La CGIL, il congresso e la sfida dell’innovazione

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La CGIL che si avvicina al congresso, di questi tempi, è un fatto di per sé rilevante. Non solo e non tanto perché è la principale organizzazione sindacale italiana ma sopratutto perché la strategia e le decisioni che ne scaturiranno segneranno la volontà o meno di essere punto di riferimento e protagonista in una fase di grande disorientamento sociale.

Una cosa va detta subito. La CGIL non sembra voler essere più il “sindacato del gettone telefonico” tanto caro a Crozza. Susanna Camusso ne lascerà la guida con diversi meriti che probabilmente non le verranno riconosciuti. Mala tempora currunt. Però è così.

Innanzitutto ha lavorato per riportare la sua organizzazione al centro delle dinamiche sociali evitandone spaccature e derive estremistiche. Oggi i Cobas e la fantasiosa coalizione sociale sono indubbiamente più lontani.

Ma è riuscita anche a tenerla fuori dalla crisi della sinistra politica puntando sulla specificità e sull’orgoglio di appartenenza. Se un errore le è imputabile forse è stato quello di scambiare qualche cespuglio per una foresta.

Seppure non ha più senso parlare di unità sindacale old style, la CGIL, insieme alle altre due organizzazioni confederali, sta comunque cercando di ridare un contenuto al vecchio slogan “marciare divisi per colpire uniti”.

E anche questo è un merito dell’attuale gruppo dirigente che ha rifiutato la logica dell’autosufficienza che avrebbe portato la Confederazione in un vicolo cieco.

I rapporti con CISL e UIL sono marcati da profonde differenze strategiche ma anche dalla consapevolezza che occorra trovare punti di incontro soprattutto alla luce della crisi (non solo economica) che rischia di contrapporre generazioni, territori e chi il lavoro ce l’ha a chi no.

E, almeno per ora, questa impostazione sembra ricambiata anche nel rapporto con le organizzazioni datoriali. La firma dei contratti nazionali e degli accordi confederali ne rappresentano la conferma e questo (almeno nelle intenzioni) dovrebbe mettere al riparo da intromissioni della Politica vecchia e nuova e dalla riproposizione dello schema degli accordi separati. Anche se questo ultimo opzione permane potenzialmente presente in alcune importanti categorie dove i rapporti, tra le diverse organizzazioni, sono estremamente difficili.

È evidente che questo non è più tempo di componenti politiche o di condizionamenti esterni al sindacato né di ridisegnarsi un ruolo di suggeritore di nuovi comportamenti alla Politica. I “buoi” sono ormai usciti dalla stalla e non ci torneranno tanto presto. Meglio farsene una ragione.

Nel libro “il Paese dei disuguali” Dario Di Vico descrive con grande lucidità la scomposizione della classe operaia e del mondo del lavoro e la difficoltà delle organizzazioni di rappresentanza di proporsi come interpreti credibili a 360 gradi.

Ed è proprio sulla ragion d’essere del sindacato che si giocherà la partita principale. E la CGIL, credo sia proprio su questo, che si sta interrogando. La segretaria generale ha avviato un profondo processo di ringiovanimento dei quadri dirigenti e ha cercato di riportare al centro del confronto interno la vera sfida che la globalizzazione e la fine del fordismo mettono di fronte al sindacato. Quella dell’innovazione e delle sue ricadute.

Chi si contenderà la successione su questo punto dovrà dimostrare l’originalità necessaria e la capacità di indicarne una via credibile e condivisa dalla maggioranza degli iscritti e dei quadri dirigenti.

Da un lato perché la globalizzazione e la competizione internazionale allontanano i luoghi dove le decisioni vengono prese lasciando solo le conseguenze nei territori e nelle imprese dei singoli Paesi e, dall’altro, perché l’innovazione abbatte inevitabilmente i confini tra settori, impone la ricerca di nuovi modelli organizzativi, nuove tutele e di come queste accompagnino il lavoratore nel suo percorso professionale e, perché infine, implica un livello di risposte personalizzate difficili da cogliere nelle maglie larghe dei contratti collettivi attuali.

E poi c’è il tema difficile da affrontare del rapporto tra nuovi lavori, diritti, tutele possibili, persona e luoghi e strumenti di lavoro. E questa è veramente una sfida complessa.

D’altra parte questo processo di trasformazione non sarà lineare neanche nelle aziende sopratutto nelle PMI che, a partire da impresa 4.0, si misurano con tre equivoci di fondo. Innanzitutto che sia sufficiente digitalizzare l’esistente. In secondo luogo che ci sia un modo standard per diventare digitali e, infine, di pensare che le tecnologie siano l’unica soluzione. Al contrario la mancanza della ricerca di nuovi modelli di business, di nuovi processi e di un nuovo rapporto con il lavoro e le sue rappresentanze rischiano di rendere fragile questo passaggio. Per questa ragione trovo molto più interessante, sul versante datoriale, l’approccio di Federmeccanica rispetto ad altri comparti produttivi.

Il rischio del “fare impresa” che cresce nella competizione globale, le nuove capacità abilitanti diffuse dalla rete digitale, lo stesso smart working e i modelli (esponenziali) di crescita di alcune realtà multinazionali spingono inevitabilmente le aziende, salvo in quei Paesi dove il peso delle grande azienda è molto forte, a trasferire quote importanti di quel rischio sui lavoratori.

In questo contesto è evidente la differenza tra la Germania e il nostro Paese con tutte le conseguenze prevedibili sulla qualità delle relazioni industriali. E anche nella stessa Germania la firma del contratto dei metalmeccanici del Baden Württemberg rischia di essere una rondine che non fa primavera.

Nella costruzione del nuovo Governo tedesco come giustamente scrive Fernando D’Aniello sul Mulino “..i conservatori tedeschi manifestano una sostanziale indisponibilità a qualsiasi autentica politica di riforme, anche solo nel senso di una maggiore attenzione agli aspetti sociali, sul lavoro, sulla rappresentanza sindacale, la scuola e le agenzie formative”.

D’altra parte il congresso della CGIL sarà il primo che si svolgerà nella cosiddetta “Terza Repubblica”. C’è una nuova situazione politica nel Paese e c’è l’idea neanche tanto nascosta che dopo la fine dei partiti che hanno caratterizzato il 900 toccherà ai corpi sociali.

Il recente “Patto della fabbrica” siglato poco prima delle elezioni politiche e al di là dei contenuti segnala l’importante volontà di accelerare il processo di legittimazione reciproca, di mettere al centro l’impresa e il lavoro e di tenere lontani gli apprendisti stregoni che vorrebbero, in nome di un nuovismo inconcludente confinare il ruolo delle rappresentanze a mera liturgia consociativa.

È, al contrario, il momento di guardare avanti insieme, investire sulla rispettiva fiducia comunque presente in quel patto e marciare decisi verso modelli collaborativi che guidino e colgano il nuovo nel lavoro e sappiano gestirne le conseguenze nell’interesse dei rispettivi rappresentati. Credo sia, forse, l’ultima chance a disposizione…

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