Dove può portare la strategia della CGIL?

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Ieri c’è stata una importante mobilitazione della CGIL che viene sottovalutata nei commenti della stampa di oggi. Una manifestazione finalizzata a capitalizzare una vittoria importante (dal loro punto di vista) e a serrare le fila del primo sindacato italiano in un contesto politico e sociale estremamente complesso.

Non dobbiamo dimenticare che il definitivo affermarsi dei pentastellati e dei sovranisti sul piano dell’opposizione politica al sistema toglie inevitabilmente spazio di manovra a tutta quell’area che si muove a sinistra del Partito Democratico.

Da noi come altrove in Europa, lo scontro che tende a prevalere è tra populismi vecchi e nuovi e establishment sotto il cui ombrello si riparano e convergono non solo tutti coloro che hanno un interesse economico ma anche chi ha paura di perdere ciò che ha, chi crede nel gradualismo riformista e nell’Europa e chi teme che i “nuovi barbari” siano pericolosi a prescindere.

Questo determina che la maggioranza degli elettori in quasi tutti i Paesi, probabilmente Italia compresa, sembri non cercare avventure né rivoluzioni. Inoltre il prevalere dei pentastellati, sopratutto nelle nuove generazioni, rende sempre più lontana e impalpabile quest’area politica che non riesce neanche a convergere su di un progetto unitario credibile.

C’è una eccezione, da non sottovalutare, che mantiene un forte potere di attrazione e di ricomposizione sociale: la CGIL. Di fronte al rischio di essere spinta verso l’estremismo sociale e sindacale su cui si stava avventurando la FIOM del primo Landini o di restare ferma al palo per la difficoltà di concordare strategie e iniziative con CISL e UIL, la CGIL sembra aver imboccato un percorso su di un doppio binario.

Attrarre e coprire essa stessa una forte iniziativa sul terreno sociale (referendum, carta dei diritti, manifestazioni di organizzazione), cercare accordi sui contenuti con CISL e UIL, nelle categorie, con la contrattazione o, direttamente insieme a loro, nei confronti delle organizzazioni datoriali e delle istituzioni.

L’obiettivo di questa iniziativa politica a geometria variabile è contendere il campo ai pentastellati in tema di opposizione all’establishment, consentire ai resti della sinistra un tempo sufficiente di ricostruzione e ricomposizione di un’area politica di impronta socialdemocratica e arrivare così uniti al prossimo congresso.

Susanna Camusso consegnerebbe così al suo successore una CGIL decisamente rinnovata nei gruppi dirigenti, protagonista sulla scena sociale, punto di riferimento per una nuova sinistra più vicina ai Sanders, ai Corbyn e ai Melanchon che ai più moderati Schulz, Renzi e Macron.

Non dimentichiamo che l’aveva ereditata in pessime condizioni da Guglielmo Epifani. Divisa, messa in un angolo da CISL e UIL e dagli accordi separati, frustrata al suo interno per la debolezza di proposta e di iniziativa.Tenuta a distanza dal PD già ben prima che lo stesso si lanciasse nella disintermediazione renziana.

Nessuna forzatura sui contratti nazionali né con le organizzazioni datoriali con cui si sono siglati accordi importanti, hanno rappresentato il primo giro di boa.

La vittoria a tavolino sui quesiti referendari, il secondo. La CGIL ha capito benissimo che, oggi, non è in grado di fare forzature né mobilitazioni nelle imprese. Poche risorse disponibili, investimenti ai minimi storici, strategie di coinvolgimento del capitale umano che tendono ad escludere il sindacato. Tipologie contrattuali sufficientemente lasche, soprattutto sui giovani. Troppo forte il divario di forze in campo.

Ma ha capito benissimo la fragilità della politica e delle istituzioni in difficoltà ad affrontare le priorità con risorse scarse e sotto tiro dei pentastellati, le difficoltà interne allo stesso Partito democratico e la confusione che regna nella destra italiana.

