Il PD, la disintermediazione e chi resta indietro…

Alla prima seria battuta di arresto del PD la minoranza interna ritorna immediatamente al Nanni Moretti del “di una cosa di sinistra!”. Bastasse questo… È vero che fa un certa impressione dover prendere atto che un partito di centro sinistra si afferma tra chi ce la fa e non incide più di tanto su chi resta indietro. Tra chi va all’estero e fa parlare di sé e non tra chi torna in silenzio sconfitto, tra chi lancia una start up e non tra chi in quella start up si appresta a vivere una ulteriore esperienza da precario. Tra chi amplifica il suo business con il commercio elettronico e chi chiude la sua attività tra un fisco opprimente e le pretese dei “cravattari”. Tra chi si porta a casa bonus milionari senza alcun merito e chi perde i suoi risparmi depositati nella banca di fiducia. E il nuovo termometro sociale di questa situazione diventa la rete. Con i suoi insulti, i suoi rancori e la solitudine di chi alza il tono della polemica con l’unico scopo di farsi notare. Certo c’è un Italia che crede nel futuro, che scommette su di sé, sul cambio generazionale e su chi vince. Per questa Italia Renzi è un solido punto di riferimento. Rottamatore, riformatore, solo contro tutti. Ma c’è un Italia che sembra essersi rassegnata e non ci prova nemmeno a farcela. Si sente tagliata fuori per colpa di un sistema nemico dove si vive in solitudine con i propri problemi e si sente contro tutti gli altri. Politici, istituzioni, stranieri ma anche chi cerca di farcela. E, nel Paese dello zero virgola del PIL in più e dell’occupazione che cresce o forse no, in un’Europa matrigna che ci tratta come scolaretti indisciplinati dove la ripresa economica rischia di riguardare solo alcuni, non è stato difficile indicare in Renzi il bersaglio grosso e facile da colpire. D’altra parte lui non si è sottratto a questo gioco al massacro. Ha lasciato crescere il malcontento nel suo Partito senza affrontarlo, ha individuato nemici dappertutto prima ancora che si manifestassero in tutte quelle associazioni e formazioni che, pur in crisi, hanno sempre costituito i grandi contenitori di partecipazione popolare collaterale del suo partito e ha scommesso tutte le sue fortune sulla crisi della leadership di un centro destra contando sulla possibilità di attrarlo sottovalutando così, non tanto la nascita di un nuovo contenitore politico del malessere né di destra né di sinistra, quanto il malessere stesso che iniziava a crescere nella società e che lui ha pensato di poter affrontare da solo con un manipolo di fedelissimi. Le teorie sulla disintermediazione risentono di questo approccio sbrigativo. Il blitz però, a conti fatti, non è riuscito. I corpi intermedi sono ancora lì, un po’ provati ma intatti nella loro forza propositiva e organizzativa, il centrodestra mantiene una base elettorale sostanzialmente intatta e anche poco disponibile a seguire il PD vecchio o nuovo che sia, anzi più propensa a giocargli contro. L’aver voluto giocare da solo tutta la partita ne amplifica ancora di più le responsabilità personali. Qui siamo. E in autunno ci aspetta un referendum importante dove le ragioni del “SI” e del cambiamento vanno ben oltre lo stesso Matteo Renzi e la sua esperienza politica e personale. Per questo è sbagliata la personalizzazione che si è voluta creare (e sulla quale Renzi ha delle precise responsabilità) intorno a quella scadenza. Personalmente non vedo, in questo momento, alternative serie a Renzi e al suo Governo e condivido che il referendum rappresenti uno spartiacque troppo importante per la credibilità del nostro Paese e quindi mi aspetto, come semplice cittadino, che il nostro Presidente del Consiglio prenda atto della necessità di rivedere la sua impostazione come peraltro alcuni segnali sembrerebbero già indicare. Il punto non è dar ragione ai suoi oppositori ma saper costruire un ponte realistico con la società, tutta la società. Anche con chi vive con smarrimento e preoccupazione questa fase di transizione. La convergenza deve essere con chi vuole veramente cambiare questo Paese, quindi con chi si appresta con motivazioni diverse a impegnarsi per superare la prova referendaria. Occorre far crescere nel Paese un dibattito vero sulle ragioni del cambiamento e sulla necessità di andare oltre gli scontri tutti interni alla politica e lontani dalla comprensione di chi i problemi concreti li vive tutti i giorni. Occorre riprendere a confrontarsi con i corpi intermedi per rilanciare un vero patto per lo sviluppo, dare fiato alle associazioni, costruire punti di convergenza vera, rinnovare i contratti di lavoro scaduti e dare segnali a chi resta indietro anche sul piano fiscale. La legge di stabilità sarà un passaggio importante. Occorre ritornare a parlare al Paese con onestà e sincerità. E su questo giocare le proprie carte. Il Paese ha bisogno di fondisti non di scattisti che si ritirano alle prime difficoltà.

La disfida delle adesioni. Una inutile contrapposizione.

