Carrefour. Il franchising è una scelta di rilancio o una scelta obbligata?

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Serve a poco stupirsi della progressione geometrica dei piani di ristrutturazione annunciati da Carrefour negli ultimi dieci anni. Quelli passati non c’entrano nulla con il presente. Anzi. Per certi versi lo scenario che deve affrontare e tentare di risolvere il CEO italia  Cristophe Rabatel è, al contrario, proprio la conseguenza di quei piani falliti, delle occasioni e del tempo persi cullandosi nell’illusione che la malattia fosse meno grave del previsto e che era inutile affrontarla con la determinazione necessaria.

Certo, questo non assegna patenti di credibilità al nuovo CEO ma non serve a attardarsi sulle responsabilità passate. Queste ci sono ma serve a poco ribadirle. In un’azienda di quelle dimensioni e rigidità decisionali dove le leve per mantenere equilibrio tra fatturato e margini scontano la difficoltà a percorrere sperimentazioni su innovazione e progetti vari oltre un certo periodo di tempo non è difficile trovarsi su di un piano inclinato  da cui non è facile risalire.

Cristophe Rabatel non ha potuto fare altro che accelerare i processi decisi da chi l’ha preceduto e forzare sulla strategia del franchising per ridurre i costi. Un rischio sul futuro dell’azienda, una necessità in mancanza di alternative. E questo porta con sé l’inevitabile  conseguenza  sulle diseconomie indotte sulla sede. 

Rabatel, in perfetta sintonia con Alexandre  Bompard  CEO del gruppo, ha avuto la missione di mettere in sicurezza i conti, costi quel che costi. Negli anni precedenti l’azienda ha avuto paura di affrontare la situazione. I più avveduti ricorderanno il tentativo di disdetta del CIA poi ritirato e congelato negli anni a seguire anche in forza delle proteste sindacali e le rigidità di Carrefour in sede di rinnovo del CCNL.

L’azienda negli anni ha preferito puntare sulla roulette dei continui cambiamenti al vertice e declinare con ridimensionamenti annuali  senza dare troppo nell’occhio mentre il sindacato ha puntato ad una gestione tutto sommato morbida degli esuberi attraverso lo strumento della volontarietà all’uscita accontentandosi delle rassicurazioni sulle strategie dei gruppi dirigenti che si sono succeduti. Che altro poteva fare?

Carrefour oggi è come un cane che si morde la coda. Se potesse cedere in franchising buona parte della rete lo farebbe subito. Non lo fa perché, salvo i punti vendita più performanti, sugli altri è difficile trovare imprenditori disposti a rischiare oltre una certa misura. Purtroppo questa strategia se non supportata da altri risultati non porta molto lontano. Riduce si,  i costi ma crea dipendenza. 

È così che si arriva alle 770 uscite attuali calcolate dall’azienda. Affermare come sostiene Carrefour che questo piano “non avrà alcun impatto occupazionale per i dipendenti trasferiti“ è senza dubbio  una mezza verità. Né l’aspetto economico garantito in Carrefour né l’organico sono compatibili con un franchisee per lungo tempo. Per i circa mille dipendenti dei punti vendita ceduti a terzi si apre una fase nuova della loro vita professionale. Nel calcolo del sindacato (1800 esuberi) si dà però per scontato che saranno di fatto tutti licenziati. Anche questa è una mezza verità. Non è così.

L’azienda, con questo piano, punta a “migliorare la competitività degli ipermercati e supermercati diretti e snellire l’organizzazione interna, con l’obiettivo di concentrarsi sulle attività al servizio dei punti vendita in risposta ai cambiamenti strutturali in atto nel contesto del retail, tra cui l’evoluzione del mercato verso il digitale e l’automazione dei processi e come conseguenza dell’impatto della pandemia sui  consumi”. È però quello che fanno tutte le insegne. Alcune ci riescono. Altre, no. Come sempre è l’execution che lascia spesso a desiderare. I suoi tempi. La cultura e il clima aziendale che si crea in situazioni di forte tensione.

La novità dell’incontro però sarebbe nella gestione degli esuberi. Carrefour prevede uscite su base volontaria con “interventi di formazione e riqualificazione del personale per favorirne il ricollocamento interno ed esterno, programmi di sostegno all’imprenditorialità e incentivi all’esodo” per 600 collaboratori nei punti vendita diretti e circa 170 dipendenti della sede centrale. Staremo a vedere.

È però sul franchising in generale che si gioca la partita con il sindacato e la stessa credibilità del Gruppo. Ed è anche un tema da contratto nazionale. Sia chiaro, una volta passati sotto un piccolo imprenditore l’azienda francese non ha più alcuna responsabilità sul destino dei suoi ex dipendenti.

Carrefour crede nel franchising e quindi è convinta che la sua espansione creerà nuove opportunità. Io sarei molto più cauto su questa visione forse un  pò troppo ottimistica. Già oggi, sostiene l’azienda, 34 lavoratori sono diventati imprenditori e l’obiettivo è portarli a 75 entro la prima parte del 2022. Per questo Carrefour Italia investirà fortemente in nuovi servizi, tra cui la consulenza e la formazione, per sostenere gli imprenditori”. Vedremo i risultati.

Sui 170 della sede centrale vale il principio della proporzionalità causata dalla riduzione del perimetro di riferimento. Difficile per le sedi uscirne indenni. Non ci sono alternative percorribili.

Su una cosa concordo con Paolo Andreani che non è certo un sindacalista dedito a boutade estremiste. “In tutto il settore distributivo, il fenomeno delle terziarizzazioni sta diventando centrale. Se non gestito adeguatamente dobbiamo mettere in conto che il lavoro sarà più precario e più povero. Potrebbero essere applicati contratti collettivi pirata e favoriti imprenditori senza scrupoli”. Ecco qui sta il punto vero.

Quello sottovalutato da parte del  sindacato di categoria nella vicenda Conad/Auchan. E cioè  che le operazioni di dismissione di parte delle reti di vendita fuori da una strategia di rilancio del proprio business e quindi condotte con  un livello accettabile di responsabilità sociale si trasformano in un semplice spostamento del rischio di impresa sul lavoratore utilizzando un imprenditore terzo.

Conad ha scelto una strada diversa di franchising inclusivo e sul quale necessariamente non solo il singolo imprenditore ma l’insegna nel suo insieme  ci mette la faccia.  Rabatel fa un’altra scelta, guadagna altro tempo e sposta in alto l’asticella.  Sarà sufficiente?

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *