Confcommercio e CGIL, CISL, UIL. La rivincita dei corpi intermedi..

Si può fare. Lavorare nell’interesse delle imprese del terziario di mercato e del mondo del lavoro è, da oggi, un obiettivo comune. Confcommercio e CGIL, CISL e UIL hanno siglato un’intesa importante che copre 14 contratti nazionali operanti nel terziario di mercato di cui beneficiano oltre quattro milioni e mezzo di addetti.

Un settore importante per il PIL, per l’occupazione e per lo sviluppo economico e sociale del Paese. Per questi lavoratori e per le loro aziende, indipendentemente dalla dimensione e dal settore, sono state definite nuove regole del gioco e una certezza: il CCNL di riferimento resta centrale seppure molto più aperto e flessibile.

Può essere derogato sperimentalmente anche su materie economiche, può essere decentrato sia a livello territoriale o aziendale, può aprire a intese su produttività e competitività e può intervenire anche su singoli contenuti tutti modificabili ma all’interno di regole condivise.

Non va mai sottovalutato il fatto che, oggi, la contrattazione decentrata non supera il 3% dell’intero comparto. Il testo infatti recita: “il CCNL (pertanto) non si limita a stabilire i trattamenti retributivi minimi, ma è anche sede per concordare previsioni in materia di flessibilità e produttività immediatamente esigibili per le aziende, adeguabili all’evoluzione del quadro normativo, organizzativo ed economico e dare certezza al mondo del lavoro rispondendo a nuovi bisogni”.

A differenza di quello siglato ieri per l’artigianato, l’accordo nel terziario riguarda aziende in settori molto diversi fra loro e di ogni dimensione; quindi deve necessariamente poter essere montato e smontato in base alle specifiche esigenze e contesti pur in un quadro di riferimento omogeneo. E questo, diventa finalmente possibile.

E qui penso, ad esempio, alle aziende della GDO che, anziché intestardirsi su di un loro specifico contratto nazionale che rischiano di non avere mai, potrebbero costruirsi in casa le risposte di cui hanno bisogno.

Non meno importante è la volontà delle parti di darsi atto che la loro rappresentatività deve essere certa e misurabile anche per evitare pessime operazioni di dumping contrattuale con controparti fantasma o di aggiramento di norme e obblighi da parte di imprese o comparti che “fingono” apparenti disponibilità negoziali con l’unico scopo di non pagare il costo del contratto nazionale o di ritardarne il pagamento ai propri collaboratori ma anche alla collettività in termini di minori contributi fiscali e previdenziali.

La parte finale affronta il tema dell’importante welfare contrattuale di cui il settore è stato un precursore, consolidandolo e rilanciandolo e del sistema bilaterale nel suo complesso come elemento concretamente partecipativo.

A mio parere si tratta di un accordo importante sul quale occorrerà ritornarci con maggiore approfondimento su singoli aspetti visto le diverse materie trattate ma che dimostra la volontà di Confcommercio di impegnarsi per innovare un sistema complesso, renderlo flessibile per tutelare meglio le singole imprese valorizzando però il rapporto con le organizzazioni sindacali confederali e uscendo, per la prima volta, dai confini, limitanti nella visione sistemica e strategica, delle tradizionali controparti sindacali di categoria.

Dall’altro lato, non può sfuggire agli osservatori più attenti, la posizione dinamica, costruttiva e innovativa della CGIL messa in campo insieme a CISL e UIL che, con questa intesa, contribuisce a individuare un passaggio fondamentale nella costruzione di nuove relazioni sindacali non solo nel terziario.

Susanna Camusso è riuscita a riposizionare la CGIL, senza clamori mediatici, a restituirle un ruolo centrale dopo anni caratterizzati dalle stagioni delle firme separate nei contratti nazionali di categoria, la conseguente quanto inevitabile deriva identitaria che ha contrapposto le tre sigle e, di fatto, la strisciante emarginazione di tutto il sindacato confederale dalla vita reale di molte imprese.

Questo accordo può aprire certamente una nuova fase sia per le prospettive del sindacato stesso che nei rapporti con le associazioni datoriali.

Adesso, dopo le organizzazioni dell’artigianato e Confcommercio, tocca a Confindustria. La corresponsabilità che nel terziario è stata declinata fondamentalmente nel rilancio e nel rafforzamento della cultura della bilateralità, anche per la dimensione delle imprese coinvolte, può fare un ulteriore passo in avanti? Staremo a vedere.

Una cosa però è certa. Con questo accordo i corpi intermedi si danno, di fatto, una strategia comune impedendo rischiose fughe in avanti propugnate da tanti neofiti del rinnovamento dei sistemi contrattuali che si limitavano a suggerire improbabili quando inutili scorciatoie.

Esiste certamente un problema di produttività nelle imprese, ma esistono problemi legati al costo dell’energia, alla mancanza di infrastrutture idonee e di garanzie di legalità, alla burocrazia, ai livelli di formazione e di istruzione e alla certezza del diritto che ostacolano competitività e crescita che non possono essere ulteriormente rinviate.