L’assenza di CISL e UIL completano il quadro. Così come ha capito benissimo che può tentare di aggirare il terreno minato rappresentato dalle imprese così come ha fatto sui voucher grazie anche al situazione di evidente stallo della stessa Confindustria.

La riuscita di questa strategia non è scontata. Innanzitutto perché le sinistre sociali e politiche tradizionali sono in crisi in tutta Europa. Lo scontro tra populismi e establishment nazionali, tutt’altro che terminato, trascina altrove il malcontento di una parte consistente del potenziale bacino di riferimento.

Lavoro, immigrazione, crisi economica sono temi che spaccano e le cui difficili risposte, tutte ancora da individuare, sono terreno fertile per i demagoghi di turno. E, su questi temi, la CGIL viene percepita, fuori dal suo recinto organizzativo, come rappresentante di una parzialità autoconservativa e difensiva quindi incapace di contribuire a individuare risposte complessive credibili.

In secondo luogo il rapporto con CISL e UIL confederali che rischia di ritornare conflittuale pur scontando l’evidente vuoto di iniziative e di proposte di queste ultime. La fine della stagione degli accordi separati è avvenuta più per decisione esterna che per scelta consapevole delle tre organizzazioni e poteva essere propedeutica ad un nuovo scenario di unità e di convergenza di tutto il mondo della rappresentanza. Convergenza fondamentale per rilanciare il Paese. Così, però, non è stato. Quella idea, ad oggi, sembra tramontata.

La sensazione è che, vincolate CISL e UIL ad una unità di azione “minima” e ingoiando qualche rospo di merito nelle categorie la CGIL sia riuscita a blindarsi nel suo perimetro proponendosi come soggetto politico autonomo. La scelta sui referendum, sulla carta dei diritti, sul ripristino dell’art. 18 vanno certamente in questa direzione.

La gestione del referendum Alitalia, da questo punto di vista, fornisce un elemento interessante di riflessione. All’Alitalia la CISL si è predisposta, fin dall’inizio, con generosità ma anche con ingenuità a far da supporto al Governo e ad un management poco credibile rinunciando a costruire un rapporto vero con i propri iscritti, la UIL si è trovata, addirittura, il suo sindacato di categoria che ha lasciato libertà di voto (quindi libero di remare contro) mentre la CGIL, unica ad aver ben percepito il disastro che si stava consumando, si è defilata in quelle ore cruciali evitando di esporsi e allineandosi alle altre sigle confederali, senza però forzare alcunché.

E il giorno dopo, preso atto del risultato, ha lasciato ad altri rimpianti e autocritiche cercando di rientrare in gioco con la proposta di coinvolgimento della cassa depositi e prestiti.

Infine ma non meno importante il rischio che gli effetti concreti di questa strategia, dove i confini tra iniziativa politica e sindacale sembrano scomparire, contribuiscano a indesiderabili vittorie politiche altrui.

La profondità e la lunghezza della crisi economica e il distacco percepito tra la narrazione dell’establishment e la realtà hanno scavato un solco tra rappresentanti e rappresentati che tutti cercano di riempire con i loro contenuti.

C’è chi lo fa aggiornando o rilanciando tesi e strumenti del passato e chi cercando di cavalcare le onde di un futuro comunque complesso per il mondo del lavoro e per le forme di rappresentanza.

Il forte ridimensionamento della sinistra tradizionale francese, italiana e inglese è sotto gli occhi di tutti. Sanders e Corbyn portano, in parte, la responsabilità di aver tirato la volata a Trump e alla Brexit.

L’assenza di una sinistra tradizionale in Italia dotata di una forza elettorale vera e propria rischia di mettere tutta questa responsabilità sulle spalle della CGIL che in questo modo si trova inevitabilmente  fuori da confini strettamente sindacali.

E su questo, credo, il dibattito preparatorio del prossimo congresso, dovrebbe giocare la vera partita.

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