Contratti nazionali e terziario. Siamo alla fine di un ciclo?

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La sensazione è che un importante ciclo storico si stia chiudendo. La contrattazione nazionale è in crisi dappertutto. Otto lavoratori su dieci sono in attesa di un rinnovo che difficilmente porterà innovazioni e risposte concrete.

Non è solo un problema che riguarda le categorie industriali. Anche la leadership di Confcommercio (peraltro titolare dell’unico CCNL confederale) e delle sue federazioni sulla contrattazione nazionale di categoria del terziario sta progressivamente venendo meno.  È una crisi di rappresentatività ma anche di proposta e di contenuti.

La stagione, ormai alle porte, dirà se siamo di fronte ad un battuta di arresto che il covid-19 ha semplicemente aggravato o, viceversa, siamo di fronte ad  un problema di crisi di strategia e di difficoltà a presidiare un comparto stretto tra la perdita di visione dello strumento,  la concorrenza di altre sigle e la “minaccia” del salario minimo.

Per il commercio e il terziario è una crisi che viene da lontano. Innanzitutto la proliferazione nel comparto dei cosiddetti “contratti pirata” ha eroso, in parte,  l’autorevolezza del CCNL firmato da Confcommercio. Poi lo strappo di Federdistribuzione concluso con la firma di un proprio  CCNL nel 2018 che ha spinto Confesercenti e Cooperative a giocare le loro partite in dumping. “Pagare meno per pagare tutti” è stato lo slogan che ha costretto tutte e tre le sigle sindacali  Confederali a rinegoziare sostanzialmente in  pejus, contenuti e tranche per tentare di riallineare i contratti firmati, spingendoli così, per oggettiva debolezza, a subire l’iniziativa ribassista del frastagliato fronte datoriale.

Una situazione analoga nel turismo dove il contratto principale, gestito da Federalberghi (Confcommercio) , è stato messo in discussione da FIPE (sempre Confcommercio) che ne ha negoziato un altro, sempre con i sindacati confederali, a costi inferiori. E la recente uscita da FIPE di una parte di ristoratori per le tensioni sul post pandemia (in direzione di  Confindustria e Confartigianato) non fa presagire nulla di buono su una probabile e ulteriore proliferazione  dei contratti nazionali.

A mio parere sarebbe troppo facile scaricare la situazione sulla debolezza dei sindacati di categoria. C’è probabilmente anche questo.  C’è però, sul fronte dell’associazionismo datoriale, l’incapacità di considerare il CCNL altra cosa rispetto  ad una fonte di costi da comprimere.

E questa mancanza di visione sul ruolo e sull’evoluzione possibile del contratto nazionale di categoria apre inevitabilmente il campo ad altri soggetti più spregiudicati (fino a chi sigla i contratti pirata) e inconsapevolmente allo stesso salario minimo di legge.

Confcommercio quindi si trova davanti ad un bivio. Conservare l’esistente rassegnandosi allo sfarinamento a cui  è destinato il proprio modello contrattuale, sia nei comparti “core” che nel terziario in generale dove la rappresentatività reale è tutta da dimostrare, oppure giocare d’attacco proponendosi come “federatore” di un nuovo modello contrattuale, più leggero centralmente e affidato per le specificità ai singoli sottosettori.

Nel terziario di mercato  la contrattazione aziendale praticamente non esiste. Tantomeno quella territoriale. Parlare di “patto della fabbrica” sarebbe un esercizio di stile. Si potrebbe introdurre una contrattazione di comparto gestita direttamente dalle federazioni di Confcommercio o da altre seppure esterne al sistema ma che condividono interessi e obiettivi comuni. Oppure, stabilire regole e riferimenti generali per consentire l’opzione aziendale (per aziende o gruppi che la dovessero  ritenere praticabile).

In questo modo il livello confederale comprenderebbe diritti, doveri, nuovi minimi contrattuali (da definire In rapporto ad un possibile decentramento settoriale o aziendale), range retributivi in sostituzione dell’inquadramento ormai obsoleto e welfare (previdenza, sanità, formazione e soprattutto un contributo innovativo alle politiche attive) lasciando ai comparti e alle imprese lo sviluppo di contenuti più specifici.

Un dato però appare certo. Alle microimprese (e non solo) senza un vero intervento su fisco e contributi converrebbe  il salario minimo. Non certo ai lavoratori e nemmeno alle rappresentanze sia sindacali che datoriali. Se però manca  una visione, lì si andrà a parare.

In gioco ci sono anche flussi di finanziamento importanti le organizzazioni di rappresentanza. Chi è fuori dal sistema ha tutto l’interesse a metterlo in discussione per provocarne la crisi o per aggiudicarsene una fetta. Ed è forse questo il motivo per il quale tutto tende a muoversi sotto traccia. Ma i tempi stringono.

Da una parte Confindustria propone al sindacato  confederale di riscrivere insieme un diverso modello contrattuale. Dall’altra parte il più importante contratto confederale si sta sbriciolando per fragilità di una leadership che lo ha ereditato dal passato ma che non sembra si ponga il problema di rilanciarlo.

Sul tavolo la necessità di dare una risposta concreta ai lavoratori, di scrivere nuove regole del gioco e di certificare la rappresentatività per costruire un argine alla proliferazione dei contratti pirata. Una sfida non da poco. 

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