D’altra parte queste intese non solo possono contribuire a rasserenare il clima sociale ma possono anche costruire convergenze utili alla definizione di quel patto sociale sempre più necessario a rilanciare la crescita del nostro Paese e il riferimento nel testo alla volontà di costruire “una sede permanente dove sviluppare confronti finalizzati a soluzioni e proposte in materie economiche e sociali da sottoporre alle istituzioni” va in questa direzione.

Contratto Tessili, alla ricerca dell’accordo perduto…

Non è un buon segnale lo sciopero nel settore tessile per il rinnovo del loro contratto nazionale. Non lo è innanzitutto perché avviene in un comparto dove sindacati e aziende hanno sempre lavorato per affrontare i problemi di produttività e competitività delle imprese in modo costruttivo.

La forte reazione dei tre sindacati di categoria alle proposte datoriali non sembrano dettate da una volontà di rottura pregiudiziale ma piuttosto motivate dalla sensazione che si voglia imporre una soluzione “importata” da volontà estranee al comparto.

Tra l’altro nessuna dichiarazione ufficiale dei tre segretari generali della categoria esclude la disponibilità ad entrare nel merito dei problemi cercando soluzioni adeguate.

E nessuno dei tre segretari ha mai cavalcato posizioni irrealistiche.

Questo fa però pensare che il concetto di “corresponsabilità” giustamente introdotto dal neo Presidente di Confindustria non venga in qualche modo sintonizzato con la necessaria condivisione dello stesso con le organizzazioni sindacali delle diverse categorie.

E questo non è un messaggio rassicurante. Addirittura c’è il rischio che sia contraddittorio con l’obiettivo, senz’altro condivisibile.

La tipologia delle imprese del settore e la competitività dei mercati di riferimento non consentono scorciatoie né guerre per errore.

Così come eventuali rinvii alla contrattazione decentrata necessitano di un quadro di riferimento ben più forte da quello proposto fino ad ora.

Infine il negoziato non può e non deve escludere l’adozione di misure specifiche sul salario sia in termini quantitativi che qualitativi anche innovativi ma questo deve necessariamente emergere dal confronto tra i soggetti coinvolti, titolari del negoziato stesso.

L’impressione è che così non sia. O non lo sia stato fino ad oggi.

E questo non aiuta a ricomporre un quadro di riferimento che spinga entrambe le parti a restare sul merito dei problemi.

Lo scambio di accuse fa parte della liturgia di ogni negoziato. Mi sembra però che Angelo Colombini segretario generale della Femca Cisl abbia sintetizzato bene lo stallo e il modo di uscirne invitando a togliere dal tavolo posizioni preconcette inutili a riprendere il confronto e avviarsi così alla chiusura della trattativa.

Esistono le condizioni per farlo e, credo, corrisponda alla volontà di entrambe le parti in campo.
Deve solo emergere con maggiore convinzione e lungimiranza.

Lavoro debole o contratto debole?

Nell’articolo del prof. Ichino “nuovi strumenti per sostenere chi è più debole” trovo spunti interessanti che mi spingono ad un approfondimento.

Sono assolutamente convinto che, al di là del tema della produttività e del suo calcolo, i nuovi modelli organizzativi incentivano la proattività e quindi è inevitabile che, tra due persone pur inquadrate nello stesso livello contrattuale, la resa sia profondamente diversa.

Da qui, il prof. Ichino ne fa discendere un giudizio di inadeguatezza del contratto nazionale e una sua preferenza verso altri modelli da costruire. Sempre però ipotizzando (e qui sta la mia prima perplessità) un sistema dove l’individuo, attraverso un percorso formativo può solo crescere professionalmente ed economicamente.

Questa impostazione (legittima) sottende l’attuale codice civile, lo stesso statuto dei lavoratori e i CCNL. Tutti prodotti del secolo scorso. La realtà che attende chi si affaccia nel mondo del lavoro è però un’altra. È fatta di discontinuità, mobilità, ripartenze, successi e fallimenti.

Quindi, sul versante personale (e qui sono d’accordo con lui) sono fondamentali strumenti utili a mantenere capacità e competenze spendibili sul mercato.

Sul versante aziendale l’inadeguatezza non è nel CCNL di riferimento in sé ma è nel combinato disposto dato dal codice civile, dallo statuto dei lavoratori e dal CCNL sotto l’aspetto dell’inquadramento professionale, delle declaratorie conseguenti e della struttura del salario.

Sostengo da tempo che la retribuzione dovrebbe essere costituita da tre parti. Minimo base, superminimo professionale e incentivo di partecipazione. Dove il primo è uguale per tutti e contrattato nazionalmente, il secondo, definite le forbici minime e massime a livello nazionale, potrebbe essere poi articolato a livello aziendale e, infine, l’incentivo di partecipazione sui risultati, le performance o quant’altro può essere utile a ingaggiare, coinvolgere e condividere tra impresa e lavoro, a livello aziendale.

Ovviamente solo la prima parte sarebbe scontata. Le altre due dovrebbero essere  strettamente correlate una, alla professionalità concretamente espressa (quindi non acquisita per sempre) e l’altra, ai rischi e alle opportunità che l’impresa vive nel suo contesto competitivo.

Il CCNL può definire tutte le materie di sua competenza e quelle decentrabili, il welfare contrattuale (sanità e previdenza),  la formazione come diritto soggettivo, diritti e doveri  e infine le deroghe necessarie affinché uno strumento come il contratto nazionale sia flessibile e adattabile ai mutamenti di contesto.