In molti comparti del settore privato lo sciopero  non è più uno strumento in grado di modificare, di per sé, una forte contrapposizione presente in un negoziato. Nel terziario di mercato, ancora di più. Negarlo non serve. Come non serve, da parte datoriale, trasformare un dato numerico relativo alle partecipazioni, spesso irrilevante sul complesso degli addetti, come prova della scarsa adesione dei lavoratori alle tesi sindacali. Non è così. Siamo nel 2016. Il mondo del lavoro ha subito profondi cambiamenti. Così come le aspettative e le priorità delle persone. La crisi poi ha fatto il resto. Sul piano qualitativo un rinnovo di contratto nazionale non mobilita né coinvolge più emotivamente come in passato mentre sul piano quantitativo occorre tenere conto che l’inflazione è quasi a zero e la relazione tra speranze individuali, e ciò che si prospetta in un rinnovo, è spesso difficile da trovare. Il risultato economico, in genere, è scarso o insufficiente per le aspettative del singolo lavoratore (ad esempio nella GDO parliamo di 85 euro lorde scaglionate in tre anni), le modifiche normative non sono quasi mai particolarmente innovative per il singolo e, infine, il tempo che intercorre tra le assemblee di ratifica delle richieste sindacali e la conclusione dei negoziati è ormai infinito. Tutto questo però non significa che i lavoratori non ne auspichino il rinnovo o condividano la rigidità della rappresentanza delle imprese. C’è una aspettativa e c’è un’attesa. Per le singole aziende, al contrario, il costo di un contratto nazionale non è affatto insignificante. Soprattutto oggi che rappresenta, di fatto, l’unica pesante erogazione collettiva che incide in una fase di crisi dei consumi. Si somma ad un costo del lavoro già pesante, provoca un incremento dei costi non trasferibile sui prezzi, coinvolge tutti i collaboratori indipendentemente dal contributo individuale, e non fa differenza tra aziende in diverso stato di salute o che hanno già un costo aggiuntivo legato alla contrattazione aziendale. Quindi, se i rapporti di forza lo consentono, i contratti nazionali non si firmano più. E questo non riguarda solo la GDO. I comunicati che seguono le giornate di agitazione sono oggettivamente banali. Insieme ad una conta ragionieristica sui presunti partecipanti manifestano una apparente disponibilità finalizzata a non mettersi contro i livelli istituzionali, i media o l’insieme dei consumatori. O se, di parte sindacale, assumono inutili toni trionfalistici che non spostano minimamente i rapporti di forza né le intenzioni della controparte. Occorre prendere atto che non sono più gli scioperi a consentire oggi di firmare un contratto nazionale così come non può essere l’assenza degli stessi a impedirne la chiusura. Non sarebbe corretto. Proprio per questo la scelta di Confcommercio e dei sindacati del terziario, ormai più di un anno fa, è stata quella di individuare un bilanciamento che consentisse di erogare un beneficio economico (pur sofferto) in cambio però di una maggiore flessibilità organizzativa. Questa è la strada. Non credo sia una buona strategia andare avanti senza individuare soluzioni accettabili ad entrambe le parti. Non è più rinviabile un impegno a ricercare, insieme, nuovi percorsi che consentano di affrontare, senza conflitti inutili, queste situazioni. Noi non siamo la Francia. C’è un tessuto sociale che regge fatto di responsabilità, correttezza e buon senso. Una parte della GDO, ad esempio, sa benissimo cosa vuol dire lasciare il campo alla radicalizzazione estremistica come è avvenuto in molti centri logistici e distributivi infestati da forme di rivendicazionismo  esasperato. Quindi c’è un grande spazio per individuare forme nuove di scambio, di autoregolamentazione, di arbitrato o di contropartite collegati al negoziato stesso. Sia a livello, aziendale o di comparto. Un sistema moderno di relazioni sindacali non può prescindere da nuove regole del gioco, ma anche di gestione del possibile conflitto, che dovranno accompagnare le aziende nei prossimi anni. È ora di affrontare queste sfide con determinazione ma anche con lungimiranza e mettere in soffitta ciò che deve essere conservato ormai tra i ricordi o tra gli incubi (dipende dai punti di vista) del ‘900.

