Tutti in corsa per gestire il capitale umano delle imprese?

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Negli anni 90 in Francia uscì un libro dal titolo estremamente significativo: “Tous DRH”. Tutti direttori risorse umane. Spiegava cosa e come fare a gestire le risorse umane in azienda senza dover ricorrere per forza agli specialisti della funzione RH. Si rivolgeva ai manager delle vendite, della logistica, dell’amministrazione invitandoli a gestirle in prima persona. Indicava una necessità ma anche una tendenza che presto si sarebbe affermata, non solo in Francia. Una necessità perché le risorse umane dovevano ovviamente essere gestite innanzitutto dai propri responsabili e non da altri. Gestire, per un’azienda, significa ascoltare, spiegare, ingaggiare, condividere, motivare, riconoscere. E, queste capacità tutti le devono e le possono apprendere. Segnalavano però anche l’inizio di una tendenza dovuta anche (non solo) alle quotazioni di borsa che fino alla crisi avrebbero eccitato a dismisura fondi di investimento e top manager di molte imprese con le inevitabili riorganizzazioni aziendali provocate da continue acquisizioni, fusioni e incorporazioni che hanno, tra le altre conseguenze, stravolto gli organigrammi preesistenti. Le funzioni di staff e molte altre funzioni aziendali sono state ridotte al minimo. Così come alcune attività esclusive delle Direzioni Risorse Umane. In Italia l’effetto di queste politiche ha determinato, nel tempo, una forte riduzione di peso delle Direzioni Risorse Umane le cui responsabilità sono state inglobate, verso l’alto dai CEO stessi o dai Comitati di Direzione e, verso il basso, dai manager di linea trasformando la funzione più da consulente interno “senza portafoglio”. Da qui il presidio sui costi, sui tagli, sulla formazione finanziata e, di conseguenza un sostanziale ridisegno del ruolo sempre più tattico e sempre meno contributore della strategia ovviamente in modalità e gradi diversi a seconda del settore e dell’azienda. D’altra parte davanti a un CEO che ragiona con la trimestrale in mano c’è poco da fare strategia sulle risorse umane e sulla gestione dei talenti! La profondità della crisi e la necessità di alzare lo sguardo hanno aiutato a superare in parte quella fase. Da un lato la necessità di coinvolgere, ingaggiare e investire sul capitale umano dell’impresa sono tornati centrali soprattutto con il parallelo venire meno del fordismo anche nelle sue ricadute gestionali e quindi contrattuali. In questo nuovo contesto le risorse devono essere trattenute, motivate e gestite individualmente o in squadra ed è impossibile riservare queste politiche solo agli alti livelli. La gestione delle risorse deve essere oggettiva, meritocratica e trasparente. Soprattutto, per il collaboratore, perché dovrà sempre più accompagnarlo nel suo percorso professionale, anche oltre l’azienda stessa. Dall’altro lato i veri professionisti della funzione hanno saputo dimostrare che il clima interno, fondamentale per affrontare qualsiasi sfida, non si rafforza declamando valori non agiti, affogando dubbi e incertezze in sfarzose quanto inconcludenti convention motivazionali o lanciando inutili survey dai risultati stupefacenti adatti più alla Pravda di antica memoria che ad un’impresa che ha bisogno di coerenza, esempio e realismo. Nel frattempo il sindacato, in tutto o in parte, si è praticamente eclissato dalla vita delle aziende (non in crisi) ritagliandosi un ruolo marginale e notarile nei confronti delle imprese ma soprattutto allontanandosi dalle nuove generazioni che via via si affacciavano al lavoro in modalità diverse dal passato lasciando purtroppo la convinzione in molti manager di medio e alto livello, di poter fare di tutto e di più, di “interpretare” regole e contratti in modo sempre più spregiudicato e di poter osservare il sistema delle relazioni sociali e delle associazioni di rappresentanza come una sorta di mondo in via di estinzione. E di conseguenza, di “sopportare” i colleghi manager delle direzioni risorse umane impegnati a sottolineare rischi e opportunità non colte. Anche questa fase, fortunatamente, sembra però volgere al termine. L’irrigidimento sui contratti nazionali di alcune federazioni datoriali ne segnala i titoli di coda, la chiusura di altri contratti nazionali (terziario, chimici e alimentaristi) e lo stesso confronto (pur complesso) aperto sul tavolo dei metalmeccanici segnala la volontà di provare a percorrere nuove strade. I soggetti più attenti del sindacato, delle imprese e delle associazioni datoriali più sensibili stanno segnalando la necessità di questo cambio di fase. La scelta della “corresponsabilità” proposta da Confindustria o della “collaborazione intraprendente” proposta tempo fa da Confcommercio vanno entrambe in questa direzione. Così come le riflessioni che attraversano alcune Federazioni di categoria del sindacato. C’è un vecchio proverbio arabo che recita: “La differenza tra un deserto e un giardino non è l’acqua ma l’uomo.” Quello che ci attende è una scommessa nuova. Per le imprese e per il sindacato. Una scommessa che va oltre la vecchia cultura collettiva di derivazione sindacale e fordista ma anche dalla cultura aziendale che pensa di gestire autonomamente un soggetto, il collaboratore, che sempre più sa quello che vuole e che non necessariamente coincide con i voleri dell’impresa nella quale è momentaneamente impiegato. Per questo bisogna stare attenti a non commettere l’errore di semplificare troppo il contesto sperando che il sistema trovi un suo equilibrio da solo. Se così fosse sprecheremmo solo una buona opportunità. Le imprese che oggi credono di poter fare da sole devono poter cogliere i vantaggi di un rapporto nuovo e costruttivo con un sindacato diverso dal passato e il sindacato deve abbandonare l’idea che ciò che non è più possibile realizzare con i rapporti di forza possa essere riprodotto, più o meno con gli stessi risultati, con altre modalità. Quel mondo è finito. Manghi nella prefazione dell’ultimo libro di Marco Bentivogli accenna al rischio che il sindacato si sia “fermato nostalgicamente su di un breve e irripetibile periodo facendone un paradigma obbligatorio”. Se così fosse, non si andrà da nessuna parte. In un mondo globalizzato l’impresa e il lavoro possono tornare essere centrali ma solo se si percorrono strade nuove. Non possiamo pensare che con le regole del ‘900 siamo in grado reggere l’urto della concorrenza mondiale, costruire una nuova cultura del management, formare milioni di persone orfane del fordismo e di organizzazioni top down e definire un modello autoctono maggiormente collaborativo e costruttivo. Dobbiamo, insieme, individuare le priorità e creare le condizioni per rilanciare la nostra economia. Certo le risorse economiche a disposizione sono poche ma è difficile pensare di bypassare il confronto con questo Governo che ha lanciato segnali inequivocabili di volontà riformatrice, magari rinviando la soluzione sperando nel prossimo, seduti sulla riva del fiume. Il ruolo di questo Governo è importante e non va sottovalutato anche se occorrerebbe osare di più. Non bisogna accontentarsi di un “accordicchio” finalizzato solo a influenzare i giudizi dei nostri partner europei. I recenti accadimenti luttuosi dimostrano che il Paese cerca concretezza, consapevolezza, unità e lungimiranza. Cogliere queste esigenze significa pensare veramente alle nuove generazioni e alle loro esigenze e non a legittimi quanto ormai irrealizzabili interessi di ciascuna delle “botteghe” coinvolte.

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