L’esempio recente del CCNL del terziario che, senza alcuna polemica o ritardo, ha posticipato la tranche di aumento prevista a novembre rappresenta una dimostrazione di ciò che sarebbe ulteriormente ipotizzabile.

Il lavoro cambia. Ad una commessa di un supermercato qualche decennio fa veniva chiesto di passare il più velocemente possibile i pezzi alle casse e su questo veniva valutata.

Oggi le si chiede anche di ascoltare il cliente, di aiutarlo nelle sue scelte, di essere pro attiva e disponibile anche la domenica. Ma non guadagna né può pensare di guadagnare di più. E, se si mette di traverso, non ha vita facile.

Può però mettersi in gioco per crescere in altri ambiti aziendali. Spesso è difficile spiegare a degli osservatori esterni cosa è il lavoro oggi. Quello visto da chi rischia di perderlo.

Non è solo fare o saper fare un mestiere. Né saperlo fare bene. È anche saperlo mantenere, potersi valutare, sviluppare relazioni utili per quando lo si perderà, magari avere consigli sui percorsi formativi necessari oggi e domani.

Le aziende non investono su numeri. Investono sulle persone sulle quali ha senso investire. Quindi non su tutti. Oggi non ci sono garanzie per nessuno (al di là della retorica sull’art. 18).

Impresa e collaboratore a qualsiasi livello, pur in posizione asimmetrica, hanno interesse ad uno scambio che dura fino a quando la convenienza è reciproca. Questa situazione sarà sempre più marcata nel contesto globale. Basti solo dire che oggi le persone vivono più delle aziende. Cosa impensabile fino a pochi anni fa.

È quindi necessario creare contesti collaborativi nuovi dentro e fuori dall’impresa. Altrimenti si farà strada un modello darwiniano dove pochi ce la fanno e gli altri si dovranno arrangiare. Il CCNL può essere uno di questi contesti.

Certo occorre un sindacato diverso e un’impresa diversa. Io lo credo possibile. Forse, il prof. ichino, meno.

Contratto metalmeccanici. La firma nel Black Friday?

Forse ci siamo. I prossimi giorni potrebbero essere decisivi per la conclusione del CCNL dei metalmeccanici.

Mi verrebbe da dire, dando corpo ad una facile ironia, che la scelta del 25 novembre, un venerdì, come possibile fine della corsa non è affatto casuale. Si tratta di un giorno particolarmente importante, soprattutto per i consumi. Il famoso Black Friday.
Negli USA ha sempre costituito un valido indicatore sia sulla predisposizione agli acquisti, sia indirettamente sulla capacità di spesa dei consumatori. Ed è tenuto in grande conto tanto dagli analisti finanziari che dagli ambienti borsistici statunitensi ed internazionali.

Il Black Friday indicherebbe quindi un giorno di grandi guadagni per le attività commerciali. In altri termini, un giorno importante per i consumi.

Da qui il legame significativo con i rinnovi contrattuali. Consumi e reddito sono un binomio inscindibile. E, nella formazione del reddito i contratti nazionali rappresentano, per molti, la certezza di poter mantenere, in tutto o in parte, il proprio potere di acquisto.

Quindi un giorno importante anche per il mondo del lavoro.

Questo venerdì in particolare perché ci indicherà, inevitabilmente, alcuni orientamenti di fondo condivisi sia dalle imprese che dai sindacati metalmeccanici che contribuiranno a segnare la qualità delle relazioni sindacali nei prossimi anni.

Senza dimenticare che una lettura attenta di ciò che produrrà questo negoziato ci dimostrerà che, su diversi temi, altre organizzazioni datoriali e sindacali hanno già precorso tempi e argomenti ma sui metalmeccanici pesa la loro storia che in larga parte è la storia di tutti e quindi le loro conquiste costituiscono, inevitabilmente, un punto di svolta riconosciuto e sottolineato dai media e dall’opinione pubblica coinvolta come particolarmente significativo.

Quello che resta da vedere e se, l’importanza di questa storia passata riuscirà ad andare al di là della pur significativa probabile firma unitaria per consentire all’intera categoria di affrontare gli inevitabili cambiamenti del lavoro, dei luoghi del confronto e del modello di relazione necessario oppure se, questo nuovo contratto, approfondirà gli ancora gravi limiti emersi nel dibattito e nelle strategie tra le differenti sigle sindacali.

Ma, soprattutto, tra le nuove esigenze delle imprese e delle persone e la capacità di interpretarle e di governarle delle diverse organizzazioni sindacali di categoria. Il vero “rinnovamento” passerà da qui più che dai testi scritti.

Per Federmeccanica è comunque una scelta coraggiosa e un investimento. È una scelta coraggiosa perché, di fatto, rinuncia a trascinare la vertenza in una palude in cui potrebbe rischiare di restarne impantanata.

Falchi e colombe incrocerebbero immediatamente le spade tra di loro mettendo fuori gioco la capacità di mediazione dell’associazione datoriale proprio mentre il Paese sta cercando, faticosamente, una sua via tra globalismo intelligente e populismo mediocre.