La stagione della responsabilità

Dopo Confcommercio anche Confindustria ha messo sul tavolo le sue carte. Non c’è più tempo da perdere. Di fronte ai rischi di disgregazione presenti sia a livello europeo che nazionale la ricetta per affrontare con determinazione i problemi del Paese deve far convergere tutti i protagonisti principali sulla necessità di dare il via ad una grande stagione della responsabilità. Della politica, innanzitutto ma anche dei corpi intermedi che sono disponibili a portare il loro contributo per cambiare, insieme, il nostro Paese. Nel discorso del nuovo Presidente di Confindustria non ci sono stati né arroccamenti né recriminazioni. Un’Europa che deve ritrovare nel pensiero di Jaques Delors la sua missione così come in quello di Papa Francesco la sua vocazione ad aprirsi a chi fugge dalle guerre e dalla fame. Un’Europa unita, moderna e votata alla crescita economica dove il nostro Paese può giocare un ruolo importante. E, in questa nuova stagione, che insieme si vuole aprire, c’è spazio per tutti, anche per un rilancio propositivo del dialogo tra le parti sociali. È un segnale importante. Non c’è stata una sottolineatura di forte delusione, come nel discorso di commiato di Giorgio Squinzi, per lo stato dei rapporti con i sindacati confederali. C’è semmai una disponibilità offerta sulla necessità di una collaborazione a 360 gradi per continuare il processo di cambiamento del Paese. È una sfida importante che potrebbe aprire scenari nuovi. Tre punti su tutti. La centralità delle risorse umane per l’impresa di oggi è di domani, l’esigenza di un confronto vero sulla innovazione e sulla produttività delle imprese ma anche del Paese e infine la riconosciuta importanza che questi strumenti possano essere individuati tra le parti sociali evitando l’intervento del legislatore. È una apertura di credito significativa che consente a tutti i soggetti sociali disponibili di rientrare in gioco con proposte credibili e atteggiamenti responsabili superando pregiudizi e pessimismi di varia natura. Ma questa apertura di credito è stata accompagnata da un chiaro avviso ai naviganti. Di metodo ma anche di merito: il decentramento contrattuale è un obiettivo da realizzare in alternativa al contratto nazionale che però può e deve restare sia per le norme di carattere generale che per le imprese che non sono in grado per vari motivi di passare alla contrattazione aziendale. Quindi nessuna concessione ai fautori del doppio livello contrattuale. E questo è un elemento che, più di altri, dovrebbe far riflettere i negoziatori impegnati nel rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Confindustria si schiera su una posizione molto simile a quella espressa da Federmeccanica. E annuncia che attenderà l’esito di quel confronto prima di aprirne un’altro al proprio livello. Quindi il rischio del muro contro muro è inevitabile? Non credo. Personalmente sono convinto che lo scontro sul salario che sembra essere al centro del rinnovo sia ricomponibile con una mediazione tutto sommato accettabile. Trovo molto più complessa una mediazione su altri punti centrali come, ad esempio, sui contenuti, sul peso e sulla natura dei nuovi livelli contrattuali. E quindi sul ruolo stesso e sui confini di azione del sindacato. Il presidente Boccia ha parlato chiaramente di “collaborazione per la competitività”. Questa è la sfida. Non c’è più spazio per modelli sindacali che ritengono possibile includere tutto e il contrario di tutto. Adesso è il momento delle scelte. Questa è la sfida per il sindacato. D’altro canto l’errore che non dovrebbe fare Federmeccanica e quello di sottovalutare le dinamiche di cambiamento che sono in atto nelle organizzazioni sindacali privilegiando un atteggiamento tattico a discapito di un disegno strategico che, di fatto, favorirebbe un inutile e tardivo ritorno al passato. Le condizioni per aprire una nuova stagione di collaborazione ci sono tutte. Adesso la parola passa a chi deve tradurre l’importanza di certe affermazioni e le aperture di credito in azioni e scelte concrete. Vedremo chi ne sarà capace.

Una sfida da accettare perché è alla nostra portata.

