tentativo della FIOM di rientrare in partita sorvolando sul fatto di essersi messa fuori gioco da sola nella vicenda FCA. Ma anche l’idea di presentare una piattaforma unitaria che, pur rappresentando un atto positivo in sé, per il suo valore simbolico, in mancanza di interlocutori interessati rischia di essere ricordato come un esercizio di stile fine a se stesso. Comunicare, come fosse un successo politico, l’incontro con la CONFAPI e la sua presunta disponibilità a proseguire il confronto di merito è un altro segno di grande debolezza. Così come l’irritazione di Gigi Petteni per il mancato coinvolgimento del sindacato sul decreto del Governo previsto per la prossima settimana in tema di detassazione dei premi di produttività. Da questi esempi sembra emergere da più parti una vera difficoltà del sindacato confederale a ridisegnarsi un ruolo propositivo e costruttivo in un contesto diverso dal passato. Dall’altra parte sia il ministro Poletti che il sottosegretario Nannicini in diverse occasioni hanno sottolineato la disponibilità del Governo a confrontarsi con le organizzazioni sindacali a fronte di proposte di merito in sintonia, ovviamente, con un percorso di rinnovamento delle relazioni industriali che sappia superare tutti i suoi limiti attuali. Nell’ultimo confronto tra Tommaso Nannicini, Marco Bentivogli della FIM e Marco Gay presidente dei giovani imprenditori di Confindustria il tema è emerso in tutta la sua portata. Non esiste alcuna volontà di emarginazione ma semmai esiste una indisponibilità a percorrere strade che non porterebbero da nessuna parte. Personalmente credo che il punto vero stia proprio qui. O le organizzazioni sindacali confederali unitariamente decidono di imboccare un percorso nuovo senza sommare le rispettive debolezza e senza nascondere i problemi sotto il tappeto o il rischio di auto condannarsi alla irrilevanza è molto concreto. L’esempio della FIOM è paradigmatico. Dura e pura, minaccia fuoco e fiamme ma non riesce a toccare  palla. Sotto questo punto di vista il rinnovo del contratto dei metalmeccanici sarà un grande banco di prova. La tentazione in entrambe le delegazioni di utilizzare lo specchietto retrovisore è ancora forte e, ad alcuni di loro, suggerirà avvincenti scorciatoie, toni sopra le righe e metafore guerresche tipiche della tradizione classica. Ma quello che è successo in FCA e che rischia di succedere altrove è lì a dimostrare che solo dove esiste un sindacato che comprende la profondità del cambiamento in atto e lo accompagna nell’esclusivo interesse dei lavoratori c’è un futuro per la rappresentanza altrimenti c’è solo lo spazio per una sterile quanto miope difesa dell’esistente. Finché dura. Ma, come abbiamo visto, in questo contesto, è un atteggiamento che rappresenta solo l’altra faccia dell’irrilevanza.

“Fare impresa per creare valori”

Roger Abravanel non poteva ottenere migliore risposta. Confindustria c’è. Per la prima volta nella sua storia una delle grandi organizzazioni degli imprenditori italiani decide che è arrivato il momento di chiedere ai suoi associati un importante momento di riflessione sul senso e sul ruolo dell’imprenditore nella società. E non lo fa chiedendolo a qualche intellettuale amico in un convegno ma a quello che sempre più si sta dimostrando un grande punto di riferimento in questo cambio di paradigma economico, sociale e politico che attraversa l’intero pianeta: Papa Francesco. E non è stata una passerella mediatica. Anzi. È stato un momento fortemente simbolico. In Italia ci sono oltre cinque milioni di imprenditori. Un numero sconosciuto altrove. Cinque milioni di persone che ogni giorno devono trovare in se stessi la forza e l’ingegno di guardare avanti. In un mondo dominato dalla finanziarizzazione e dall’integrazione globale non è facile. Non lo è mai stato ma oggi lo è ancora meno. Per affrontare questa sfida quotidiana, oggi più che mai, occorre trovare un senso, una ragione, una direzione di marcia che sappiano andare oltre la semplice realizzazione del profitto e del benessere personale. Ed è questo disorientamento sul proprio futuro, su quello dei propri figli, sulla capacità o meno di navigare in mari sconosciuti ma anche sulla grande responsabilità rispetto ai propri collaboratori e alle loro famiglie che spinge a cercare dentro di sé una motivazione, una forza d’animo un senso che rimetta in discussione vecchie convinzioni alla ricerca di un ruolo attivo, di presenza, nella comunità. In una comunità nazionale anch’essa percorsa da smarrimento, incertezza, preoccupazione verso il futuro dei propri membri. Ed è questa necessità di sentirsi di nuovo “parte” e non solo “homo oeconomicus” che mostra in tutta la sua forza morale il messaggio di Papa Francesco e la volontà degli imprenditori di interrogarsi veramente. Frasi come “Non c’è giustizia e benessere senza il rispetto dell’individuo” pronunciata dal Papa, oppure “rinnoviamo l’impegno a costruire una società più giusta e vicina alle nostre persone” pronunciata da Storchi, presidente di Federmeccanica, segnalano la presenza di qualcosa di più profondo che Confindustria ha avuto il merito di intercettare e di fare emergere in tutta la sua forza. Certo non basta. Ma guardiamoci intorno. Dove cogliere un segnale altrettanto importante? Nel mondo, in Europa o anche più vicino a noi? Nulla. Tutto sembra andare in ben altra direzione. “Come sarebbe diversa la nostra vita se imparassimo a costruire insieme”. In questa affermazione semplice, diretta ma inequivocabile sta il senso del messaggio di Papa Francesco. L’applauso degli imprenditori presenti rappresenta una conferma e un impegno. Hemingway sosteneva che:”dobbiamo abituarci all’idea che ai più grandi crocevia della vita, non c’è segnaletica”. Beh! Questo è un segnale forte e chiaro. A tutti noi saperlo coglierlo o meno.