E questo non potrebbe non riflettersi anche su di una Confindustria in evidenti difficoltà di ruolo e di movimento. Esito positivo del referendum e accordo con CGIL, CISL e UIL sono due pesanti fiches messe sul tavolo dal Presidente Boccia. I risultati ne segneranno inevitabilmente la sua autorevolezza e il percorso che lo attende. Il contratto dei metalmeccanici è certamente uno snodo importante; utile ma non certo sufficiente.

Per Federmeccanica è però anche un investimento. Aver posto al centro del negoziato le persone, la loro formazione, il loro benessere, la loro crescita e il loro contributo al successo delle imprese e non più il concetto fordista del lavoratore anonimo e uguale a tutti gli altri rappresenta un cambio di paradigma culturale.

Averlo proposto (e forse condiviso) ad un tavolo contrattuale rappresenta un segnale di grande disponibilità. Certo Federmeccanica non parla esplicitamente di “corresponsabilità” ne di coinvolgimento diretto del sindacato nelle imprese né garantisce esigibilità o livelli aggiuntivi della contrattazione ma non impedisce che ciò avvenga nelle forme e nelle modalità che le singole imprese potranno decidere.

Resta una grande incognita tutta di parte sindacale. La FIM ha disegnato un possibile nuovo campo da gioco forse un po’ troppo ardito e complesso per i differenti compagni di viaggio anche perché, dall’altra parte, molti imprenditori sono incuriositi ma anche perplessi sulla disponibilità e sulla determinazione messe in campo dallo stesso Marco Bentivogli.

Per dirla tutta, nella convinzione generale degli imprenditori, la navigazione verso industry 4.0, prevederebbe un ruolo assolutamente marginale per le organizzazioni sindacali. E il sindacato, tutto il sindacato, è percepito, al di là dei convegni, come un freno che si aggiunge a tutti i freni già tirati che in questo Paese circondano l’impresa.

Il segretario generale della FIM sta cercando di sparigliare le carte ma la diffidenza è ancora molto diffusa. E, spesso, i sindacalisti, anziché cercare di comprendere tutto ciò che avviene dentro un’azienda o le vere difficoltà delle imprese di oggi si accontentano di una caricatura datata di ciò che preoccupa il singolo imprenditore o il manager che devono affrontare situazioni complesse.

Oppure di continuare a leggere la realtà con lo specchietto retrovisore. E questa distanza è certamente da colmare. Per questo la firma del contratto, pur importante in sé, si misurerà sugli affidamenti che sul quel tavolo verranno concordati e condivisi.

È lì, come su altri importanti tavoli negoziali, che si gioca una parte del futuro delle relazioni sindacali del nostro Paese. Credo che questo sia chiaro a tutti.

Corresponsabilità? Le navi non sono costruite per restare in porto

La stagione dei grandi contratti nazionali del settore privato si sta avviando ai titoli di coda. Ci sono distanze che devono ancora essere colmate in alcune categorie ma la sostanza non cambierà.

Un dato sembra emergere in modo pressoché definitivo. Non è più il conflitto sindacale tradizionale a spostare sostanzialmente il risultato finale. Così come la rigidità di alcune associazioni o federazioni datoriali, alla lunga, non riesce più ad imporre alcunché.

In altri termini, la legge del pendolo, è anch’essa entrata in crisi quindi i rapporti di forza, favorevoli o meno, non sono più una opzione perseguibile.

Il contesto mediatico, sociale ed economico spinge comunque e sempre per soluzioni condivise e non sollecita contrapposizioni inconcludenti e infinite. Tra l’altro molti degli stessi obiettivi enunciati da entrambe le parti nei negoziati presuppongono quasi sempre una sostanziale condivisione.

E questo vale sia per il welfare contrattuale, la bilateralità in generale ma anche per l’esigenza che emerge con forza nelle imprese più innovative di coinvolgere, condividere e ingaggiare su obiettivi comuni l’azienda intesa come comunità di persone.

Quindi occorre andare oltre l’apporto semplicemente individualistico mettendo in gioco la disponibilità, l’intelligenza collettiva e lo spirito di iniziativa dell’insieme dei collaboratori su obiettivi condivisi. Un’impresa che vuole coinvolgere deve conoscere innanzitutto le sue persone, proporre loro percorsi di crescita, premiarne il merito, condividere economicamente i risultati raggiunti.

Ma deve anche riconoscerne la maturità, l’apporto e gli specifici interessi collettivi di cui sono portatori. L’opposto dell’azienda fordista, di matrice autoritaria dove le persone erano tutte uguali, intercambiabili e da gestire nella singola mansione affidatagli. O collettivamente come numeri tramite il vecchio modello di relazioni sindacali.

In questa “nuova” impresa la cultura tradizionale della contrapposizione e del conflitto collettivo ancora presente in una parte del sindacalismo italiano non ha più ragione di esistere nei termini prodotti nel secolo che abbiamo alle spalle. Anche il linguaggio, utilizzato spesso dal sindacato stesso per insistere in una logica caricaturale un po’ forzata delle posizioni della controparte, rischia di essere controproducente innanzitutto per chi lo utilizza.