A metà gennaio il rapporto sul futuro dell’impiego pubblicato dal WEF non lasciava molto spazio alle illusioni. Gli effetti della quarta rivoluzione industriale comporteranno nuove attività nei prossimi cinque anni che creeranno circa due milioni di nuovi lavori. Purtroppo circa sette milioni di posti di lavoro saranno distrutti e questo al netto di eventuali nuove crisi. Un panorama fosco al quale non siamo sicuramente preparati. In Germania la platea dei minijobs non sembra destinata a comprimersi, in Francia i “jobber” stanno diventando un fenomeno sempre più diffuso tanto da passare, negli ultimi dieci anni da un milione a 2,3 milioni. In italia l’esplosione dei voucher segnala un problema che non si può comprendere se ci si limita solo a negare la realtà che ha provocato l’ingigantirsi del fenomeno. C’è chi pensa di nasconderlo sotto il tappeto magari ritornando al lavoro nero, sommerso o illegale coprendo una realtà che sta emergendo in tutta la sua crudezza. Da un lato il lavoro così come lo abbiamo conosciuto con le sue regole, i suoi vincoli e i suoi costi e dall’altro la necessità di costruirsi un reddito per chi, quel lavoro, non avrà la possibilità di ottenerlo. C’è “uno spettro” (la disoccupazione giovanile) che si aggira per l’Europa e che colpisce le speranze di molti giovani ma che non sembra risolvibile solo con la leva degli incentivi o degli sgravi. La mancanza di sviluppo rende tutti più fragili e più esposti alla demagogia e alla retorica. E così, invece di concentrarci sulle risposte in vista di ciò che appare all’orizzonte ci si limita a litigare nei Paesi e tra i Paesi come i polli di manzoniana memoria. È chiaro che non è questa la strada. Così come credo che nessun Paese possieda una ricetta autarchica. La globalizzazione la renderebbe comunque indigesta agli altri mettendo in forse la stabilità sociale di tutto il continente. Basta solo osservare i contraccolpi politici ed economici dell’immigrazione sui singoli Paesi e il conseguente esplodere di contraddizioni sempre più difficili da governare. Possiamo rassegnarci o sperare che altri ci pensino. Oppure impegnarci e portare il nostro contributo. Ovviamente alcune risposte possono solo essere europee e in quella sede vanno cercate. Nei singoli Paesi, però, ciascuno deve farsi carico del problema. Innanzitutto imprese e sindacati. Ovviamente né in termini assistenziali, né pensando che le vecchie ricette possano funzionare in questo contesto. Una crescita “zero virgola” non produrrà alcun beneficio significativo sull’occupazione. A mio parere occorre agire su due piani. Innanzitutto agevolando tutto ciò che porta a condividere rischi e opportunità tra capitale e lavoro. Questo comporta mettere mano ai contenuti del rapporto di lavoro. Flessibilità, salario, inquadramento, variabile, welfare. L’obiettivo non è ridurre i salari ma renderli più coerenti con un nuovo modello. E, ovviamente, occorre puntare a forme innovative di collaborazione alla vita dell’impresa. In secondo luogo ridurre i contratti nazionali lasciando alle singole imprese e ai lavoratori che vi operano la possibilità di adattarli alle esigenze specifiche. Così come in comparti omogenei. Questo per evitare situazioni di dumping tra le aziende. In terzo luogo riorganizzare forme di welfare contrattuale intersettoriale (previdenza, sanità e formazione). Occorre formare masse critiche rilevanti come già presenti in altri Paesi e non rinchiudersi in modesti interessi di settore con “fondini” ad uso e consumo più di chi li governa che di chi ne dovrebbe trarre benefici concreti. Un sistema di politiche attive che supporti i momenti di passaggio tra un’attività e un’altra è fondamentale e la possibilità di effettuare stage formativi (non strumentali) durante il percorso di studio. Io credo che occorra osare proponendo una sorta di leva civile “obbligatoria” per i nostri ragazzi alla quale le imprese dovrebbero sentirsi coinvolte positivamente. Ovviamente sarebbe meglio proporla a livello europeo per favorire una effettiva integrazione tra mondi e culture differenti. Ma tant’è. Infine il Governo dovrebbe contribuire intervenendo sul piano legislativo e fiscale. Nel primo caso aiutando le parti sociali a trovare le risposte adeguate. Il ruolo delle parti sociali è fondamentale e non va sottovalutato. Nel secondo intervenendo a sostegno con sgravi finalizzati che spingano le aziende ad accettare questa sfida. Certo, in un Paese condannato all’immobilismo come il nostro, potrebbe sembrare ingenuo proporre cambiamenti radicali e difficili da condividere. A mio parere siamo però di fronte ad una svolta epocale. Qualcuno si sta attrezzando per affrontarla semplicemente demolendo le regole attuali. Il risultato sarà una sorta di darwinismo sociale che non porta da nessuna parte. Altri stanno rimettendo al centro le persone. La loro qualità, il loro futuro e anche i loro interessi. Per i primi è sufficiente smantellare l’esistente. Per i secondi occorre costruire un sistema efficiente con nuove regole del gioco. La nostra società, come le altre società occidentali, non è in grado di reggere a lungo un modello darwiniano. La coesione sociale ne risentirebbe in modo grave. Per questo occorrerebbe dotarsi di progetti ambiziosi e coerenti. Nel nuovo paradigma economico e sociale che si sta delineando c’è spazio per le persone, per la loro intelligenza e per la loro dignità. E per il loro futuro. Dobbiamo creare le condizioni perché questo sia possibile.

