Grande distribuzione tra panettoni, angurie e scarpe…

Ebbene sì. Questa mattina, nonostante il lockdown e in piena zona rossa, sono uscito di casa prestissimo. Obiettivo: raggiungere la LIDL di Corbetta prima dell’apertura. Mi aveva stuzzicato un tweet di Michele Arnese, direttore di Start Magazine provocato dall’entusiasmo del titolista di un articolo del giovane giornalista Alessandro Vinci sul  Corriere (https://bit.ly/3pFkFL1). “Tra poche ore le ambitissime sneaker della catena LIDL saranno finalmente acquistabili anche in Italia a 12,99 euro. Spazio anche a ciabatte, calzini e t-shirt: tutto in edizione limitata”.

Quel “finalmente” messo lì come se fossimo alla fine di un incubo. Un avverbio che, di questi tempi, si usa con cautela e circospezione.  Per l’annuncio del vaccino contro il coronavirus o alla percezione di un’inversione del malefico RT o, infine, all’arrivo degli agognati ristori.

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Grande distribuzione. Innovazione e cambiamento passano anche dall’Europa

Cosa pensano della Grande Distribuzione in buona parte delle istituzioni politiche europee e nazionali risente di due pregiudizi  radicati. Innanzitutto, anche grazie all’azione delle lobby contrarie, la GDO è ritenuta l’attore “cattivo” dell’intera filiera agroalimentare che strozza l’agricoltura anche attraverso pratiche sleali. In secondo luogo perché viene spesso associata al cosiddetto  “lavoro povero” (poco qualificato, precario, con contratti di lavoro atipici e una forte incidenza di part-time involontario, molto spesso femminile). E questo non vale solo per il nostro Paese.

Di questi tempi, poi, sono tutti convinti che la GDO stia facendo un sacco di soldi. Difficile spiegare che non è vero. Né provare a far riflettere, ad esempio nel nostro Paese,  sull’evoluzione dei formati, le riorganizzazioni e le concentrazioni   necessarie, le conseguenze sui modelli di consumo sulla quantità e qualità dell’occupazione che queste comportano.

L’insistenza sulle  chiusure festive, l’isolamento dei reparti no food, le limitazioni al movimento tra comuni e regioni sono solo la punta dell’iceberg di una pregiudizio che ha radici più profonde in una parte del mondo politico tradizionale e di parte dei  media nei confronti dei luoghi di consumo. L’idea stessa di spostare dal lavoro ai consumi il peso fiscale (il cosiddetto tax shift) fa parte di questo filone culturale. Come quello di pretendere di decidere a monte e in sede politica, ciò che è indispensabile, utile e necessario da ciò che non lo è nell’esercizio di una attività economica e, addirittura, di  come dovrebbe essere organizzata.

E poi le web companies. Croce e delizia di un cambiamento epocale in corso che però operano con regole e regimi molto meno stringenti e diversi del resto del commercio tradizionale o moderno che sia. Infine il mondo delle botteghe più o meno cresciute che sembravano resistenti ad ogni avversità ma contemporaneamente  fragili e facili da mettere in un angolo quando la situazione lo richiede. Come dimostra  l’attuale situazione. Leggi tutto “Grande distribuzione. Innovazione e cambiamento passano anche dall’Europa”

Grande Distribuzione. Il clima aziendale va in classifica…

Mi sono immaginato l’espressione di sorpresa di molti formatori, consulenti e sindacalisti del commercio nel vedere la classifica pubblicata dal Corriere Economia sulle insegne della GDO in classifica tra le aziende top in cui lavorare. Così come quella dei CEO che si sono trovati chiamati in  causa improvvisamente senza, probabilmente, neanche sapere di aver partecipato ad una gara. Due domande semplici: dai un voto alla tua azienda da 1 a 10 e la consiglieresti a un tuo familiare? Nulla di particolarmente sofisticato ma 12.000 lavoratori coinvolti  da Statista che ha costruito la graduatoria con  i giudizi espressi e pesati che hanno superato i 650.000 e hanno messo in gioco 400 aziende.

Il clima aziendale, checché se ne pensi,  è uno dei principali fattori di successo di un’impresa che sa dove andare. È complementare alle strategie e alle politiche commerciali. È quell’elemento che fa superare le difficoltà, i piccoli e grandi problemi che ti porti sul posto di lavoro ma anche quelli che incontri mentre sei nel PDV. È costituito da quello scambio continuo tra il dare e l’avere (non solo economico) che si gioca sul piano organizzativo, psicologico e personale. È quello che, se stai sopra, di convince che puoi provare a chiedere qualcosa di più in certi momenti.  