Senza mai dimenticare che, l’inevitabile conclusione, ormai generalmente “win win” di qualsiasi negoziato, rende l’enfasi spesso utilizzata nella comunicazione tradizionale assolutamente inadatta a gestire i risultati ottenuti.

Quando la narrazione impiegata a sostegno delle proprie tesi è distante dalla realtà il distacco che si crea tra chi parla e chi ascolta diventa inevitabile.

E, se tutto questo è vero, non sarà sufficiente lavorare sui luoghi del confronto. Non esiste alcun automatismo tra decentramento e un conseguente ruolo collaborativo e propositivo. Ne c’è alcuna disponibilità esplicita di tutto il sindacato né da parte degli imprenditori di darlo per acquisito.

Su questo equivoco merito e metodo rischiano di non coincidere e quindi di sprecare un’opportunità di innovazione e di crescita per l’intero sistema. L’impresa di oggi, ma soprattutto quella di domani non può prescindere dalla implementazione un vero sistema collaborativo.

Il successo sarà sempre più costruito insieme  ai clienti, ai fornitori, e ai partner ma anche insieme ai propri collaboratori con i quali andranno condivisi rischi e opportunità. Ciascuna componente, con il suo contributo, rafforza o indebolisce il brand, quindi, di fatto, accelera o frena i potenziali risultati.

Ma questo cambiamento presuppone visione, coerenza, rispetto e valorizzazione di tutti i soggetti in campo. Ma, soprattutto, coinvolgimento. E questo coinvolgimento non si ferma davanti ai cancelli né può escludere il sindacato a prescindere.

Soprattutto in tempi dove la navigazione è a vista e i rischi sono talmente elevati che non possono essere esclusivamente in capo all’imprenditore. Certo quando si coinvolge occorre saper ascoltare, condividere, ingaggiare e poi comunque decidere. Ma è una navigazione diversa dal passato. Più responsabile e attenta al contesto e a tutto l’equipaggio.

È la corresponsabilità.

Una parola tutta da riempire di significato concreto perché  le navi non sono costruite per restare in porto. Lo stesso vale per il sindacato. Tutto il sindacato. Ormai fermo ad un bivio: accettare il declino continuando a sognare un ruolo e un peso che non c’è più nelle singole imprese o cogliere la sfida della corresponsabilità fino in fondo?

E questa sfida non può essere raccolta se si inseguono ancora superate egemonie novecentesche o se si cerca solo di farsi concorrenza nelle imprese scavalcandosi sui contenuti del confronto con l’azienda stessa. A mio parere il sindacato in questo modo rischia solo di fare la fine dei polli di manzoniana memoria che si beccavano tra di loro mentre venivano portati dal pollivendolo.

La stagione che abbiamo alle spalle ha lasciato in eredità solchi profondi dentro il sindacalismo confederale tra differenti sigle difficili da superare. Forse non sarà sufficiente un rinnovo unitario di uno o più contratti per invertire la tendenza.

Per questo, un semplice spostamento del livello del confronto in un contesto ancorato a modelli più o meno formalmente conflittuali, suscita legittime perplessità negli imprenditori e, di per sé, non farà evolvere un bel nulla.

A volte mi sembra che chi ne scrive la faccia troppo semplice. Senza un riorientamento culturale unitario, il ruolo del sindacato, e quindi la contrattazione aziendale, non decollerà in chiave collaborativa neanche attraverso robusti incentivi economici ma resterà confinata (ad esaurimento) solo laddove ha messo radici tradizionali. O sotto il saldo controllo delle imprese.

E questo non è sempre un bene. Il sistema ha bisogno di profondi cambiamenti e di equilibrio, non di scorciatoie.

Perché vincerà comunque il SI…

Mi sono stancato di sondaggi e commenti come credo tanti come me. La Brexit e le elezioni americane mi sono bastate.

La superficialità, salvo pochi casi, ormai domina sovrana. Purtroppo gli stessi soggetti che non hanno azzeccato alcuna analisi continuano imperterriti nonostante la pessima figura registrata.

Con una rapidità impressionante i media hanno scaricato i sondaggisti che, rassegnati e desiderosi di non essere messi definitivamente fuori gioco, hanno accettato la parte pur non essendo gli unici colpevoli…

Sul referendum istituzionale il gioco continua. I temi sono due e, guarda caso, nessuno sul merito del referendum stesso: la fine di Renzi come Presidente del Consiglio e la conseguente resa dei conti nel PD.

Il primo tema mi sembra scontato: se Renzi perde si dovrà fare da parte come Presidente del Consiglio. Lo ha detto e credo che lo faccia.

Il punto che forse molti sottovalutano è che, anche in questo caso, Renzi non perderà affatto sul piano politico. Avrà “solo” perso il referendum.

Proprio l’averlo personalizzato e aver spinto la compagine che lo ha avversato a personalizzarlo contro di lui lo porrà alla testa della percentuale che, pur nel caso di una sconfitta di misura, rappresenterà comunque un’area vera che esprime una volontà di cambiamento ben maggiore dell’elettorato del PD stesso.

E, siccome l’eterogeneità degli avversari non consentirà alcuna riforma, si potrà preparare alle elezioni del 2018 alla testa di un partito, il PD nel quale gode di un consenso ben maggiore di quello accreditato da chi tende ad enfatizzare posizioni assolutamente irrilevanti presenti al suo interno.