L’importanza della ripresa del confronto tra le parti sociali

Qualcosa, forse, si sta muovendo. Per ora solo impercettibili segnali di interesse reciproco a riprendere il filo di un dialogo costruttivo. L’occasione può essere data dall’insistente quanto opportuna richiesta di apertura di un confronto sulle relazioni sindacali e i livelli della contrattazione di Cgil, Cisl e Uil mentre il Governo fa trapelare la volontà di intervenire “autonomamente” a breve. Premetto che sono personalmente convinto che il negoziato di merito sia ancora prematuro ma ritengo altrettanto importante la ripresa di relazioni formali e costruttive. È troppo tempo che il confronto avviene a distanza o precipita nella necessità di trovare mediazioni ai tavoli contrattuali. La fine della stagione della concertazione e la stagione degli accordi separati hanno portato con sé l’idea che ognuno deve limitarsi a pensare e mediare solo in casa propria. E, in ciascuno dei luoghi di reciproca appartenenza, gli altri appaiono sempre più distanti, spesso incomprensibili nei linguaggi e nelle loro legittime identità. E non costruendo nulla insieme, si cerca di difendere al meglio le rispettive ragioni e posizioni. E questo a fronte di un Governo che, sempre meno, è in grado di utilizzare la leva distributiva per accontentare questa o quella istanza proposta. La mancanza di risultati tangibili, la natura e la dimensione della crisi, l’asimmetria di peso e di potere degli attori in gioco e la dimensione globale delle dinamiche competitive allentano inevitabilmente i rapporti con i rispettivi associati e incidono sulle rispettive capacità di mobilitazione. E se la capacità tradizionale di difendere le posizioni viene meno non cresce la capacità di proposta perché costretta nei recinti angusti dei propri mondi sempre più paralleli e sempre meno convergenti rispetto agli altri. Ma esistono tematiche che, per loro natura, sono di interesse trasversale e quindi sarebbero molto più gestibili e autorevoli se portate avanti, insieme, all’interno di una vera e innovativa cultura del confronto e della proposta. Il futuro prossimo del nostro Paese potrebbe dipendere anche da questo. La qualità della nostra democrazia, i necessari investimenti per sostenere la ripresa economica, i settori nei quali concentrare gli interventi, la lotta alla corruzione, al malaffare e alla malavita organizzata, i sistemi di welfare, il mezzogiorno solo per citare quelli che, credo, potrebbero rappresentare una grande occasione di confronto e di proposta dove ciascuno, però, non si dovrebbe limitare ad esprimere una posizione ma, con coraggio, dichiarare la propria disponibilità, nei fatti, a mettere sul tavolo parte dei suoi interessi particolari finalizzandoli ad un obiettivo comune. Quindi un nuovo ruolo dei corpi intermedi, uniti, non per chiedere, non per difendere una legittima prerogativa di parte ma per offrire il proprio contributo al futuro del nostro Paese. Personalmente credo che le parti sociali siano individualmente e inevitabilmente destinate a perdere autorevolezza e terreno. Non ci sono risorse da distribuire, la pazienza del Paese è al limite e ci sono rischi evidenti che si incrinino pilastri portanti della convivenza civile che reggono il rapporto tra culture, territori e generazioni. Se la situazione ha tenuto fino ad ora è anche grazie al lavoro “invisibile ma quotidiano” dei corpi intermedi che non hanno offerto sponde alla disperazione, alle incertezze sul futuro e alle tentazioni disgregatrici interne ed esterne. A differenza di quasi tutta l’offerta politica che, al contrario, cerca occasioni per dividersi su tutto senza trovare motivi di unità nell’interesse generale, i corpi intermedi non hanno mai scelto questa strada. Anzi. I segnali di unità nel mondo del lavoro, le iniziative comuni tra le organizzazioni datoriali esprimono altre vocazioni. Saperle mettere a fattor comune rappresenterebbe un vero salto di qualità di cui abbiamo bisogno. La ripresa del confronto, seppur provocata da temi “minori” potrebbe rappresentare l’occasione per iniziare un percorso nuovo di ricerca di una collaborazione costruttiva per qualcosa che sappia andare ben oltre i legittimi interessi di ciascuno. Per questo non è importante il luogo, la ragione o la scusa. Sarà più importante concordare l’ordine del giorno e le priorità. Le modalità, i tempi e la qualità delle intese vengono dopo.

La metafora della Reggia di Caserta…

Quello che è accaduto alla Reggia di Caserta deve farci riflettere. Per certi versi è una metafora del nostro Paese. Un luogo bellissimo che tutti ci invidiano, sottovalutato, da rilanciare, dove un direttore cerca di impegnarsi, in perfetta solitudine, completamente circondato da una fortissima resistenza al cambiamento. Il fatto che, questa resistenza, si sia manifestata con una lettera sottolinea ancora di più l’arroganza di chi pensava che, nascondersi dietro una o più sigle sindacali, fosse sufficiente a “spaventare” l’intruso costringendolo a recedere e a comportarsi di conseguenza. I “mariuoli” non pensavano certo di assurgere agli onori della cronaca nazionale. Pensavano che, a seguito della loro iniziativa, qualche solerte funzionario sarebbe stato inviato dal Ministero per mediare, magari convincendo il direttore che, certe richieste di maggiore impegno e disponibilità, pur assolutamente condivisibili, avrebbero dovuto essere gestite con maggiore tatto e sensibilità nei confronti dei sindacati locali. Così facendo il direttore avrebbe perso completamente la sua autorità (ma anche la sua motivazione) e si sarebbe trovato ostaggio, non dei lavoratori, ma di qualche “cacicco” locale che, in questo modo, avrebbe potuto rimarcare il suo potere personale di interdizione. Fortunatamente non è andata così. I vertici confederali non hanno avuto dubbi a schierarsi dalla parte della ragione creando quell’isolamento necessario che sarà fondamentale nei prossimi mesi e che consentirà al direttore a continuare il suo lavoro con ancora maggiore determinazione. E sicuramente presto, tutti noi, ne godremo i benefici. Nessuno ha avuto dubbi su quali fossero i veri interessi in gioco. Né il Governo, né le parti sociali, né i media, né l’opinione pubblica. Quello che mi chiedo è perché tutto questo “buon senso” non possa essere trasportato a livello “Paese”. Ne avremmo veramente bisogno. Se tutti insieme convergessimo su quattro o cinque macro obiettivi fondamentali e non ci perdessimo in scontri verbali di retroguardia trasformeremmo questo nostro Paese in una Reggia. Non bisogna essere dei fini politici per capire che il Paese che dobbiamo cambiare è quello che si nasconde dietro quei comportamenti, che a Caserta si sono manifestati alla luce del sole, ma che sono presenti e radicati ovunque. Nella politica, nei diversi ceti sociali, nei corpi intermedi, nei media, nelle istituzioni. E che solo con uno scatto di orgoglio e di determinazione collettiva riusciremo a sconfiggere. Il nostro è un Paese che ha bisogno di una nuova Costituente più che di una nuova Costituzione. I corpi intermedi potrebbero dare il proprio contributo convergendo unitariamente su alcune proposte sulle quali sono disposti a mettersi in gioco. Così come a Caserta si è scelto il Direttore senza se e senza ma, in questo caso si sceglierebbe il Paese, l’interesse generale e la necessità di riscriverne le regole del gioco. E così passare finalmente da una logica difensiva ma perdente dove domina il “già dato” e “cosa mi aspetto dal mio Paese” a quello di “cosa posso fare”. Prima che sia troppo tardi.