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Conad/Auchan. I conti tornano

I numeri parlano da soli (https://bit.ly/3jeAhjT). Basterebbe leggerli per verificare l’impegno possibile assunto da Conad in coerenza con quanto dichiarato fin dall’inizio e ribaditi  nell’incontro al Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), con le Sottosegretarie Alessandra Todde (MISE) e Francesca Puglisi (Lavoro)  e le Organizzazioni Sindacali per la prevista verifica, a 14 mesi dall’avvio dell’operazione, dell’andamento del piano di salvataggio dell’ex Gruppo Auchan proposto e condotto da Conad.

A dire il vero i “malpancisti” le hanno provate tutte. Non era ancora concluso il passaggio che già invocavano il tradimento del claim “Persone oltre le cose”. Poi si sono nascosti dietro i numeri totali dell’ex Auchan appena ceduta per paventare il rischio di migliaia di disoccupati. Mentre l’operazione era in corso hanno, per incompetenza, mischiato le richieste di CIG, ovviamente complessive, con i potenziali esuberi per avere una loro visibilità nella vicenda. Infine Raffaele Mincione preso strumentalmente dalle cronache vaticane solo per cercare di mettere i bastoni tra le ruote ad un’operazione importante per il nostro Paese e per Conad impegnata in un processo di crescita decisivo per il suo futuro. Per questi “benaltristi”  la strada da prendere era un’altra. Come sempre. Ovviamente dispensandosi dall’indicarla sia sul piano della fattibilità che dei costi. Com’era prevedibile solo la fine del 2020 confermerà o meno che l’operazione di salvataggio e di integrazione in Conad ha raggiunto i suoi obiettivi. Ad oggi però i numeri confermano che non siamo lontani.

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Ristoranti e grande distribuzione. Il rischio di non reggere decisioni affrettate

Per chi come me ha passato tutta la sua vita professionale in aziende industriali  della filiera agroalimentare e almeno 20 anni nella grande distribuzione e nella rappresentanza di categoria del commercio “prendere parte”, condividere,  solidarizzare, non significa, almeno nelle intenzioni, temere di trovarsi in un conflitto di interesse. Non avendo interessi personali da difendere, non ho conflitti. Semmai opinioni. Condivisibili o meno.

Per questo trovo assolutamente corretto il comunicato congiunto di Cncc, Confcommercio Lombardia, Confimprese, Federdistribuzione e  Fipe, che critica fortemente il provvedimento che prevede la chiusura nei fine settimana degli spazi della media e grande distribuzione non alimentare, tra cui i centri commerciali, e che impone la chiusura anticipata alle 23 dei pubblici esercizi (https://bit.ly/37qcw6c). Personalmente credo abbiano ragione.

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Grande Distribuzione, Terziario di mercato e competizione nella rappresentanza datoriale

Delle quattro confederazioni/federazioni titolari di un contratto nazionale applicato dalle insegne della  Grande Distribuzione le discussioni  si sono sempre concentrate  sulla scelta di Federdistribuzione di realizzare il proprio uscendo da quello storicamente firmato da Confcommercio.  Comprensibile sul piano dell’immagine interna (essere firmatari di CCNL è un plus apprezzato dagli associati), inutile sul piano strategico perché come ho sempre sostenuto, l’obiettivo di un settore non dovrebbe mai essere l’indebolimento della sua rappresentanza per gli effetti negativi che provoca nel tempo sul piano del peso economico e sociale complessivo.

L’ombrello confederale inoltre  porta con sé livelli di interlocuzione istituzionali e politici spesso sottovalutati ma decisivi nelle fasi controvento. Così non è stato. Ed è facile comprendere come sarebbe importante in una fase come quella che stiamo attraversando. Moltiplicare gli interlocutori ha generato una fragilità di fondo, un pericoloso senso di autosufficienza e, purtroppo, forme di concorrenza  sleale tra imprese.

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Grande Distribuzione. Capro espiatorio o partner fondamentale nella filiera agroalimentare?

Pluvia defit, causa christiani sunt (manca la pioggia, la colpa è dei cristiani) diceva Sant’Agostino. La trasmissione “Presa Diretta” dedicata alla filiera agroalimentare aveva la necessità di basare la propria trama narrativa sull’individuazione di un facile capro espiatorio.

Gli ingredienti della storia c’erano tutti. I buoni (il mondo agricolo), i cattivi (la Grande distribuzione), il pentito (Giuseppe Caprotti). Il politico che quasi  “giustifica” l’illegalità nei campi (Paolo de Castro) come reazione allo strapotere della GDO e l’insegna ingenua che pur accettando il confronto per provare a dimostrare la propria presunta diversità si è lasciata bacchettare in pubblico  come uno scolaretto preso a copiare il compito dal compagno di banco (Coop). E infine chi, estraneo a questa contrapposizione, paga il conto: i lavoratori del comparto agricolo e i consumatori.