Quindi chi pensa di mandare in pensione anticipata un leader che registrerà comunque un successo personale ben superiore a quello del suo litigioso partito mentre gli avversari dovranno accontentarsi di un risultato ingestibile credo abbia fatto male i suoi conti. Così come chi, nel PD, pensa di rientrare in gioco in un partito pur litigioso oltre ogni immaginazione ma profondamente cambiato.

In un Paese in affanno e in difficoltà sociale ed economica con un destra in ricostruzione tra salviniani anti euro e governativi filo europei e i grillini in crisi di crescita, le elezioni del 2018 non si presenteranno così negative per chi sarà individuato come l’unico che ha tentato di personificare e portare avanti un cambiamento fortemente contrastato e, a quel punto, tutt’altro che compiuto.

Lo stesso cambio di tono di questi mesi segnala un disegno che guarda più in là del voto imminente. L’aggressività nei confronti dei “burocrati” dell’Unione non è casuale né finalizzata solo al 4 dicembre. In gioco c’è molto di più.

Soprattutto dopo le elezioni USA.

Questa è la ragione principale per cui il mio SI non si esaurisce il 4 dicembre dove è naturalmente scontato. Voglio pensare che il patrimonio di consenso che prenderà forma quel giorno al di là del risultato numerico verrà raccolto con convinzione per continuare a tenere accesa la volontà di cambiamento del Paese indispensabile a prescindere dall’attuale Presidente del Consiglio.

Di questo ce n’è indubbiamente un gran bisogno. E da questo punto di vista il referendum istituzionale è certamente un’occasione importante per mostrare fin dove possono arrivare i nuovi confini.

È vero c’è stata la Brexit, Trump ha vinto negli USA votato anche dagli operai e il disallineamento tra popoli e rispettive elites sembra approfondirsi.

Ma il referendum in Italia non c’entra praticamente nulla con tutto questo.

Gli altri Paesi hanno un debito pubblico sotto controllo, non hanno tre delle cinque mafie più importanti sul loro territorio  e non hanno un’evasione fiscale paragonabile alla nostra.

Cambiare non è solo un capriccio di pochi ma un’esigenza del Paese e dire che è possibile comunque farlo dicendo NO al referendum, pur incomprensibile, resta un diritto.

Pensare di farlo mettendo insieme una compagnia eterogenea che è la stessa che ha fatto poco o nulla fino ad ora è un’impresa impossibile.

Per questo il SI vincerà comunque. Che piaccia o meno agli esperti di casa nostra….

Il lavoro, quando c’è…

E adesso chi glielo spiega ai ragazzi che hanno protestato davanti al McDonald’s che quand’anche lo trovassero il lavoro sarà per loro e per tutta la loro vita fatica, impegno e sacrificio?

Chi racconta loro che cercarlo e trovarlo oggi è molto difficile ma non è nulla rispetto a ciò che dovranno mettere in campo per mantenerselo nel tempo?

Forse a scuola e a casa non hanno più nessuno che può o è in grado di farlo. In rete gira una frase molto bella che rappresenta i giovanissimi “Maneggiare con cura, contiene sogni”.

Colpisce nella sua semplicità. È una parte essenziale del processo di crescita. Pensare a se stessi, ai propri desideri, alle proprie traiettorie di vita. Guai se non ci fosse.

È l’unico antidoto al cinismo e alla competizione esasperata. Ma assunto in dosi eccessive porta ad una dissociazione dalla realtà. Spinge ad estraniarsi e a considerare tutto ciò che non rientra nel proprio punto di vista come una dimostrazione inoppugnabile delle proprie convinzioni e quindi alimenta un pessimismo cosmico che mette piombo nelle ali. E spinge ai margini.

McDonald’s o una Banca non sono il diavolo.

Si può entrare dalla porta principale o ci si deve accontentare di entrare dal retrobottega. l’unica cosa che non si può fare è rinunciare a provare ad entrarci.

Qualsiasi crescita personale, realizzazione di un proprio sogno o di un progetto di vita passa da lì. Da quel primo passo. E nessuno lo può compiere se non il diretto interessato con la consapevolezza necessaria.

Ventisettemila opportunità a disposizione per sentire il profumo non solo degli hamburger ma anche del sudore e della fatica dei colleghi ma anche di cominciare a misurarsi con il contesto che darà senso e misura alla realizzabilità dei propri sogni, i tempi necessari, i percorsi fondamentali.

La scuola non è in grado di spiegarlo: produce titoli scritti su di un pezzo di carta ma, da sola, non può fare di più. Neanche la famiglia può fare molto.

Soprattutto se già nella scelta della scuola del figlio c’è la preoccupazione e l’ansia sulla mancanza quasi certa di uno sbocco qualsiasi. Inviare trenta o quaranta CV e non ricevere alcuna risposta farà il resto incidendo anche sulla propria autostima e alimentando una rabbia impotente.

Ma è proprio questo il punto. McDonald’s è lì a raccontarci che si può farcela. Partendo proprio dal friggere un hamburger. Non capirlo significa illudersi che ci siano altri modi per farcela.

Non è così. In uno studio legale, in un supermercato, in una fabbrica, in una start up, in un ufficio pubblico o privato in Italia o all’estero si comincia sempre così: “mettere la cera, togliere la cera” come ci ha raccontato il vecchio ma sempre attuale film Karate Kid.

È vero che ci sono i raccomandati, i predestinati, i talentuosi che saltano qualche passaggio ma fare la corsa su di loro serve a poco. Certo si può andare nelle scuole a spiegare il lavoro ma non è la stessa cosa. Non se ne percepisce il senso, i linguaggi, il contesto e i valori in gioco.

Per questo quegli striscioni, quelle parole d’ordine, quegli insulti ritornano come un boomerang solo contro chi li agita.

E, per questo, qualcuno lo deve rappresentare ricordando a ciascuno di quei ragazzi che l’unico posto dove il successo viene prima del sudore è il vocabolario.

Contratto metalmeccanici. Vecchie egemonie e nuove sfide.

In un recente articolo su “Formiche” a firma di Berardo Viola e Fernando Pineda, ci sarebbe, secondo gli autori, una precisa strategia della Cgil tesa a ritardare la firma del contratto nazionale dei metalmeccanici in chiave anti Renzi.

Personalmente non lo credo realistico. La distanza tra la firma o meno del contratto dei metalmeccanici e il contesto politico nazionale è comunque tale da rendere inutile una mossa in questa direzione.

Il contratto dei metalmeccanici, pur importante nel sistema delle relazioni industriali del nostro Paese, non è più in grado, da diversi rinnovi, di determinare, da solo, il cambio di una stagione politica.Né di arrestarne l’evoluzione.

Landini può tranquillamente mangiare i tortellini se vince il “NO” ma non potrà né avrà alcuna convenienza ad ascriversene il merito.

Soprattutto per le conseguenze politiche ed economiche che il Paese, e quindi anche i lavoratori metalmeccanici, si troveranno a subire nel biennio successivo.

A mio parere la CGIL a livello confederale ha convenienza a concludere rapidamente con le organizzazioni datoriali. Che piaccia o meno il sindacato di Susanna Camusso sta guidando la trattativa con tutte le controparti in campo e con tutta l’intenzione di non subirne l’esito.

D’altra parte, nella stessa trattativa sulle pensioni avrebbe potuto manifestare ben altre reazioni ai giudizi di CISL e UIL viste le dichiarazioni di evidente insoddisfazione sul risultato.

Invece la CGIL non ne ha approfittato, come avrebbe potuto, in vista del referendum proprio perché, pur schierata per il “NO” non è su quello che sta giocando la vera partita.

Chiudere i contratti e sottoscrivere gli accordi con Confindustria, Confcommercio e le organizzazioni minori consentirebbe alla CGIL di serrare i ranghi, rilanciare sui contenuti e ricomporre un disegno unitario di lungo periodo con un profilo diverso dal passato nel quale cercare di rappresentarne l’asse portante.

L’impasse nel contratto dei metalmeccanici è dato più da una volontà egemonica della FIOM, mai sopita e di nervosismo evidente per l’attivismo della FIM CISL e del suo segretario generale. Tutti i contendenti sanno benissimo che il contratto si deve chiudere e che non c’è spazio per firme separate come nei rinnovi precedenti.

Non lo vuole Confindustria, non lo vuole Federmeccanica e, altrettanto importante, non lo vogliono né la FIM né la UILM. Ovviamente non lo vuole anche la FIOM.

La calendarizzazione di incontri negoziali e tecnici preannunciati, al di là dei tatticismi prelude ad una conclusione imminente pur nel rispetto delle liturgie.

C’è poi la tradizionale ritrosia presente in tutte le categorie della CGIL a mettere la firma sotto qualsiasi accordo. Mi ricordo che, Pierre Carniti, parlando negli anni ottanta del contratto dei metalmeccanici del ’66, di cui era uno dei leader indiscussi, disse che se fosse stato per Trentin, allora segretario generale della FIOM, la firma, dopo tutti quegli anni, sarebbe stata ancora in forse.

Però, al di là delle battute non credo che nessuno abbia interesse a correre il rischio di non chiudere.

Troppi contratti nazionali sono al palo e rischiano ben altre conclusioni. E non sono più tempi, questi, di strategie suicide di generalizzazione del disagio sociale con l’obiettivo di ottenere risultati sul piano organizzativo.

Il rischio di lavorare per il re di Prussia è molto più alto.

Contratto metalmeccanici. È meglio l’uovo oggi o la gallina domani?

Pur non dando nulla per scontato credo che si possa dire che siamo alle battute finali del rinnovo del CCNL dei metalmeccanici. Come sempre accade nell’ultimo miglio di tutti i negoziati, l’elemento sul quale si registrano ancora delle differenze è l’aumento salariale sia in termini quantitativi che qualitativi.

Mi sembra che una scelta sia stata compiuta da entrambe le parti in causa e cioè di iniziare uno spostamento significativo di materie e di spazi di negoziazione dal livello nazionale a quello aziendale.

Gli obiettivi, però, restano ancora diversi. Federmeccanica con questa operazione cerca di ottenere innanzitutto un depotenziamento significativo e definitivo del CCNL. In questo modo il ruolo di governo del salario della categoria, a quel livello, potrà, nel tempo, ridursi notevolmente.