“Fare impresa per creare valori”

Roger Abravanel non poteva ottenere migliore risposta. Confindustria c’è. Per la prima volta nella sua storia una delle grandi organizzazioni degli imprenditori italiani decide che è arrivato il momento di chiedere ai suoi associati un importante momento di riflessione sul senso e sul ruolo dell’imprenditore nella società. E non lo fa chiedendolo a qualche intellettuale amico in un convegno ma a quello che sempre più si sta dimostrando un grande punto di riferimento in questo cambio di paradigma economico, sociale e politico che attraversa l’intero pianeta: Papa Francesco. E non è stata una passerella mediatica. Anzi. È stato un momento fortemente simbolico. In Italia ci sono oltre cinque milioni di imprenditori. Un numero sconosciuto altrove. Cinque milioni di persone che ogni giorno devono trovare in se stessi la forza e l’ingegno di guardare avanti. In un mondo dominato dalla finanziarizzazione e dall’integrazione globale non è facile. Non lo è mai stato ma oggi lo è ancora meno. Per affrontare questa sfida quotidiana, oggi più che mai, occorre trovare un senso, una ragione, una direzione di marcia che sappiano andare oltre la semplice realizzazione del profitto e del benessere personale. Ed è questo disorientamento sul proprio futuro, su quello dei propri figli, sulla capacità o meno di navigare in mari sconosciuti ma anche sulla grande responsabilità rispetto ai propri collaboratori e alle loro famiglie che spinge a cercare dentro di sé una motivazione, una forza d’animo un senso che rimetta in discussione vecchie convinzioni alla ricerca di un ruolo attivo, di presenza, nella comunità. In una comunità nazionale anch’essa percorsa da smarrimento, incertezza, preoccupazione verso il futuro dei propri membri. Ed è questa necessità di sentirsi di nuovo “parte” e non solo “homo oeconomicus” che mostra in tutta la sua forza morale il messaggio di Papa Francesco e la volontà degli imprenditori di interrogarsi veramente. Frasi come “Non c’è giustizia e benessere senza il rispetto dell’individuo” pronunciata dal Papa, oppure “rinnoviamo l’impegno a costruire una società più giusta e vicina alle nostre persone” pronunciata da Storchi, presidente di Federmeccanica, segnalano la presenza di qualcosa di più profondo che Confindustria ha avuto il merito di intercettare e di fare emergere in tutta la sua forza. Certo non basta. Ma guardiamoci intorno. Dove cogliere un segnale altrettanto importante? Nel mondo, in Europa o anche più vicino a noi? Nulla. Tutto sembra andare in ben altra direzione. “Come sarebbe diversa la nostra vita se imparassimo a costruire insieme”. In questa affermazione semplice, diretta ma inequivocabile sta il senso del messaggio di Papa Francesco. L’applauso degli imprenditori presenti rappresenta una conferma e un impegno. Hemingway sosteneva che:”dobbiamo abituarci all’idea che ai più grandi crocevia della vita, non c’è segnaletica”. Beh! Questo è un segnale forte e chiaro. A tutti noi saperlo coglierlo o meno.

L’indispensabile vitalità dei corpi intermedi.