Trovo corretto, da spettatore, il tweet di Anita Lissona “Trattare in sequenza il tema delle aste al ribasso nei supermercati, peraltro già bandite dalla DMO seria, la stragrande maggioranza, e il fenomeno odioso del caporalato sa di tesi preconcetta e  sminuisce il valore obiettivo di un servizio giornalistico.”

Questi i fatti, lo spettacolo confezionato e cucinato. Niente di nuovo sotto il sole. Tesi unilaterali, scorrette, manipolatorie che vengono però da lontano. Partono da un pregiudizio nei confronti di un comparto che, da parte sua, non ha mai voluto agire come tale. Ciascuno pensa al proprio albero. Non alla foresta che rischia di essere incendiata. Leggi tutto “Grande Distribuzione. Capro espiatorio o partner fondamentale nella filiera agroalimentare?”

La classe dirigente tra realtà vissuta e sua rappresentazione

Il rischio che la classe dirigente interpreti sulle proprie sensazioni e valutazioni la realtà circostante e quindi imposti le proprie convinzioni e le proprie strategie sociali, economiche e comunicative su questo è una costante che dovrebbe far riflettere.

Per questo fa bene Dario di Vico a rilanciarlo con un editoriale da leggere  sul Corriere  (https://bit.ly/3j8sTHC). Manca, è inutile nasconderlo,  la volontà, la disponibilità o la capacità di stabilire una connessione con il resto della società. Di comprenderne i disagi, le ansie e le preoccupazioni per la loro vita concreta e per il loro futuro.

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Amazon e non solo. Spunti di riflessione

È di pochi giorni fa l’articolo di Silvia Armati su informacibo  (https://bit.ly/32yyl0C) che racconta l’accordo tra Cia-Agricoltori Italiani e Alibaba.com, la più grande piattaforma di e-commerce B2B a livello internazionale. L’obiettivo è promuovere l’export del Made in Italy agroalimentare, aprendo nuovi canali commerciali online per le aziende associate soprattutto verso la Cina.

L’articolo sottolinea come “Alibaba.com rappresenti la maggiore piattaforma di e-commerce B2B del mondo, come 150 milioni di utenti registrati, 190 tra Paesi e Regioni coinvolte, oltre 300.000 richieste al giorno per 40 settori merceologici. Con un occhio di riguardo proprio al “food&beverage”, che rappresenta la prima voce tra le “top 10 industries” della piattaforma online, con il 12% dei click sul vino e il 7% sulla pasta”.

Dall’altra parte dell’Atlantico, con Walmart, ormai fuori dall’affaire Tik Tok in coppia con  Microsoft, Amazon cerca di risalire la china per recuperare una relazione con Washington dopo essersi trovata  in difficoltà nei rapporti politici che contano.

L’ingaggio nel CDA del generale Keith Alexander, ex capo della National Security Agency (Nsa), credo vada letto in questo contesto (https://bit.ly/2REOCuQ). Secondo la CNN il ruolo di Alexander con la società rifletterebbe proprio la volontà di rafforzare i  legami di Amazon con Washington.
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Il “distanziamento” tra le parti sociali è dannoso per il Paese.

L’incontro di oggi tra Confindustria e sindacati confederali potrebbe rischiare di essere una non notizia. Solo Dario Di Vico lo segnala in prima pagina sul Corriere pur non nutrendo particolare ottimismo sul suo possibile esito (https://bit.ly/2R0e7GH).

È indubbio che uno  degli effetti collaterali del Covid-19 è stato di aggravare lo stato di salute di un sistema relazionale proprio perché erano già presenti sintomi di patologie degenerative.

Innanzitutto occorre sottolineare che il processo di ritorno nei propri recinti associativi di ciascuna confederazione ha coinvolto tutte le parti sociali. Il calo degli associati e degli iscritti ha spinto le rispettive leadership a derive identitarie e a scelte conservatrici.

Solo Confindustria ha cercato, con la scelta di Carlo Bonomi, di sottrarsi all’inevitabile traiettoria perché è l’unica, tra le confederazioni, a dover fare i conti con l’irrequietudine dei propri associati e quindi con la necessità di cavalcare il cambiamento imposto dalla globalizzazione. Ma anche lì temo che il dibattito sul livello di irruenza necessaria sia tutt’altro che concluso.

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