Governo, riforma del modello contrattuale e sindrome di Münchausen

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Leggendo gli articoli che via via appaiono sulla stampa, in relazione alla prossima probabile riforma della contrattazione, si ha la netta impressione che un rischio possa essere anche quello di farci solo del male con l’unico scopo di attirare attenzione e simpatie dall’Europa. Magari per ottenere qualche dilazione sui conti pubblici. E così di continuare a manifestare i sintomi di una specie di sindrome di Münchausen, di cui, ultimamente sembriamo affetti. La riforma della contrattazione è un passaggio delicato e importante che non va sottovalutato. Non esistono scorciatoie.
Purtroppo l’insistenza sulla necessità di decentrare la contrattazione come unica soluzione fattibile e a portata di mano lo dimostra in modo evidente. Ne parlano molti, a proposito ma anche a sproposito. Giuslavoristi, opinionisti, consulenti aziendali, esperti e inesperti della materia. Alla domanda sul perché non c’è abbastanza contrattazione aziendale, in Italia, si è trovata una risposta semplice e cioè che ci sarebbe una contrattazione nazionale pesante che, di fatto, la rende marginale. E ancora che la produttività è bassa anche perché non c’è la possibilità per le aziende di legare parte dei salari a questo scopo. A mio parere si tratta di pericolose semplificazioni. Premetto che non sono affatto contrario ad un rilancio serio della contrattazione aziendale. La trovo assolutamente idonea a risolvere alcuni problemi (produttività, vincoli organizzativi, coinvolgimento, salario legato a particolari performance, ecc.). Mi piace di meno quando lascia l’azienda, sola, in balia delle sue priorità del momento e delle contropartite richieste da sindacalisti di vecchio conio per condividerle. Oggi, la contrattazione aziendale, è praticata da una modesta minoranza di aziende, seppur significative. Nel terziario non sfiora il 3%. Nell’industria, presa complessivamente, forse non arriva al 10%. La punta è nei metalmeccanici con circa il 30%. E queste percentuali, sono in calo, non in crescita. Ed è, infine, per buona parte una contrattazione di natura “concessiva” o “restitutiva” perché affronta temi legati a ristrutturazioni, tagli, riduzioni di costi, flessibilità. Certo ci sono anche aziende che scommettono sul welfare e sul benessere dei propri collaboratori ma lo fanno senza coinvolgere il sindacato o limitandosi a coinvolgerlo solo sul piano formale. Come sulla formazione. Così come molte imprese hanno una propria politica retributiva e di sviluppo delle risorse che si integra con il CCNL ma che non è condivisa con nessuno. Continuo a pensare che i problemi veri, per le aziende, di cui nessuno sembra preoccuparsene siano rappresentati dalla struttura della retribuzione (salario minimo, salario professionale e salario a obiettivi) , da un inquadramento ormai obsoleto (mansionari e livelli), da un codice civile che è stato predisposto in epoca completamente diversa da oggi (dove la mansione era per la vita e comunque sempre in crescita) e dal costo del lavoro comprensivo di carico fiscale e contributivo eccessivo. Tutti argomenti che, a livello aziendale, non possono essere nemmeno sfiorati o quasi. Nelle condizioni attuali la stragrande maggioranza delle imprese non sarebbe interessata ad alcun tipo di contrattazione aziendale. Qualcuno, prima o poi, lo dovrà pur dire. Le aziende più attente, semmai, vogliono gestire autonomamente i propri collaboratori sia sul piano economico che professionale. Il neo Presidente di Confindustria Boccia, nel suo discorso di insediamento lo ha lasciato intendere molto bene: “occorre trovare una soluzione che consenta, a chi non vuole o non può contrattare in azienda, di avere un contratto nazionale di riferimento”. Quindi di cosa stiamo parlando? Ho sentito raccontare, in un recente servizio televisivo sull’argomento, che questa “riforma” consentirebbe al Governo di ottenere, in cambio dall’Europa, una maggiore flessibilità nei conti pubblici. Se fosse così, facciamola pure. Ma, almeno, tra di noi, non prendiamoci in giro. Senza un contratto nazionale di riferimento e una sorta di nuova IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato) stabilire la prevalenza della contrattazione aziendale tout court significa, nel lungo periodo, abbassare i salari reali per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Questo deve essere chiaro. La mancanza di regole certe sulla esigibilità spingerà molte aziende in affanno o in difficoltà a muoversi con estrema decisione su questo versante. E, molte altre ad approfittarne creando pericolose situazioni di dumping.
Ma sopratutto questa scelta, se sganciata da altri interventi conseguenti, cristallizzerebbe definitivamente la cosiddetta “legge del pendolo” come unico elemento di (dis)equilibrio tra le parti. Il più forte comanda e detta tempi e contenuti. Ieri era il sindacato, oggi sono le aziende, domani, chissà. Non mi sembra né un sistema da condividere, né collaborativo, né moderno. Quindi cosa occorrerebbe fare? Innanzitutto mantenere il contratto nazionale di riferimento stabilendo tra le parti le materie che possono essere derogate ad altri livelli (aziendali, di comparto, ecc.) quindi il luogo dove può avvenire lo “scambio” e su cosa. Inoltre occorrerebbe definire le materie specifiche del livello aziendale e come si articola il confronto dove c’è una rappresentanza sindacale ma anche come si procede dove non dovesse esserci. E quali garanzie concrete per i lavoratori. Infine occorrerebbe aprire un confronto con il Governo sul costo del lavoro e sulle leggi che dovrebbero essere modificate per rendere effettivamente flessibile (non precario) il rapporto di lavoro, in entrata, in costanza e dopo. E le contropartite per il sindacato confederale e per i lavoratori in termini di concreta ed effettiva “corresponsabilità”. Vantaggi e svantaggi. E, tra le parti, un negoziato di merito sul nuovo modello contrattuale. Altrimenti la montagna è destinata inevitabilmente a partorire un topolino. Continuo a pensare che da questa situazione non se ne esce con mosse ad effetto né con scorciatoie. È necessario ricostruire un modello di regole per il lavoro che deve saper trovare un nuovo equilibrio tra diritti, doveri, strumenti e rappresentanza. Soprattutto occorre uscire definitivamente dalla logica dei rapporti di forza che, di volta in volta, rendono asimmetrico e quindi sbilanciato il rapporto di lavoro. Aldo Moro ci ha insegnato che “questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. E questo vale sia per gli imprenditori che per i lavoratori. E, ovviamente, per le loro rappresentanze. Occorre decidere, una volta per tutte, di fare un passo avanti per mettere a disposizione soprattutto delle nuove generazioni un sistema moderno e più attento alle esigenze concrete di flessibilità delle imprese e che concretizzi questa “corresponsabilità” rafforzando il ruolo del capitale umano in azienda e della collaborazione, qualificando il welfare di natura contrattuale, il diritto soggettivo alla formazione e la tutela del salario reale. L’autunno è ormai dietro l’angolo. Il tempo a disposizione non è molto per decidere quale dovrà essere la direzione di marcia. E Il rischio che la situazione si aggrovigli tra contratti aperti e risorse scarse a disposizione del confronto con le parti sociali è, purtroppo, molto alto.

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