È difficile replicare a Roger Abravanel. La sua convinzione sulla sostanziale inutilità dei corpi intermedi è granitica. Così come la certezza che la contrattazione nelle singole aziende di qualsivoglia dimensione rappresenterebbe la soluzione ottimale per imprese e lavoratori. Nella sua intervista televisiva auspica, addirittura, una fine parallela per le organizzazioni datoriali e sindacali. Anzi. Utilizza le critiche di Bombassei e Marchionne per generalizzare un opinione di sostanziale inutilità dell’organizzazione datoriale che, a suo giudizio, sarebbe condiviso da molti imprenditori. È una opinione diffusa. E non da oggi. Innanzitutto essere iscritti ad un’organizzazione sindacale non è obbligatorio così come è ovvio che chi ha ritenuto opportuno non rinnovarne l’iscrizione ha tutto il diritto di criticarne i comportamenti. La volontarietà e quindi la libertà di aderire o meno, di per sé, dovrebbero far riflettere chi crede nel tramonto imminente dei corpi intermedi. Personalmente credo che questa prospettiva non sia né prevedibile né auspicabile. I corpi intermedi, pur attraversando, nel tempo, cicli di crescita e di calo del tutto fisiologici, hanno una vitalità propria difficile da contestare. La loro legittimità è data dalle migliaia di imprese e lavoratori che nei territori, nelle associazioni o nelle federazioni conferiscono loro un mandato. Basterebbe entrare in una qualsiasi sede associativa periferica per rendersene conto. Far da soli non è sempre possibile. Chi è in grado di farlo sottovaluta spesso l’esigenza di rappresentanza che ha chi non è in grado di tutelarsi da solo. Per fare solo un piccolo esempio recente basta citare il caso dei proprietari di appartamento di Firenze sostenitori della disintermediazione, che, ai primi problemi di rapporto con la loro controparte, hanno ritenuto indispensabile associarsi per trattare al meglio con Airbnb. Ma è così ovunque e su ogni tema che abbia un interesse minimamente collettivo. Quindi ipotizzarne un declino irreversibile e definitivo è, di per sé, un errore di valutazione. Non va sottovalutata, inoltre, la capacità di rigenerazione dei corpi intermedi. Sicuramente più marcata in periferia, meno evidente al centro, dove resta però fondamentale la presenza di una leadership riconosciuta e autorevole in grado di determinare un impatto mediatico specifico. In periferia, è evidente registrare una presenza a macchia di leopardo a seconda del differente insediamento territoriale e della capacità di interazione con il contesto economico, sociale e politico. Detto questo nessuno nega la necessità di profondi cambiamenti sia per le organizzazioni datoriali che sindacali. Ma questo non c’entra nulla con la disintermediazione auspicata da alcuni esponenti del mondo politico e da alcuni opinionisti poco informati sulle dinamiche organizzative e sociali proprie del nostro Paese. La presenza di più candidati alla carica di Presidente di Confindustria è un segno di grande vitalità. Ciascuno di loro porta con sé un modo specifico di intendere la rappresentanza. Chiunque vincerà proporrà scelte differenti che influenzeranno non poco il contesto politico. Confcommercio ha, da parte sua, da tempo avviato profondi programmi di rinnovamento investendo su progetti organizzativi importanti sia a livello locale che centrale. Anche nei sindacati dei lavoratori si registrano chiari segnali di cambiamento, ad esempio, nelle categorie industriali della CISL ma anche in scelte precise di rinnovamento dei gruppi dirigenti locali e centrali in molte categorie della Cgil. Tutto questo è sufficiente? Ovviamente no. La velocità di cambiamento del contesto economico nazionale e internazionale impone una accelerazione continua per fornire alle imprese e ai lavoratori punti di riferimento costanti su temi quali modelli contrattuali praticabili, nuove tutele, servizi innovativi, welfare integrativo, reti e capacità di sviluppare integrazione nelle filiere. Quindi tutto ciò che è fuori dalla portata dei singoli. Ipotizzare un contesto futuro che non preveda contrappesi sociali significa inevitabilmente rassegnarsi ad un modello di società darwiniana dove solo ai più forti è consentito dettare le regole del gioco. Esattamente l’opposto di ciò che serve ad una comunità nazionale complessa come la nostra che deve trovare nella convergenza di interessi e nella collaborazione tra generazioni e territori la sua rinnovata ragion d’essere.