Nelle intenzioni iniziali avrebbe voluto svuotarlo addirittura in tempi più rapidi ma l’operazione si è rivelata troppo indigesta ai sindacati. Il rinnovamento pensato dall’associazione datoriale, che lo si voglia o meno, passa anche da qui.

Una volta tolto l’ultimo tassello che, a loro parere, irrigidisce la contrattazione, la partita potrà cambiare regole e giocatori. La stessa proposta di decalage sul recupero dell’inflazione sposta temporalmente la data di scadenza ma va anch’essa in questa direzione. Il sindacato lo ha capito benissimo e, ad oggi, chiede risposte diverse.

È un passaggio molto delicato. Federmeccanica non sembra voler concedere (ed è corretto) alcuna esigibilità della contrattazione aziendale né territoriale ma, con la proposta di decalage, se confermata, crea una asimmetria evidente tra imprese che vorranno fare o meno la contrattazione aziendale.

Di fatto un incentivo a non farla visto da parte sindacale. Visto da fuori credo che il nodo principale sia questo. Lo sviluppo della contrattazione aziendale è una scelta ragionevole. Occorre però che sia condivisa nei suoi obiettivi e fino in fondo da entrambe le parti in causa.

La FIM CISL, che più si è spesa in questa direzione, è assolutamente d’accordo a spostare il baricentro però l’obiettivo è quello di condividere oneri e onori della vita delle imprese. Quindi dare senso e contenuti al termine “corresponsabilità” proposto con convinzione dal Presidente di Confindustria.

Federmeccanica sembra essere molto più cauta. Da un lato non ha mai usato quel termine esplicitamente. Ha sempre parlato di coinvolgimento, condivisione, ingaggio dei lavoratori. Mai del sindacato. Né interno né esterno alle aziende.

E non è una differenza da poco. La UILM sembra aver una posizione intermedia mentre la FIOM, poco attratta da queste “fughe in avanti” resta coperta. Non può non sottoscrivere il prossimo contratto ma può rallentarlo cercando di renderlo sufficientemente indigeribile anche alle altre due organizzazioni.

La questione di fondo è rappresentato dalla qualità e dalla direzione di marcia del rinnovamento auspicato. E quindi il grado di convinzione e il livello di mediazione accettabile per entrambi. L’alternativa è chiara: meglio un uovo oggi o la gallina domani?

È meglio un contratto nel solco della tradizione che accontenti tutti, quindi nessuno, o un patto vero tra innovatori che guardano al futuro del settore e del ruolo dei corpi intermedi?

La capacità di interpretare il nuovo e di guidare il cambiamento passa anche da questa scelta.

Pensioni, pensionati, pensionandi….

Ci siamo. Non riuscendo a mettere mani sulle pensioni retributive l’INPS ha lanciato una maledizione.

Chi va in pensione con il retributivo, lo dicono le statistiche, muore prima.

Questa mancava.

All’idea che i pensionati retributivi rubassero il futuro si giovani ci si stava abituando. Così come alla proprietà transitiva utilizzata dai media che omologa vitalizi e pensioni d’oro a tutte le pensioni calcolate con il metodo retributivo.

Prendo a prestito una metafora dell’amico Bentivogli per affermare che non è più buona cosa stare “pancia all’aria a Formentera”. Meglio “pancia a terra” in fabbrica.

Siamo alla frutta. Adesso attendiamo le dichiarazioni del Presidente dell’Inps che non essendo l’autore di questa sortita si sentirà in dovere di dire la sua.

Siamo di fronte alla scoperta dell’acqua calda.

Chi cura la propria salute, chi tiene allenato il proprio corpo e il proprio cervello, chi fa un lavoro meno pesante, campa di più.

Vien da pensare che, forse è proprio per arginare questa verità, che lo Stato cautela le proprie entrate con il fumo, l’alcol, il gioco d’azzardo e la benzina.

Se non puoi ridurli o tassarli (i pensionati retributivi) spaventali e dai a tutti gli altri (i pensionandi) una ragione per rinunciare al traguardo.

I prossimi anni, abituiamoci, saranno così. Dotti interventi di esperti delle pensioni altrui sulle curve e sui tassi di sostituzione alternati da minacce di contributi aggiuntivi o passaggi repentini a nuovi sistemi di calcolo.

Le trincee però sono scavate. Prima i vitalizi, poi le pensioni dei parlamentari e di altri potenziali privilegiati, poi le pensioni d’oro, poi le pensioni alte, poi la mia.

La vedetta eletta all’unanimità (via web) è Mario Capanna. Lui è là davanti sulla prima barricata. Ha smesso di lavorare presto, esce dal letargo solo per ricorrenze particolari tipo inaugurazione della Scala o rievocazioni del 68. Gode di ottima salute.

Cosa dirà oggi dopo aver letto la minaccia non tanto subliminale dell’INPS? Compagni, c’è uno spettro (il sistema pensionistico) che si aggira per l’Europa.

Non riuscendo a metterci le mani in tasca è passato alle maniere forti. Non vuole prenderci un contributo, vuole prenderci tutta la pensione. È il capitalismo, bellezza.

Ribelliamoci fino a che siamo in tempo.