Chi fa da sé, non fa per tre…

Nuove associazioni di imprese, di professionisti, di attività. L’ultima, in ordine di tempo, è nata a Firenze con lo scopo di mettere a fattor comune i problemi di chi affitta il proprio appartamento su AIRBN. È un segno dei tempi o si rischia, ancora una volta, di confondere un alba con un tramonto? È già successo con i sindacati dei lavoratori. Intorno al sindacalismo confederale sono nate e si sono sviluppate una infinità di sigle che non hanno mai contato nulla e che non hanno portato risultati apprezzabili e concreti ai propri iscritti. Solo disagi a terzi. Nei professionisti sta succedendo, più o meno, la stessa cosa. Tanto fervore organizzativo ma due ostacoli restano comunque insormontabili: la mancanza di risorse che impedisce ristorni significativi da parte pubblica per i rispettivi soci e, pensando a lungo termine, la scarsa massa critica per operazioni di necessarie nuove forme di welfare a favore dei propri associati. Resta solo la convinzione di avere un maggiore peso contrattuale mettendosi insieme evitando, contemporaneamente, le grandi organizzazioni di rappresentanza. E cosi un’attività che nasce proprio per disintermediare, ai primi problemi, propone forme di aggregazione tradizionale. Da qui la prima riflessione. Fare da soli è comunque molto difficile. Soprattutto quando l’interlocutore principale è di grandi dimensioni e agisce in un contesto planetario e anche lo Stato nazionale arranca e insegue con le sue leggi e le sue determinazioni. In secondo luogo è necessaria, sia una struttura per finalità specifiche (federazione, associazione, ecc.) ma anche un contenitore più ampio che consenta autorevolezza, forza e massa critica utile a moltiplicare l’effetto associativo verticale. Le principali organizzazioni di rappresentanza sono, da sempre, strutturate in questo modo. È la loro forza sia localmente che centralmente. E, soprattutto, le grandi organizzazioni datoriali ma anche quelle dei lavoratori sono strutturalmente integrate nel Sistema e quindi conoscono, rispettano ma contribuiscono anche a modificare a proprio vantaggio le regole del gioco. E questo resta un punto di forza soprattutto quando la partita non si svolge solo nel proprio cortile di casa. Queste nuove realtà spesso nascono e si sviluppano fuori dalle regole proprio perché sfuggono ad una valutazione tradizionale. Un agriturismo, una sagra di paese, un bed and breakfast, un affittacamere, se fanno attività dove altri sono soggetti devono sottostare a regole precise (igiene, sicurezza, contabilità, fisco) sono tenuti anch’essi a rispettarle o no? Stesso mercato, stesse regole vale per tutti o solo per chi opera in un settore da più tempo? Ovviamente nessuno vuole impedire la nascita di nuove attività sia in campi tradizionali che ovunque ma le regole sono importanti se valgono per tutti. I corpi intermedi hanno questa capacità di operare sintesi rispettate dai propri associati. Pensare di scavalcare questo ruolo non rende tutti uguali, semmai tutti più deboli.

Lotta all’evasione fiscale, vera battaglia di civiltà.

La prima conferenza televisiva del nostro Presidente della Repubblica verrà ricordata per le parole chiare e nette che ha pronunciato sullo scandalo dell’evasione fiscale nel nostro Paese. Non è un caso, che, anziché limitarsi ad un forte quanto generico appello sul tema, ha volutamente citato una recente ricerca di Confindustria pubblicata da poco tempo e caduta immediatamente nel dimenticatoio. Secondo me ha voluto indicare un confine. Un limite ormai intollerabile. Il punto di passaggio necessario dalle parole ai fatti. L’evasione fiscale non è solo un grave problema economico per un Paese come il nostro. E non divide semplicemente i buoni dai cattivi cittadini. E soprattutto, non sempre, i cattivi sono gli “altri”. Ci sono le multinazionali che scelgono residenze fiscali convenienti, industriali, commercianti, artigiani e professionisti di diversa estrazione. Perfino il giovane o l’insegnante pubblico che danno ripetizione in nero al figlio del cassaintegrato in difficoltà con gli studi. C’è una grande evasione e una diffusa mentalità indulgente verso vari tipi di evasione. Ciascuno di noi, sul tema, giustifica ciò che gli pare. Ma, oltre alla solita litania su scontrini, idraulici e dentisti, c’è anche la malavita organizzata, la corruzione, il lavoro nero, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri. E di questa “evasione” si parla molto meno. È evidente che siamo al cospetto della madre di tutti i nostri problemi. Combattere sul serio l’evasione significa cambiare veramente la qualità del nostro Paese. Ma è un’impresa difficile che deve mobilitare tutte le coscienze. Altrimenti è un’impresa impossibile. Per questo il nostro Presidente ha fatto bene a parlarne. Al Governo e al Parlamento spetta agire già nel 2016. Altrimenti resteranno parole al vento che rischiano di coinvolgere nel giudizio anche la più alta autorità morale del Paese che ha indicato le priorità del 2016. Dal punto di vista economico c’è già maggiore consapevolezza nel Paese. La cassa è vuota, le tasse sono oltre al limite di sopportazione e non sarà lo zero virgola concesso di volta in volta da Bruxelles a far cambiare verso all’Italia. Aumentare le entrate riducendo con gradualità la pressione fiscale significa far pagare le imposte a chi non le paga. La metà dell’evasione censita dal centro studi di Confindustria porta ad un’aumento di 3,5 punti del PIL quindi, si stima, ad un effetto sull’occupazione superiore al Jobs Act. E questo senza mettere le categorie, i territori e le generazioni gli uni contro gli altri. È l’unica possibilità nel breve/medio periodo di aumentare considerevolmente le entrate. Per farlo, però, serve un vero patto nazionale. Ma soprattutto serve che nessuno si smarchi. Non tutti hanno applaudito il discorso del nostro Presidente. Però quelli che hanno applaudito sono indubbiamente la maggioranza. Anzi. Siamo la maggioranza. Forse serve solo qualcuno che interpreti questa nuova disponibilità all’ascolto e alla concretezza. Il fatto che per la prima volta il monito sia partito dalla più alta carica dello Stato è veramente importante.